di Mario Seminerio
Come noto anche ai paracarri, Donald Trump ritiene che un deficit commerciale indichi debolezza economica e geopolitica. Le cose non stanno sempre e necessariamente in questi termini. Di certo, così non stanno per gli Stati Uniti, che dispongono della valuta di riserva planetaria e beneficiano (ma evidentemente per Trump non è così) di afflussi di capitale che a loro volta sono l’immagine speculare del deficit commerciale.
Iper dazi a chi rifiuta il dollaro
Come che sia, Trump vuole un riequilibrio del deficit commerciale americano ma anche un dollaro che resti forte. La prova di questa sua convinzione la si è avuta giorni addietro, quando il presidente rientrante ha minacciato i paesi Brics di iper sanzioni in caso cercassero di allontanarsi dal dollaro come valuta di regolamento.
Non è chiaro cosa Trump volesse realmente indicare: molti pensano si riferisse all’ipotesi, del tutto impossibile, della nascita di una moneta comune tra i paesi Brics. Se così, qualcuno dovrebbe prendersi la briga di spiegargli che quel rischio non è imminente, per usare un eufemismo. Ci ha provato da par suo l’economista Brad Setser, su X, cercando di far capire che la Russia non perderebbe nulla da tariffe al 100 per cento ma col Brasile sarebbero problemi americani, visto che il paese sudamericano esporta materie prime industriali e agricole in Cina e ricicla il surplus in beni prodotti dagli Stati Uniti, coi quali infatti ha un deficit bilaterale.
Dazi al 100 per cento sull’India danneggerebbero l’obiettivo di fare del gigante asiatico il sostituto della Cina nell’interscambio, cosa che effettivamente forse Trump non vuole, puntando ad attrarre insediamenti industriali negli States. Ma di certo, quei super dazi spingerebbero Modi ad allontanarsi da Washington, anche se l’India sono decenni che gioca alternativamente su più tavoli.
Una tariffa del 100 per cento sulla Cina metterebbe nei guai Apple, che non potrebbe neppure rifugiarsi in India. Ma, ripeto, forse obiettivo di Trump è quello di riportare in patria la manifattura dei device di Cupertino.
Come che sia, Trump ha una visione del dollaro e l’ha espressa in un discorso a settembre: “se perdessimo il dollaro come valuta del mondo, sarebbe come perdere una guerra”. Ottimo punto. Ma può un dollaro deprezzato a piacere (ipotetico) di Trump, magari attraverso l’assalto alla Federal Reserve, continuare a essere lo strumento imperiale americano nel mondo?
Secondo Greg Ip, che lo esplicita in un editoriale sul Wall Street Journal, Trump riterrebbe le sanzioni strumento non funzionale al mantenimento del potere americano, proprio perché il loro uso e abuso spingerebbe paesi antagonisti a tentare di mettere in piedi qualcosa di alternativo. Nello stesso discorso di settembre, Trump ha infatti detto che le sanzioni devono essere usate il meno possibile perché le troppe sanzioni “uccidono il dollaro e tutto quello che il dollaro rappresenta”.
Come che sia, Trump vuole un riequilibrio del deficit commerciale americano ma anche un dollaro che resti forte. La prova di questa sua convinzione la si è avuta giorni addietro, quando il presidente rientrante ha minacciato i paesi Brics di iper sanzioni in caso cercassero di allontanarsi dal dollaro come valuta di regolamento.
Non è chiaro cosa Trump volesse realmente indicare: molti pensano si riferisse all’ipotesi, del tutto impossibile, della nascita di una moneta comune tra i paesi Brics. Se così, qualcuno dovrebbe prendersi la briga di spiegargli che quel rischio non è imminente, per usare un eufemismo. Ci ha provato da par suo l’economista Brad Setser, su X, cercando di far capire che la Russia non perderebbe nulla da tariffe al 100 per cento ma col Brasile sarebbero problemi americani, visto che il paese sudamericano esporta materie prime industriali e agricole in Cina e ricicla il surplus in beni prodotti dagli Stati Uniti, coi quali infatti ha un deficit bilaterale.
Dazi al 100 per cento sull’India danneggerebbero l’obiettivo di fare del gigante asiatico il sostituto della Cina nell’interscambio, cosa che effettivamente forse Trump non vuole, puntando ad attrarre insediamenti industriali negli States. Ma di certo, quei super dazi spingerebbero Modi ad allontanarsi da Washington, anche se l’India sono decenni che gioca alternativamente su più tavoli.
Una tariffa del 100 per cento sulla Cina metterebbe nei guai Apple, che non potrebbe neppure rifugiarsi in India. Ma, ripeto, forse obiettivo di Trump è quello di riportare in patria la manifattura dei device di Cupertino.
