Anno IX - Numero 10
Non è sufficiente parlare di pace. Bisogna crederci.
Eleanor Roosevelt

martedì 21 marzo 2023

Le banche centrali e il fantasma della credibilità

Prosegue la lotta degli aruspici della moneta contro l’inflazione. Con frustranti esiti, se compariamo le pronunce, tra il sibillino e l’apotropaico, alla realtà dei fatti. Che al momento restano piuttosto cocciuti

di Mario Seminerio 

Dopo un’ipotesi di flessione piuttosto veloce dei prezzi al consumo, verosimilmente causata dal forte calo dei prezzi dell’energia, e con gli indici cosiddetti core (quelli al netto di alimentari ed energia) che manifestano una tendenza inerziale all’aumento, gli ultimi dati mostrano una ripresa delle pressioni inflazionistiche complessive.

Alla ricerca della credibilità perduta
I banchieri centrali, dopo essere stati sconfessati nella loro lettura della “transitorietà”, hanno tentato di recuperare la credibilità perduta con forti e concentrati aumenti dei tassi ufficiali. Dopo alcuni mesi di stretta e un impressionante frastuono quotidiano di dichiarazioni, alla Federal Reserve avevano deciso di “attendere gli sviluppi” della terapia sin lì somministrata e di rallentare il passo degli aumenti, con la motivazione che la politica monetaria impatta sull’economia con ritardi variabili ma non brevi.
Il presidente della Fed, Jerome Powell, a un certo punto ha persino affermato che “la disinflazione è iniziata”, pur precisando che “richiederà tempo”. Durante la conferenza stampa successiva all’ultima decisione sui tassi, Powell ha evitato di ammonire le borse a non entusiasmarsi, perché i rialzi equivalgono a iniettare stimolo espansivo nel sistema (effetto ricchezza, in sintesi estrema). Già questa mancata levata di sopracciglio ha autorizzato i mercati a festeggiare e lanciarsi sugli acquisti. Poi, come detto, sono arrivati dati che suggeriscono il mancato “atterraggio morbido” dell’economia, oltre che nuove pressioni inflazionistiche, e i toni sono nuovamente cambiati.

La Bce, che si trova a dover gestire condizioni simili di persistenza delle pressioni sui prezzi e che ha in sé una netta maggioranza favorevole a nuove, sostenute e protratte strette, segue un percorso altrettanto aggressivo. Nel frattempo, sono stati pubblicati i primi studi che mostrano come l’inflazione dell’Eurozona non sia esclusivo frutto di uno shock dal lato dell’offerta ma abbia anche una altrettanto robusta componente di domanda. Anche se non pare ancora essersi manifestata una spirale prezzi-salari ma le aziende faticano a reperire personale.

Il punto da affrontare è soprattutto uno: la credibilità delle banche centrali. E quella del target di inflazione al 2% che per lunghi anni ha rappresentato l’ancoraggio delle cosiddette certezze dell’opinione pubblica e della credibilità dei banchieri centrali. Ora stanno moltiplicandosi le voci di chi pensa che quel 2% sia perso per sempre e che serva “altro”, non solo sul piano numerico.

A dirla tutta, bisognerebbe constatare che questa perdita di credibilità è stata costruita negli anni. In quanti ricordano che quel 2% è stato mancato per lunghi anni, malgrado politiche monetarie espansive senza precedenti? Ricordate le teorizzazioni sulla morte della curva di Phillips, la relazione tra inflazione e disoccupazione? Quella incredibile tendenza dei prezzi a non crescere, che ha concimato il terreno di chi teorizzava che le banche centrali potessero stampare moneta senza alcun problema, come gli adepti della Teoria Monetaria Moderna?

Quindi diremmo che ci sono due tempi di questa partita della credibilità: il primo è quello della disinflazione persistente e che a volte è diventata anche deflazione conclamata, causata dal rischio di collasso della bolla di debito; e l’attuale, dove quel 2% appare sempre più remoto e irrealizzabile, a meno di causare una recessione molto profonda, con conseguenti vittime tra la popolazione.

Quale target?
Ora ci si domanda, infatti, che fare di quel target di inflazione al 2%: lasciarlo o abbandonarlo? E in caso lo si abbandoni, a favore di cosa? E come reagiranno i mercati, quando sarà palese che il loro re, il banchiere centrale, è nudo? Lo è già oggi ma la speranza e le convenzioni sono le ultime a morire, notoriamente.

Al momento si stanno raccogliendo le idee per spiegare la persistenza dell’inflazione. Ad esempio, si afferma che la deglobalizzazione sarà un vento avverso, perché le catene di fornitura saranno rimodellate e compariranno duplicazioni e diseconomie di scala che fatalmente impatteranno sui prezzi. C’è poi chi afferma che l’inflazione fatica a essere compressa perché la politica fiscale resta espansiva, rendendo la vita molto difficile alle banche centrali.

