Anno IX - Numero 29
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martedì 30 luglio 2024

Dopo Biden: il tempo delle proposte politiche

Joe Biden si è ritirato dalla corsa presidenziale. La decisione arriva dopo il disastroso esito del dibattito con Trump. Le prossime settimane saranno cruciali per ridefinire la campagna elettorale e il destino del partito. Insieme al futuro degli Usa

di Mario Macis

Domenica 21 luglio, Joe Biden ha annunciato il ritiro dalla sua candidatura alla presidenza, e subito dopo ha dato il suo endorsement a Kamala Harris, la sua vicepresidente.

È utile ripercorrere gli eventi che hanno portato a questa situazione eccezionale, per riflettere su cosa può accadere tra oggi e il 19-22 agosto, quando è prevista la National Convention del Partito democratico, in cui i delegati dei cinquanta stati dovranno votare per nominare ufficialmente il candidato presidente.
Le pressioni su Joe Biden affinché si ritirasse sono cominciate subito dopo il dibattito con Donald Trump del 27 giugno 2024. Prima di quel momento, dubbi sulle facoltà fisiche e mentali del presidente erano stati espressi prevalentemente sottovoce, con poche eccezioni come Ezra Klein del New York Times, una voce isolata tra gli osservatori di tendenze democratiche. Non solo: un discorso energico e convincente per lo State of the Union il 7 marzo aveva sopito le preoccupazioni.

Tuttavia, durante il dibattito con Trump il presidente è apparso visibilmente stanco e ha faticato a esprimere concetti coerenti, biascicando le parole e pronunciando più di una frase sconnessa e priva di senso. Rispetto al discorso sullo State of the Union era palese un notevole declino, forse in questi mesi reso meno visibile dallo staff di Biden, che limitava le sue apparizioni pubbliche non programmate.

Il dibattito ha segnato un netto cambiamento di atteggiamento. All’inizio, gli stretti collaboratori di Biden avevano giustificato la disastrosa condotta nel dibattito come una “serata no”, ma presto molte voci hanno iniziato a chiedere il suo ritiro, incluse quelle di membri del Congresso e figure di spicco come Chuck Schumer, leader della maggioranza al Senato, Hakeem Jeffries, leader della minoranza alla Camera, e Nancy Pelosi, ex Speaker of the House ancora molto influente.

L’economia reale e la percezione dei cittadini
Si è trattato di un momento cruciale e quasi senza precedenti. Generalmente, un presidente uscente al termine del primo mandato è il candidato naturale alla rielezione, specialmente quando, come nel caso di Biden, i quattro anni di presidenza sono considerati un successo dai membri del suo stesso partito. Più in generale, l’esperienza storica indica che un presidente uscente beneficia di un certo “staying power”, seppure con alcuni importanti “ma”. Un rapporto dell’ufficio ricerche di Goldman Sachs evidenzia che il presidente uscente tende a essere rieletto a meno che non si verifichi una recessione poco prima o durante il periodo elettorale: nel dopoguerra, è sempre stato così. Pertanto, la stabilità economica può notevolmente aumentare le probabilità di rielezione di un presidente, mentre una recessione può minarne seriamente le chance.

Ora, nonostante gli indicatori economici degli Stati Uniti mostrino un solido andamento, la percezione pubblica è notevolmente diversa. Con Biden l’economia ha registrato una significativa ripresa post-pandemia e un controllo dell’inflazione, ma solo il 28 per cento degli americani valuta positivamente le condizioni economiche nazionali. La discrepanza si riflette anche nella bassa approvazione popolare, che anche in condizioni normali avrebbe potuto dimostrarsi un ostacolo significativo per la rielezione.

E tuttavia, le condizioni attuali non erano normali, proprio a causa delle ridotte capacità di Biden. A 81 anni, è il presidente più anziano nella storia degli Usa ed erano forti i timori sulla sua capacità di sostenere una campagna elettorale impegnativa e destinata a intensificarsi sempre più.

La posta in gioco
Prima del dibattito, i sondaggi mostravano un leggero vantaggio per Trump, con il Times/Siena che registrava un +3 tra gli elettori probabili e un +6 tra quelli registrati. Dopo il dibattito, il vantaggio del candidato repubblicano è cresciuto: il margine è salito a +6 tra gli elettori probabili e a +9 tra i registrati, secondo lo stesso sondaggio. Non solo, ma le rilevazioni indicano un testa a testa o Biden in svantaggio nei cosiddetti “swing states” – Arizona, Georgia, Michigan, Minnesota, Nevada, Pennsylvania e Wisconsin. Rispetto al 2020, quando Biden vantava un margine medio di 7 punti in questi stati, ora si trova mediamente 3 punti sotto Trump.

Una campagna efficace avrebbe potuto utilizzare strategie di comunicazione mirate e una narrazione convincente per migliorare la percezione pubblica del presidente. Tuttavia, la percezione della debolezza fisica e mentale del candidato non era altrettanto facilmente mitigabile, e poteva solo peggiorare. Si spiegano così le crescenti pressioni affinché Biden considerasse il ritiro dalla corsa presidenziale.

