di Federico Giusti
Superati gli 80 anni Biden resterà in carica fino al termine del mandato presidenziale, sostituito nella corsa alla Casa Bianca, dalla sua vice Kamala Harris sostenuta apertamente dai Clinton ma al momento guardata con qualche sospetto dalle minoranze afro che costituiscono una parte rilevante dell’elettorato democratico. E non basterà il sostegno promesso dalle lobby femminili afroamericane a guadagnare il consenso delle minoranze. Riusciranno i democratici a fermare l’ascesa di Trump? E nell’arco di poche settimane il vento contrario ai repubblicani ha forse cambiato direzione?
Agli occhi di molti Trump continua ad essere impresentabile ma è indubbio riscuota consensi crescenti nel cuore degli States tra le vittime della crisi economica, sa meglio di tutti come alimentare paure recondite e sentimenti diffusi contro migranti, diritti civili come l’aborto, incarna i sentimenti di quella “America” profonda ormai animata da sentimenti religiosi e reazionari. Se Biden godeva del sostegno delle contraddittorie centrali sindacali, non è detto che lo stesso possa valere, almeno nell’immediato, per la sua sostituta.
Non è casuale il solito ritornello con il quale Trump ha accolto le dimissioni di Biden, argomentazioni ormai ripetute fino alla noia:
“Ha ottenuto la carica di Presidente solo grazie a bugie, fake news e senza uscire dal suo seminterrato” e che “tutti quelli che gli stavano intorno, compreso il suo medico e i media, sapevano che non era in grado di essere presidente, e infatti non lo è stato”.
I democratici, da qui a poche settimane, daranno vita alla solita farsa, riunire la Convention del partito nella seconda metà di agosto, incaricare formalmente la Harris sapendo che ogni candidato in teoria sarebbe libero di votare un altro candidato. I blocchi di potere che dominano il Partito democratico dovranno riunirsi, e in fretta, attorno alla figura della Harris, la cosiddetta sinistra aveva per settimane sostenuto Biden anche davanti al genocidio palestinese e oggi presenta un peso decisamente inferiore al passato e una credibilità nelle minoranze Usa decisamente al ribasso.
Non mancano i contendenti della Harris, da Gavin Newsom, alla governatrice del Michigan Gretchen Whitmer, dal segretario ai Trasporti Pete Buttigieg al governatore dell’Illinois J.B. Pritzker ma la candidata sulla quale puntare resta la vice di Biden, Kamala Harris.
Oggi i repubblicani presentano un programma scritto da tempo dalle fondazioni conservatrici, Trump ha dichiarato di non averlo letto ma molte delle sue posizioni sono le stesse di quelle contenute nelle 1000 pagine diffuse. Al contrario. i democratici non hanno ancora definito un programma alternativo se non operare scelte in continuità con l’attuale esecutivo sapendo che su alcuni punti anche i loro tradizionali sostenitori e finanziatori manifestano perplessità di vario genere, ad esempio avere trascinato gli Usa in una guerra globale dall’Indo Pacifico al Medio Oriente sembra turbare i sonni di parte del capitalismo di Oltre Oceano.
Come in ogni paese in crisi il tema della immigrazione rischia di essere centrale nella prossima campagna elettorale e non esiste idea più forte della espulsione dei clandestini o del muro al confine del Messico, tradizionali cavalli di battaglia repubblicana sui quali costruire un consenso negli Stati assediati dalla crisi economica e sociale.
Ma a preoccupare i democratici restano soprattutto i timidi segnali provenienti dai tradizionali finanziatori, dai blocchi economici e finanziari che controllano parte rilevante dei media, un tempo sostenitori di Biden e da settimane ormai silenti, alla finestra in un paese che stando ai sondaggi oggi regalerebbe la maggioranza assoluta ai repubblicani permettendo la rielezione di Trump alla presidenza Usa.
