di Dragan Markovina
La notizia della fine del fumetto Alan Ford, che cesserà le pubblicazioni tra qualche mese, doveva prima o poi arrivare, e sicuramente contribuirà ad aumentare le vendite degli ultimi dieci numeri che devono ancora uscire. A rendere nota la notizia, in occasione della pubblicazione del numero 650, è stato l’autore del fumetto, l’ormai ottantaquattrenne Luciano Secchi, meglio noto come Max Bunker. Anche se Secchi non avesse annunciato la sua fine, il fumetto comunque si sarebbe spento di morte naturale. Non è però escluso che in un futuro più o meno lontano qualche giovane autore cerchi di risuscitare Alan Ford e altri membri del gruppo TNT.
Anche se tale ipotesi dovesse avverarsi, Alan Ford non sarebbe più lo stesso, così come, a ben guardare, non è mai stato più lo stesso dopo i primi settantacinque numeri, ormai mitici, che a partire dal 1969 Bunker aveva realizzato insieme al disegnatore Roberto Raviola, meglio noto con lo pseudonimo di Magnus.
Per quanto possa essere difficile immaginare un mondo senza Alan Ford, questa è l’occasione perfetta per riascoltare Svemu dođe kraj [Tutto finisce], una canzone d’amore ormai diventata un classico, scritta e musicata da Alfi Kabiljo e interpretata dalla cantante Beti Jurković, originaria di Abbazia (Opatija). Noi che abitiamo queste terre siamo però consapevoli – ed è una consapevolezza dolorosa – che anche se l’idea racchiusa nel titolo di quella canzone forse vale per amori e amicizie, come per fumetti cult e persone care, di certo non vale per una realtà grottesca che sembra più resistente del cemento.
Paradossalmente, fu proprio tale realtà, che assomigliava così tanto al mondo del gruppo TNT, a permettere ad Alan Ford di raggiungere un enorme successo in Jugoslavia. Ne ha scritto in modo brillante Lazar Džamić nel suo libro Cvjećarnica u Kući Cveća [Una fioreria nella Casa dei Fiori]. Dopo questo testo ogni tentativo di scrivere qualcosa sulla ricezione di Alan Ford in Jugoslavia rischia di ridursi al ripetersi dei luoghi comuni.
Se è vero, com’è vero, che in passato c’erano stati seri conflitti tra la Jugoslavia, in particolare tra la Croazia e la Dalmazia da un lato, e l’Italia dall’altro – conflitti a cui ne fecero seguito altri riguardanti le interpretazioni di quel passato, è altrettanto vero che ci sono quattro fenomeni che sono sempre rimasti al di sopra di quei conflitti. Il primo, ovviamente, è il turismo, e gli altri tre riguardano la cultura pop: la Vespa, San Remo e Alan Ford.
Se la Vespa e San Remo venivano innanzitutto associati all’immagine della Riva e del Festival di Spalato, Alan Ford nel mondo jugoslavo veniva associato a Zagabria, al quotidiano Vjesnik e alla lingua letteraria croata, una lingua insolita e poco utilizzata nel resto del paese. In altre parole – ormai è diventato un luogo comune, ma resta pur sempre un aspetto imprescindibile – la ricezione di Alan Ford in Jugoslavia fu influenzata tanto dalla traduzione di Nenad Brixy quanto dalla realtà del gruppo TNT.
Poi arrivarono la dissoluzione del paese e la guerra, e dal colophon [dell’edizione croata di Alan Ford] scomparve la parola NIŠRO, che rimandava al concetto di autogestione, scritta in una lingua incomprensibile alle generazioni di oggi (acronimo stava per Organizzazione dei lavoratori del settore stampa ed editoria). Col tempo anche il viale della Fratellanza e dell’Unità, in cui si trovava la sede del quotidiano Vjesnik cambiò nome, diventando Viale della Slavonia. Poi Alan Ford passò in mano agli editori privati, il quotidiano Vjesnik chiuse i battenti e oggi a ricordarlo c’è solo un imponente grattacielo progettato dall’architetto Antun Ulrich nel 1974 su cui campeggia l’inconfondibile scritta con il logo di Vjesnik. Questo ci riporta alla storia di Beti Jurković che era sposata con il compositore Boris Ulrich, figlio dell’architetto.
