Punire le imprese più efficienti sta diventando una componente ordinaria del nostro sistema fiscale. La decisione del Governo potrebbe portare qualche voto in più ma dimentica che se agli istituti di credito dovessero mancare risorse finirebbero per ribaltare una parte dei maggiori costi sui clienti
di Istituto Bruno Leoni
In un celebre apologo, Frédéric Bastiat partiva dalla vicenda del vetro rotto di un fornaio per ammonire: il buon economista non può prestare attenzione solo agli effetti visibili e immediati, non può pensare solo a ciò che si vede. Spesso, nel commentare le cose economiche, la nostra attenzione è attratta da quello che ci si para innanzi agli occhi, e tendiamo a ignorare fatti altrettanto o più importanti che tuttavia non sono immediatamente percepibili. Nell’ultima riunione del Consiglio dei ministri il Governo ha seguito esattamente questa logica: ha agito con determinazione contro ciò che si vede, senza preoccuparsi delle conseguenze.
Questo vale, specialmente, per l’imposta sugli extraprofitti delle banche. Da tempo l’esecutivo era preoccupato dalle conseguenze dell’aumento dei tassi, in particolare per i mutui e gli altri finanziamenti. Così, si è colta la palla al balzo per introdurre una nuova tassa del quaranta per cento sugli extraprofitti maturati in questi mesi. I dettagli dell’extra-gabella non sono ancora noti, ma è possibile che ricalchi quella già introdotta dal governo Meloni sulle imprese del settore dell’energia (in aggiunta al balzello voluto dal governo Draghi sui medesimi contribuenti). In quel caso, si trattava di un’aliquota Ires del cinquanta per cento sugli utili eccedenti la media del quadriennio precedente. Per gli istituti di credito, si parla del quaranta per cento. Il fatto è che l’uno e l’altro prendono le mosse dall’idea che vi sia un livello “giusto” di profitti e che, quindi, eventuali performance migliori debbano in qualche modo essere sanzionate.
Non è solo paradossale questo atteggiamento punitivo nei confronti delle imprese più efficienti – e tanto più in contraddizione col mantra dello Stato che dovrebbe «non disturbare chi vuole fare». È soprattutto, un tic pavloviano di chi sotto sotto pensa che l’intervento pubblico non abbia altre conseguenze se non quella di redistribuire risorse da chi ne ha troppe (le banche, in questo caso) a chi ne ha troppo poche (i beneficiari della spesa pubblica). Ma ogni provvedimento di questo genere ha anche altre conseguenze. Intanto, gli istituti di credito avranno meno risorse e quindi finiranno probabilmente per ribaltare almeno una parte dei maggiori costi sui clienti. Inoltre, continueranno a vedere l’Italia come un paese caratterizzato da un livello di rischio politico eccessivo, con l’effetto che diventeremo sempre più periferici negli investimenti e nell’allocazione del credito.
Oltre tutto, si ha la sensazione che la caccia agli extraprofitti, da misura straordinaria, stia diventando una componente ordinaria del nostro sistema fiscale, che di volta in volta colpisce i settori che per merito o per fortuna hanno avuto risultati migliori. In soli due anni, si sono succedute almeno cinque imposte sugli extraprofitti: a gennaio 2022 il tetto ai ricavi di mercato di alcune fonti rinnovabili, a marzo l’imposta sugli incrementi dei saldi Iva delle compagnie energetiche, a dicembre la legge di bilancio con l’addizionale Ires sulle stesse imprese e un altro tetto sulle rinnovabili e, adesso, la stangata sulle banche.
È singolare che questo avvenga quasi contestualmente all’approvazione della delega fiscale: si parla sempre di semplificazione e riduzione delle tasse, e poi non si fa che aggiungere regimi derogatori, in melius per gli amici e in peius per chi ha scarsa capacità di mobilitazione. Il governo Meloni dovrebbe riflettere seriamente sul messaggio che manda e sulla coerenza di ciò che fa con ciò che dice, oltre che sulle conseguenze di ciò che si vede su ciò che non si vede.
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