I costi della guerra, i sussidi energetici, il desiderio dei governi di evitare rivolte sociali sono tutti elementi che portano a evitare politiche fiscali restrittive. C’è anche la teoria dei risparmi in eccesso, quelli accumulati durante la pandemia e da cui si attingerebbe per reggere gli aumenti dei prezzi. Ciò consente alle aziende di traslare a valle i maggiori costi, è l’assunto. Quindi, se vale questo ragionamento, quando queste riserve di liquidità saranno state drenate dall’inflazione, le aziende perderanno il loro pricing power e inizieranno a licenziare, raffreddando i prezzi. Come ulteriore prescrizione, partendo da quello che si ritiene essere l’eccessivo potere di mercato delle aziende, si suggeriscono misure di antitrust tali da favorire la concorrenza e di conseguenza abbassare i prezzi.

A quel punto, però, i governi dovranno scegliere se affrontare la rabbia sociale o mettere di nuovo mano a una politica fiscale espansiva per rammendare la rete di protezione sociale, e di conseguenza il rischio è quello di avere nuove spinte inflazionistiche.

Indipendenza a rischio
Né si deve escludere il rischio per la cosiddetta indipendenza delle banche centrali che deriverebbe da una loro scelta di procedere a continue strette, disinteressandosi del contesto sociale. La Fed ha come noto il doppio mandato, quello di un tasso d’inflazione che coesista con la massima occupazione (possibile). Tra le righe, già questa formula suggerisce che perseguire il 2% ad ogni costo potrebbe essere un “tradimento” del mandato duale.

Da altre parti del mondo potrebbe andare in modo simile e più sbrigativo. In Brasile, ad esempio, il presidente Lula contesta apertamente il governatore della banca centrale e la sua politica di tassi elevati, mettendo pesantemente in questione l’utilità sociale dell’attuale target di inflazione, che Lula considera un ostacolo alla crescita economica.

Quest’anno, la banca centrale brasiliana ha un obiettivo di inflazione al 3,25%, destinato a scendere al 3% nel 2024 e 2025, con un margine di tolleranza nei due sensi di 1,5 punti percentuali. Questo attrito istituzionale potrebbe essere il canarino nella miniera che attende le banche centrali, di fronte alla difficoltà a piegare l’inflazione verso gli obiettivi fissati.

In Eurozona potrebbero riprendere fiato le voci di chi chiede di tornare a monete nazionali, in modo da stampare deficit. Il conseguente ulteriore impulso inflazionistico verrebbe “gestito” chiedendo la scala mobile integrale, “come si faceva un tempo, quando eravamo ricchi”. E così via.

In sintesi, che fare? Come cercare di preservare e ricostruire la credibilità delle banche centrali rispetto al target di inflazione e alla loro comunicazione ad alto rischio di discredito? Potremmo ipotizzare un cambio del numero magico da raggiungere. Ad esempio, non più il 2% ma il 3 o il 4%. Dubito che questa resa sarebbe vissuta dai mercati e dagli agenti economici (famiglie e imprese) in modo rilassato, e che non scatenerebbe invece quella spirale prezzi-salari e quel disordine monetario che sin qui non si sono palesati in modo distruttivo.

Nel frattempo, il dibattito “accademico” che si sta sviluppando non appare esattamente rassicurante. Ad esempio, in un recente commento sul Financial Times, l’ex capoeconomista della Bank of England, Andy Haldane, ha suggerito di fatto di “prendere tempo”: anziché gettare la spugna o persistere nella stretta monetaria sino a distruggere l’economia, egli propone di usare un orizzonte temporale flessibile per riportare l’inflazione al target originario. “Anziché uno-due anni, tre-quattro”. Ma non basta:

O, più radicalmente, dato che non possiamo essere sicuri per quanto tempo esattamente i più elevati prezzi globali persisteranno, sospendendo gli obiettivi di inflazione per un periodo temporaneo, con la promessa di ripristinarli e fissarli alla prima futura data possibile.

Secondo Haldane,

Orizzonti flessibili, anziché obiettivi flessibili, proteggerebbero l’economia nel breve termine lasciando l’inflazione ancorata all’obiettivo di medio termine.


Tra messe a punto e martellate
In inglese questi dovrebbero chiamarsi tweaks, cioè modifiche o messe a punto; la realtà è che dovrebbero essere definite tinkering, cioè armeggiare, in un senso non esattamente rassicurante. Una sorta di presa a martellate dell’oggetto per vedere se si riesce a fargli fare quello che si vorrebbe.

L’obiettivo non si raggiunge? Diciamo che lo raggiungeremo, in un arco temporale più esteso. E se nel frattempo vi fosse un ulteriore impulso perturbativo a prezzi ed economia, cosa diremmo? “Segna pure, poi ci penso”? Qualcuno ricorda il dibattito sulla nuova “funzione di reazione” della Fed, un’era geologica addietro? Era centrato sulla “media” di inflazione (al 2%) in un arco temporale sufficientemente esteso ma indeterminato, per non impiccare la propria credibilità. Solo che era irrealizzabile, in primo luogo sul piano logico, e ci sono voluti alcuni pensosi dibattiti d’accademia per rendersene conto. Le proposte di Haldane paiono andare nella stessa direzione, che poi è il tentativo di rassicurare i mercati (cioè gli agenti economici), ritenendoli stupidi.

Come detto mesi addietro, i vestiti nuovi del banchiere centrale sono davanti ai nostri occhi. E non è un bello spettacolo.

Mario Seminerio  per Phastidio.net

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