Senza un cambiamento radicale della politica industriale, l’Europa sarà uno spettatore della transizione ecologica e digitale e il divario con Usa e Cina aumenterà. Purtroppo, le nuove regole del Patto di stabilità sono un ritorno al passato: mani legate agli Stati per finanziare gli investimenti e perciò occorre riaprire le discussioni sulla riforma delle regole del Patto
di Floriana Cerniglia e Francesco Saraceno
L’Europa è di fronte all’ennesimo bivio. Mentre molti governi stanno attuando piani di consolidamento di bilancio più o meno draconiani, la pubblicazione del rapporto Draghi ha evidenziato un insieme di priorità completamente diverso. Il rapporto parte dal divario di crescita sempre più evidente tra l’Ue, gli Usa e la Cina, giustamente attribuito a una stagnazione cronica della crescita della produttività. Il rapporto non è privo di criticità, ad esempio la scarsa attenzione alla coesione sociale, evidenziata con efficacia dal Forum Disuguaglianze e Diversità e alla spesa per la Ricerca e Sviluppo; o ancora l’enfasi sulle spese per la difesa. Esso, tuttavia, ha due meriti fondamentali.
Il primo è quello di sottolineare l’urgenza della situazione. È difficile dissentire dall’ex presidente della Bce quando afferma che l’Ue è all’ultima spiaggia, e che senza un cambiamento radicale di prospettiva sulle politiche pubbliche sarà destinata ad essere spettatore della transizione ecologica e digitale. Il secondo, su cui ci concentriamo in questa sede, è quello di affermare (catturando finalmente l’attenzione dei media e dei responsabili politici) ciò che da tempo è evidente a molti economisti: aumentare la produttività non è solamente una questione di risorse, ma richiede un’organizzazione più efficiente dell’economia europea, in particolare per quanto riguarda il mercato unico e la razionalizzazione degli strati di regolamentazioni e vincoli che si sono sovrapposti in modo disordinato negli ultimi decenni rappresentando ormai un freno alla crescita.
Tuttavia, è impossibile immaginare che la transizione digitale e verde e il recupero del terreno perso in termini di produttività e crescita possano avvenire senza massicci investimenti. Il rapporto afferma con grande chiarezza quest’ultimo aspetto. Un messaggio che, peraltro, non è nuovo, e che emergeva con forza dai contributi al volume dell’European Public Investment Outlook che avevamo curato nel 2022, dedicato alla transizione ecologica. La stampa ha abbondantemente ripreso la cifra avanzata da Draghi di un bisogno di circa 800 miliardi di euro all’anno (circa il 5% del PIL dell’UE), di cui oltre la metà dovrebbe provenire da investimenti pubblici. I lavori empirici più recenti, infatti, indicano in modo robusto che gli investimenti pubblici stimolano l’accumulazione di capitale privato sia perché aumentano la redditività attesa degli investimenti privati, sia perché favoriscono un ambiente macroeconomico stabile e riducono l’incertezza. Per questo, l’effetto positivo sull’economia è ancora maggiore quando l’incertezza è elevata, quindi, tipicamente, durante periodi di trasformazione strutturale come quello che attende l’economia mondiale nei prossimi anni
Insomma, il rapporto Draghi mette al centro del dibattito pubblico europeo la necessità di ripensare il ruolo della politica di bilancio e dell’investimento pubblico. Un ripensamento che si impone dopo la sequenza di crisi che ha scosso le economie mondiale ed europea a partire dal 2008 smentendo la fiducia nella capacità dei mercati di convergere verso un equilibrio naturale, che caratterizzava il consenso in macroeconomia prima della crisi finanziaria globale. Il lungo periodo della cosiddetta Grande Moderazione, di crescita e inflazione stabili, che aveva portato alcuni a parlare in modo imprudente di fine della storia anche in economia, ha in realtà alimentato una crescente disuguaglianza e fragilità finanziaria.