Le prossime settimane saranno decisive non l’ufficialità del candidato democratico alla Presidenza degli Usa ma anche e soprattutto per comprendere come si riposizioneranno i poteri forti del paese che poi dominando i social e gli organi di stampa decideranno il vincitore finale. Di certo sono tutt’altro che definiti gli equilibri interni agli Usa e il teatrino costruito attorno alle dimissioni di Biden resta il classico specchio per le allodole dietro al quale si celano ben altri interessi in gioco.
Agli occhi di molti Trump continua ad essere impresentabile ma è indubbio riscuota consensi crescenti nel cuore degli States tra le vittime della crisi economica, sa meglio di tutti come alimentare paure recondite e sentimenti diffusi contro migranti, diritti civili come l’aborto, incarna i sentimenti di quella “America” profonda ormai animata da sentimenti religiosi e reazionari. Se Biden godeva del sostegno delle contraddittorie centrali sindacali, non è detto che lo stesso possa valere, almeno nell’immediato, per la sua sostituta.
Non è casuale il solito ritornello con il quale Trump ha accolto le dimissioni di Biden, argomentazioni ormai ripetute fino alla noia:
“Ha ottenuto la carica di Presidente solo grazie a bugie, fake news e senza uscire dal suo seminterrato” e che “tutti quelli che gli stavano intorno, compreso il suo medico e i media, sapevano che non era in grado di essere presidente, e infatti non lo è stato”.
I democratici, da qui a poche settimane, daranno vita alla solita farsa, riunire la Convention del partito nella seconda metà di agosto, incaricare formalmente la Harris sapendo che ogni candidato in teoria sarebbe libero di votare un altro candidato. I blocchi di potere che dominano il Partito democratico dovranno riunirsi, e in fretta, attorno alla figura della Harris, la cosiddetta sinistra aveva per settimane sostenuto Biden anche davanti al genocidio palestinese e oggi presenta un peso decisamente inferiore al passato e una credibilità nelle minoranze Usa decisamente al ribasso.
Non mancano i contendenti della Harris, da Gavin Newsom, alla governatrice del Michigan Gretchen Whitmer, dal segretario ai Trasporti Pete Buttigieg al governatore dell’Illinois J.B. Pritzker ma la candidata sulla quale puntare resta la vice di Biden, Kamala Harris.
Oggi i repubblicani presentano un programma scritto da tempo dalle fondazioni conservatrici, Trump ha dichiarato di non averlo letto ma molte delle sue posizioni sono le stesse di quelle contenute nelle 1000 pagine diffuse. Al contrario. i democratici non hanno ancora definito un programma alternativo se non operare scelte in continuità con l’attuale esecutivo sapendo che su alcuni punti anche i loro tradizionali sostenitori e finanziatori manifestano perplessità di vario genere, ad esempio avere trascinato gli Usa in una guerra globale dall’Indo Pacifico al Medio Oriente sembra turbare i sonni di parte del capitalismo di Oltre Oceano.
Come in ogni paese in crisi il tema della immigrazione rischia di essere centrale nella prossima campagna elettorale e non esiste idea più forte della espulsione dei clandestini o del muro al confine del Messico, tradizionali cavalli di battaglia repubblicana sui quali costruire un consenso negli Stati assediati dalla crisi economica e sociale.
Ma a preoccupare i democratici restano soprattutto i timidi segnali provenienti dai tradizionali finanziatori, dai blocchi economici e finanziari che controllano parte rilevante dei media, un tempo sostenitori di Biden e da settimane ormai silenti, alla finestra in un paese che stando ai sondaggi oggi regalerebbe la maggioranza assoluta ai repubblicani permettendo la rielezione di Trump alla presidenza Usa.
Le prossime settimane saranno decisive non l’ufficialità del candidato democratico alla Presidenza degli Usa ma anche e soprattutto per comprendere come si riposizioneranno i poteri forti del paese che poi dominando i social e gli organi di stampa decideranno il vincitore finale. Di certo sono tutt’altro che definiti gli equilibri interni agli Usa e il teatrino costruito attorno alle dimissioni di Biden resta il classico specchio per le allodole dietro al quale si celano ben altri interessi in gioco.
Federico Giusti per World Politics Blog
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