La posta in gioco non è solo la presidenza: la campagna presidenziale funge da traino anche per le candidature a livello inferiore, come quelle per la Camera dei rappresentanti e il Senato. Un candidato presidente dato per perdente rischia di trascinare verso il basso l’intero partito. Non a caso la sfiducia nei confronti di Biden si è anche tradotta in un rallentamento delle donazioni alla sua campagna.

Ma è in gioco l’eredità politica di Biden, ammirata ampiamente nel partito, apprezzata sia dai moderati, cui il presidente appartiene, sia dalla sinistra. Figure come Alexandria Ocasio-Cortez e Bernie Sanders, leader della sinistra nel Partito democratico, hanno decisamente appoggiato le sue politiche progressiste, che includono investimenti per la transizione ecologica, il sostegno ai sindacati, misure contro i prezzi elevati dei farmaci e il condono del debito studentesco. Sanders, in particolare, ha affermato: “[Biden] È stato il presidente più efficace nella storia moderna del nostro paese (…) Per il bene dei nostri figli e delle future generazioni, deve vincere”.

Un altro argomento dei sostenitori di Biden era che rimuoverlo avrebbe sconfessato i risultati delle primarie, il meccanismo attraverso il quale i partiti americani nominano i candidati alle cariche elettive. Sebbene i critici del meccanismo non manchino, un partito non può ignorare il risultato delle primarie. Solo un ritiro volontario avrebbe potuto consentire la nomina di un diverso candidato presidenziale. Joe Biden ha vinto praticamente incontrastato le primarie del suo partito, conquistando 3900 delegati su 4 mila (a questi si aggiungono 700 “superdelegati”, i quali però votano solo se nessun candidato ottiene la maggioranza dei delegati ordinari). È lo “staying power” del presidente uscente, rafforzato in questo caso dal successo percepito del primo mandato all’interno del partito, che ha reso molto difficile per altri democratici opporsi a Biden. Se i risultati fossero stati peggiori, è possibile che la sua leadership sarebbe stata messa in discussione, scaturendo in vere primarie, complete di dibattiti, che avrebbero evidenziato i limiti di Biden e forse portato alla nomina di un diverso candidato.

Nelle tre settimane successive al dibattito con Trump, Biden ha resistito alle pressioni. I dirigenti del Democratic National Committee hanno cercato di accelerare i tempi, proponendo un voto virtuale il 7 agosto per nominarlo ufficialmente prima della Convention del 19 agosto. Tuttavia, alla fine, Biden ha deciso di ritirarsi e appoggiare Kamala Harris. La decisione consente al partito di non sconfessare gli ultimi quattro anni e permette alla vicepresidente di utilizzare le donazioni sin qui raccolte per la campagna di rielezione di Biden.

Dopo lannuncio
Immediatamente dopo l’annuncio del ritiro, Bill e Hillary Clinton hanno espresso il loro sostegno a Harris, in una mossa che sembrava coordinata con l’annuncio stesso. Nelle 24 ore successive, molti altri importanti esponenti democratici hanno seguito l’esempio, segnalando una forte unità nel partito. Con molta probabilità si arriverà dunque alla Convention con la candidatura unica di Harris. Kamala Harris – che, se eletta, sarebbe la prima donna presidente Usa – sceglierà poi il suo candidato vicepresidente. Questa situazione mette in luce un punto di forza dei democratici, che possono contare su molti esponenti carismatici e con esperienza, come i governatori Andy Beshear (Kentucky), Roy Cooper (North Carolina), Wes Moore (Maryland), Gavin Newsom (California), JB Pritzker (Illinois), Josh Shapiro (Pennsylvania) e Gretchen Whitmer (Michigan), oltre a Pete Buttigieg, attuale segretario dei Trasporti. Anche se alcuni democratici di spicco, come Barack Obama, non hanno immediatamente appoggiato Harris, lo scenario di una convention “aperta” appare improbabile. Si evita così una situazione in cui la libertà dei delegati di votare secondo la propria scelta potrebbe portare a divisioni e caos.

L’attentato a Trump, la convention repubblicana e la nomina del giovane e carismatico JD Vance hanno reso ancora più urgente un cambio di strategia per i democratici. Con il ritiro di Biden, salutato con espressioni di ammirazione e gratitudine, la svolta è cominciata. Stando ai sondaggi lo scenario non è favorevole, ma la situazione del Partito democratico non è disastrosa. Trump è in vantaggio, ma solo di alcuni punti. È uno svantaggio che i democratici ritengono di poter colmare con il “ticket” giusto. Le prossime settimane, da qui alla convention del 19-22 agosto, saranno cruciali sia per il futuro del Partito democratico sia per il futuro degli Usa che emergeranno da queste elezioni presidenziali. E soprattutto, è auspicabile che commentatori, osservatori e cittadini si possano presto concentrare sulla sostanza delle proposte politiche dei candidati.

Mario Macis per Lavoce.info

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