Se da un lato i popoli jugoslavi riuscirono a sopportare la rottura tra Max Bunker e Magnus dopo i primi 75 numeri di Alan Ford, la dissoluzione della Jugoslavia si rivelò un’esperienza di gran lunga più dolorosa. È vero che Alan Ford continuò ad uscire, anche in altre traduzioni, sia in edicola che in edizioni da collezione, com’è anche vero che ad acquistarlo e leggerlo furono non tanto le giovani generazioni quanto quelli che erano cresciuti leggendolo prima della guerra, quindi in un’altra epoca. L’esperienza però non era più la stessa.
Particolarmente curioso è il fatto che Alan Ford era amato e le sue mitiche frasi venivano citate a memoria da persone con posizioni ideologiche ed estetiche diverse, se non addirittura diametralmente opposte. Questo aspetto lo avvicina innanzitutto al fenomeno di Džoni Štulić e degli Azra, che godevano della stessa popolarità tra persone di estrazione molto diversa. Ad ogni modo, sia Štulić che Alan Ford dovrebbero essere osservati come fenomeni culturali di alto valore estetico, un argomento che a tutt’oggi non è ancora stato affrontato in modo adeguato dal punto di vista sociologico e culturale né nell’ambito delle discipline umanistiche né tanto meno nella pubblicistica dello spazio post jugoslavo.
Infine, mi sembra che – al di là di tutti i luoghi comuni, le citazioni divertenti, le scritte sulle magliette di Grunf, il farsi beffe della tendenza a romanticizzare la povertà e del culto della personalità di un leader indiscusso – valga la pena sottolineare la peculiarità de Le storie del Numero Uno, ossia di quelle sue rappresentazioni caricaturali dei miti e degli eventi storici di cui le nostre società hanno tanto bisogno.
Quindi, se un giorno qualcuno decidesse di far rivivere il fumetto e i suoi protagonisti, sarebbe estremamente salvifico farlo ispirandosi a Le storie del Numero Uno dedicate ai grandi temi storici che riguardano i nostri popoli. Perché l’umorismo è tutto ciò che ci resta.
Anche se tale ipotesi dovesse avverarsi, Alan Ford non sarebbe più lo stesso, così come, a ben guardare, non è mai stato più lo stesso dopo i primi settantacinque numeri, ormai mitici, che a partire dal 1969 Bunker aveva realizzato insieme al disegnatore Roberto Raviola, meglio noto con lo pseudonimo di Magnus.
Per quanto possa essere difficile immaginare un mondo senza Alan Ford, questa è l’occasione perfetta per riascoltare Svemu dođe kraj [Tutto finisce], una canzone d’amore ormai diventata un classico, scritta e musicata da Alfi Kabiljo e interpretata dalla cantante Beti Jurković, originaria di Abbazia (Opatija). Noi che abitiamo queste terre siamo però consapevoli – ed è una consapevolezza dolorosa – che anche se l’idea racchiusa nel titolo di quella canzone forse vale per amori e amicizie, come per fumetti cult e persone care, di certo non vale per una realtà grottesca che sembra più resistente del cemento.
Paradossalmente, fu proprio tale realtà, che assomigliava così tanto al mondo del gruppo TNT, a permettere ad Alan Ford di raggiungere un enorme successo in Jugoslavia. Ne ha scritto in modo brillante Lazar Džamić nel suo libro Cvjećarnica u Kući Cveća [Una fioreria nella Casa dei Fiori]. Dopo questo testo ogni tentativo di scrivere qualcosa sulla ricezione di Alan Ford in Jugoslavia rischia di ridursi al ripetersi dei luoghi comuni.