Come che sia, Trump ha una visione del dollaro e l’ha espressa in un discorso a settembre: “se perdessimo il dollaro come valuta del mondo, sarebbe come perdere una guerra”. Ottimo punto. Ma può un dollaro deprezzato a piacere (ipotetico) di Trump, magari attraverso l’assalto alla Federal Reserve, continuare a essere lo strumento imperiale americano nel mondo?
Secondo Greg Ip, che lo esplicita in un editoriale sul Wall Street Journal, Trump riterrebbe le sanzioni strumento non funzionale al mantenimento del potere americano, proprio perché il loro uso e abuso spingerebbe paesi antagonisti a tentare di mettere in piedi qualcosa di alternativo. Nello stesso discorso di settembre, Trump ha infatti detto che le sanzioni devono essere usate il meno possibile perché le troppe sanzioni “uccidono il dollaro e tutto quello che il dollaro rappresenta”.
Meglio le tariffe che le sanzioni?
Meglio le tariffe, quindi. Possono essere calibrate, anche contro paesi alleati e amici (chiedere a Canada e Messico). Colpiscono chirurgicamente e sono ineludibili in dogana, mentre le sanzioni sono e restano grossolanamente generalizzate e porose, come illustrato dagli ultimi tre anni del confronto con la Russia. Ma anche le tariffe hanno controindicazioni. Intanto, devono essere integrate con le regole di origine, cioè quale paese produce quali componenti, altrimenti tutto si risolve in triangolazioni che non cambiano nulla o quasi. E comunque, se usate in eccesso, distruggono il commercio sino a far perdere agli americani la leva negoziale.
Le tariffe causano rialzo dei prezzi. Chi dice che sarebbe un rialzo una tantum, quindi non tale da danneggiare l’economia, dovrebbe riflettere sul fatto che i consumatori non amano comunque i rialzi dei prezzi, e che la sostituzione di importazioni con produzione interna non avviene in una notte. Poi c’è sempre da considerare la rappresaglia dei paesi a cui vengono applicate tariffe. Lo vedremo con la Ue, che ha una lista di tariffe mirate su produzioni di stati controllati dai Repubblicani.
Ma torniamo al dollaro forte e alla riduzione del deficit commerciale. Un dollaro valuta globale richiede, come condizione necessaria ma non sufficiente, che gli Stati Uniti siano prenditori netti di fondi dal resto del mondo. Cioè, che abbiano un deficit delle partite correnti col resto del mondo (merci, servizi e proventi finanziari). Durante la campagna elettorale, abbiamo letto della vera e propria opzione nucleare dei falchi del commercio americano: controllo dei capitali in entrata negli USA. Questa misura abbatterebbe il deficit delle partite correnti ma metterebbe fine allo status del dollaro come moneta di riserva globale.
Quindi, come spero abbiate intuito, il mondo continua ad avere dei tradeoff, con i quali Trump dovrà fare i conti. Ovviamente, i tradeoff sono emissari della realtà, in caso vi fosse sfuggito il nesso. Quindi: un dollaro “forte” non riequilibra il deficit commerciale mentre un dollaro reso debole mediante assalto alla indipendenza della Fed o con tariffe sull’afflusso di capitali farebbe perdere la guerra agli americani, per usare l’immagine evocata a settembre da Trump.
L’ipotesi Plaza 2
Non ci sono soluzioni, quindi? Forse ce n’è una: il “modello Plaza”, ricordando gli accordi dell’omonimo hotel, nel 1985, che portarono a un raffreddamento del dollaro contro franco francese, marco tedesco, sterlina britannica, yen giapponese mediante intervento coordinato delle banche centrali sui mercati valutari. All’epoca il dollaro era spinto dalla politica monetaria restrittiva di Paul Volcker alla Fed e da quella fiscale espansiva di Ronald Reagan alla Casa Bianca. Il deficit commerciale statunitense era alle stelle, i produttori americani lanciavano grida di dolore invocando protezionismo.
L’Accordo del Plaza e quello del Louvre di due anni dopo (di segno opposto, per stabilizzare l’eccessiva debolezza del dollaro) produssero risultati non uniformi, a causa di differenti pattern commerciali, ma soprattutto effimeri, in assenza di vero coordinamento macroeconomico. Malgrado ciò, Trump potrebbe ottenere qualcosa di simile, come moneta di scambio per evitare tariffe. Lo vedremo. Quello che possiamo dire sin d’ora è che il dollaro entra nel 2025 godendo di eccellente salute, con buona pace delle velleità Brics. Ma che il suo peggior nemico rischia di essere proprio Trump.
Mario Seminerio per Phastidio.net
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