Anno IX - Numero 12
La guerra non è mai un atto isolato.
Carl von Clausewitz

venerdì 23 febbraio 2024

Breve storia della nostra inerzia

Ha una lunga storia l’inerzia. Lunga e accidentata. Tutta da scrivere. Non è soltanto un oggetto d’analisi o un tema di riflessione. L’inerzia ci compete. Ci siamo dentro, ne siamo parte. I suoi molti nomi (accidia, malinconia, noia, apatia, e l’ultima delle sue figure, “la stasi ad alta velocità” di cui parla il sociologo Hartmut Rosa), la sua ipotetica storia, sono tra i miei pensieri impazienti fino all’assillo

di Maurizio Ciampa

Insediata da sempre nel recinto dell’esperienza umana, l’inerzia compendia i suoi umori corrosivi, i fantasmi di dissoluzione, le rovinose abulie. È la faglia instabile su cui si accumulano scorie d’esistenza, ombre e spettri di vita mancata, voci smarrite di flebili narrazioni, che, in fitta schiera, s’intrecciano, s’ingarbugliano lungo l’asse del tempo, s’arruffano in una sgangherata algebra dello spirito vinto. Dove l’uomo disegna con vigore progettuale e fervida frenesia fondativa, il suo profilo di vita, lì attorno, consumato il loro slancio, si gonfiano le “acque sporche e morte” dell’inerzia, la sua “palude”.

Suoi abili cacciatori erano i monaci del deserto nei primi secoli dell’era cristiana. Esploratori dell’anima e dei suoi movimenti più nascosti e insidiosi, i monaci vivevano in appartata e silenziosa solitudine, ma sembravano avere familiarità con la vita degli uomini. Il loro sguardo sapeva attraversare i pantani della psiche rimasta impigliata nell’inerzia

I monaci la chiamavano accidia. Evagrio, nel III secolo, si occupa dell’accidia perché ce l’ha in casa. È il mostro in agguato nella quiete solitaria delle celle, prendendo il volto di un’indomabile irrequietezza, o, al contrario, del torpore, del tedio, dell’indolenza, del ripiegamento malinconico o della crucciata tristezza. Nei piccoli monasteri il mondo rotola nell’accidia, e nell’accidia si disfa. “Non vi è passione peggiore”, si legge nella Vita e detti dei Padri del deserto.

Attorno all’accidia cresce il fronte mobile di una durissima guerra spirituale.

Demone meridiano così viene anche detta l’accidia, perché prende d’assedio il monaco nell’ora più calda. Il giorno appare una distesa senza confini, come il deserto che circonda il monastero. Una luce oppressiva irretisce lo spirito, lo fiacca, lo svuota. È in quell’ora che l’accidia libera i suoi veleni, infetta i cervelli, contagia le anime fino a provocarne la paralisi. Soffoca lo spirito. E lo spirito, “vinto, sfinito”, “infestato dalla vertigine”, fa esperienza di tutte le gradazioni del tedio. Dai suoi deliqui germina l’apatia, morte in vita, che soppesa l’Essere e ne scompone la trama.

Risalendo i secoli, quel vortice di tristezza avvolge nel suo manto funebre anche il tempo della Modernità. La rappresentazione esemplare dell’inerzia malinconica è una figura femminile dalla testa reclina, Melanchonia I, la notissima incisione di Durer del 1514. Attorno alla figura che occupa la scena, abbandonati, gli strumenti del fare. Spenti gli occhi sul mondo, il malinconico non può che guardarsi dentro. Apre, penetra, lacera, seziona, classifica, come si presume abbia fatto l’anatomista del Rinascimento. Il temperamento malinconico inclina all’anatomia, rileva Jean Starobinski. Non del corpo e dei suoi organi, ma dell’anima.

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