Se è vero, com’è vero, che in passato c’erano stati seri conflitti tra la Jugoslavia, in particolare tra la Croazia e la Dalmazia da un lato, e l’Italia dall’altro – conflitti a cui ne fecero seguito altri riguardanti le interpretazioni di quel passato, è altrettanto vero che ci sono quattro fenomeni che sono sempre rimasti al di sopra di quei conflitti. Il primo, ovviamente, è il turismo, e gli altri tre riguardano la cultura pop: la Vespa, San Remo e Alan Ford.
Se la Vespa e San Remo venivano innanzitutto associati all’immagine della Riva e del Festival di Spalato, Alan Ford nel mondo jugoslavo veniva associato a Zagabria, al quotidiano Vjesnik e alla lingua letteraria croata, una lingua insolita e poco utilizzata nel resto del paese. In altre parole – ormai è diventato un luogo comune, ma resta pur sempre un aspetto imprescindibile – la ricezione di Alan Ford in Jugoslavia fu influenzata tanto dalla traduzione di Nenad Brixy quanto dalla realtà del gruppo TNT.
Poi arrivarono la dissoluzione del paese e la guerra, e dal colophon [dell’edizione croata di Alan Ford] scomparve la parola NIŠRO, che rimandava al concetto di autogestione, scritta in una lingua incomprensibile alle generazioni di oggi (acronimo stava per Organizzazione dei lavoratori del settore stampa ed editoria). Col tempo anche il viale della Fratellanza e dell’Unità, in cui si trovava la sede del quotidiano Vjesnik cambiò nome, diventando Viale della Slavonia. Poi Alan Ford passò in mano agli editori privati, il quotidiano Vjesnik chiuse i battenti e oggi a ricordarlo c’è solo un imponente grattacielo progettato dall’architetto Antun Ulrich nel 1974 su cui campeggia l’inconfondibile scritta con il logo di Vjesnik. Questo ci riporta alla storia di Beti Jurković che era sposata con il compositore Boris Ulrich, figlio dell’architetto.
Se da un lato i popoli jugoslavi riuscirono a sopportare la rottura tra Max Bunker e Magnus dopo i primi 75 numeri di Alan Ford, la dissoluzione della Jugoslavia si rivelò un’esperienza di gran lunga più dolorosa. È vero che Alan Ford continuò ad uscire, anche in altre traduzioni, sia in edicola che in edizioni da collezione, com’è anche vero che ad acquistarlo e leggerlo furono non tanto le giovani generazioni quanto quelli che erano cresciuti leggendolo prima della guerra, quindi in un’altra epoca. L’esperienza però non era più la stessa.
Particolarmente curioso è il fatto che Alan Ford era amato e le sue mitiche frasi venivano citate a memoria da persone con posizioni ideologiche ed estetiche diverse, se non addirittura diametralmente opposte. Questo aspetto lo avvicina innanzitutto al fenomeno di Džoni Štulić e degli Azra, che godevano della stessa popolarità tra persone di estrazione molto diversa. Ad ogni modo, sia Štulić che Alan Ford dovrebbero essere osservati come fenomeni culturali di alto valore estetico, un argomento che a tutt’oggi non è ancora stato affrontato in modo adeguato dal punto di vista sociologico e culturale né nell’ambito delle discipline umanistiche né tanto meno nella pubblicistica dello spazio post jugoslavo.
Infine, mi sembra che – al di là di tutti i luoghi comuni, le citazioni divertenti, le scritte sulle magliette di Grunf, il farsi beffe della tendenza a romanticizzare la povertà e del culto della personalità di un leader indiscusso – valga la pena sottolineare la peculiarità de Le storie del Numero Uno, ossia di quelle sue rappresentazioni caricaturali dei miti e degli eventi storici di cui le nostre società hanno tanto bisogno.
Quindi, se un giorno qualcuno decidesse di far rivivere il fumetto e i suoi protagonisti, sarebbe estremamente salvifico farlo ispirandosi a Le storie del Numero Uno dedicate ai grandi temi storici che riguardano i nostri popoli. Perché l’umorismo è tutto ciò che ci resta.
(Originariamente pubblicato sul portale Peščanik , il 28 settembre 2023)
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