Anno IX - Numero 12
La guerra non è mai un atto isolato.
Carl von Clausewitz

mercoledì 22 marzo 2023

Facebook, il più grande cimitero al mondo

La morte si fa social e Facebook, secondo le ultime stime, con i suoi oltre 2,9 miliardi di utenti conta attualmente oltre cinquanta milioni di utenti deceduti. La scelta di non eliminare in modo automatico questi account e il rallentamento endemico delle nuove iscrizioni potrebbe, tra qualche decennio, creare un numero di utenti inattivi maggiore rispetto a quelli attivi

di Augusto Ficele

Nel volume La morte si fa social (Bollati Boringhieri, 2019), il filosofo Davide Sisto segnala una previsione allarmante: «Secondo Hachem Sadikki, dottore di ricerca in Statistica presso l’Università del Massachussetts, nel 2098 il numero di utenti deceduti sarà addirittura superiore a quelli ancora in vita. I dati che lo portano a tale conclusione sono principalmente due: la scelta del social network di non eliminare in modo automatico gli account degli utenti deceduti e il rallentamento endemico delle nuove iscrizioni».
Il ricordati che devi morire è ormai l’esatto opposto: ricordati che non morirai più. Se l’essere umano prima si affidava alla religione al fine di sigillare la propria immortalità e mettere in salvo la sopravvivenza della propria anima dopo la morte, oggi, a trapasso avvenuto, attraverso la memoria digitale, vive infatti sempre online. Certo, la persona in vita può esercitare il diritto all’oblio, tuttavia la difficoltà di rendere indisponibili le ripubblicazioni – una notizia o una foto -, da parte di terzi, emerge chiaramente in un mondo in cui le informazioni possono essere condivise e duplicate sui social con estrema agilità.
Parlare di morte, soprattutto nella cultura occidentale contemporanea, risulta spesso un tabù da evitare visto che offusca il bisogno di una felicità imprecisa e porta con sé una paura generalizzata del dolore. La locuzione memento mori è quasi considerata un affronto dal momento che l’evidenza del pensiero della morte è silenziata e volutamente rimossa.
La finitezza dell’uomo porta alla luce un limite, un segno di debolezza per coloro i quali non riescono ad ammettere la definitiva e inequivocabile separazione da chi non c’è più. Accettare la morte non è mai facile, si cerca sempre l’elusione al negativo dell’esistenza, così nascono, sin dalle società arcaiche, innumerevoli sistemi per sottrarsi in qualche maniera all’ineluttabilità del corso biologico. A tal proposito, le tecnologie digitali offrono al defunto un fine vita non del tutto concluso, attraverso la realtà aumentata, le riproduzioni olografiche e il dialogo con un bot artificiale che simula una persona deceduta.

Il caso eclatante riguarda il giornalista americano James Vlahos che, nel 2016, viene a conoscenza del tumore all’intestino diagnosticato a suo padre John. Così decide di registrare tutti i momenti salienti della sua vita, tra ricordi, lavoro e passioni, con l’obiettivo iniziale di scrivere un libro commemorativo. Ispirandosi ad un progetto di due ricercatori che intendevano rielaborare milioni di dialoghi cinematografici per realizzare un chatbot interattivo, si serve di PullString, un programma pensato per creare conversazioni con personaggi di fantasia. Attraverso questa piattaforma, il giornalista prepara il materiale vocale registrato dal padre e archiviato nel computer negli mp3. Crea, in definitiva, un Dad-Bot, un software con cui simula sul cellulare una conversazione scritta con John, avendo immagazzinato e poi rielaborato quasi centomila parole registrate.
Tra i massimi studiosi in Europa di tanatologia, cultura digitale e postumano, è utile ancora menzionare Davide Sisto che, nel suo ultimo libro intitolato Porcospini digitali – Vivere e mai morire online (Bollati Boringhieri, 2022), scrive: «i corpi digitali sono carnali, dunque soffici e viscerali, dal momento che influenzano da un punto di vista emotivo, psicologico, culturale e sociale il nostro attuale modo di stare nel mondo onlife o nella società post-digitale, che dir si voglia. La mancanza di oblio, esito della persistenza dell’insieme caotico e disomogeneo dei nostri frammenti online, comporta - in primo luogo -, molteplici criticità nella gestione pratica delle eredità digitali. La vitalità fisica di queste pagine, a causa della sovrapposizione del tempo passato a quello presente, produce infatti un tipo di spettralità che non favorisce il salubre distacco dalla realtà vissuta insieme al proprio caro defunto. D’altronde, questa carne digitale favorisce tutte quelle dinamiche romantiche di comunicazione tra i vivi e i morti che sono alla base degli stessi Continuing Bonds, rimandando al contempo la mente alle teorie spiritiche del XIX secolo. Il carattere spettrale di queste presenze online porta poi a formulare esperimenti che, nel fornirle di un’autonomia fittizia tramite l’intelligenza artificiale, mirano al raggiungimento di una forma di immortalità digitale».

La demonizzazione degli strumenti digitali in rapporto alla mortalità risulta quantomeno superficiale. La tentazione di ricostruire un’identità surrogata del defunto, in cui reale e immaginario coesistono e si confondono, è palese negarla, tuttavia la condivisione del dolore è sana quando reca conforto e difende la memoria di sé, basti pensare ai cimiteri virtuali in cui i congiunti condividono stati d’animo ed esperienze.

Il primo luogo virtuale in cui si poteva annunciare la scomparsa dei propri cari e dedicare loro monumenti fu realizzato nel 1995 da Stanley Kibbee con il nome di World Wide Cemetery. Ogni monumento può comprendere fotografie, filmati, documenti sonori del defunto, rispetto a quello tradizionale e fisico non si deteriora con il trascorrere del tempo e può essere visitato senza problemi in qualsiasi parte del mondo. In Italia esiste il sito cimiteri.online in cui si celebra la morte dell’individuo attraverso l’omaggio alla sua memoria, creando un’accurata identità funebre digitale. 

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