Il processo di “ripensamento dell’economia” e del rapporto tra Stato e mercato innescato dalle crisi non è ancora concluso, e non è chiaro se emergerà una nuova doxa. Tuttavia, la ripetuta ed evidente incapacità dei mercati di coordinarsi su equilibri stabili e soddisfacenti suggerisce che, in futuro, i modelli teorici prevederanno un ruolo per la politica economica nel perseguire risultati socialmente desiderabili; a seconda delle circostanze, questo può essere realizzato accompagnando i mercati, guidandoli, a volte contrastandoli.
Le politiche di bilancio sono tornate a far parte della cassetta degli attrezzi dei policy makers. Prima, durante la crisi finanziaria globale, per sostenere la domanda aggregata con politiche keynesiane “classiche”. Poi, con il tentativo di far uscire l’economia dalla carenza cronica di domanda (la “stagnazione secolare”). Ancora, con la rinnovata attenzione all’importanza dei beni pubblici globali (sanità, istruzione, politiche sociali) per evitare il collasso economico e sociale durante la pandemia. Infine, con il ritorno in forza della politica industriale e degli investimenti pubblici: per affrontare a breve termine la disarticolazione dell’economia mondiale causata dalla pandemia, dall’inflazione e dai ripetuti shock geopolitici; e per facilitare e guidare, a lungo termine, le transizioni ecologica e digitale.
Tra le politiche di bilancio ha sicuramente un posto di rilievo la politica industriale, che contribuisce a plasmare l’economia a lungo termine. Lo “Stato innovatore” di Mariana Mazzucato possiede alcune caratteristiche che le imprese private non hanno. In primo luogo, non massimizza il profitto, ma il benessere sociale; poi, ha un orizzonte temporale indefinito (lo Stato non “muore”) e quindi può aspettare a lungo prima di raccogliere i frutti degli investimenti, oltre ad avere capacità di indebitamento che gli operatori privati non hanno. Grazie a queste caratteristiche, lo Stato imprenditore può esplorare possibilità produttive che, indipendentemente dai fallimenti di mercato, i privati non necessariamente esplorerebbero, mettendo in atto politiche pubbliche che possono creare il terreno per investimenti di lungo termine sia materiali e che immateriali. Direttamente, ad esempio tramite le banche pubbliche di investimento, o indirettamente, con incentivi per le imprese che rendano appetibili investimenti a lungo termine o con rendimenti sociali importanti. Non va tuttavia sottovalutato il rischio che i benefici dell’azione pubblica (ad esempio con importanti finanziamenti pubblici nel campo della ricerca e sviluppo) siano “privatizzati” se si creano opportunità per il rafforzamento soltanto di alcune imprese, già in situazioni di oligopolio, che si appropriano degli incentivi e delle conoscenze incrementali che spesso l’intervento pubblico produce, con l’effetto di aumentare le disuguaglianze.
In questo nuovo quadro, la politica industriale non può essere ridotta semplicemente a consentire ai mercati di funzionare, ad esempio “livellando il terreno di gioco” e riducendo o eliminando le rendite e il potere di mercato (la dottrina che ha prevalso all’interno della Commissione Europea in passato, e che a tratti emerge anche nel rapporto Draghi); né a favorire la creazione di grandi conglomerati oligopolistici con l’obiettivo di competere sui mercati internazionali; o, ancora, ad operare esclusivamente tramite la regolamentazione. La politica industriale deve piuttosto essere una strategia multidimensionale che favorisca la trasformazione strutturale e riduca i colli di bottiglia nei settori strategici, facilitando il processo di distruzione creativa che rialloca risorse dalle attività a bassa produttività a settori che siano strategici per le transizioni ecologica e digitale o semplicemente per motivi geopolitici.
Le istituzioni europee potranno consentire di elaborare e attuare le politiche industriali e di bilancio per la trasformazione strutturale dell’economia che almeno in parte sono state invocate anche dal rapporto Draghi? C’è ben poco margine per essere ottimisti.
L’introduzione di Next Generation EU, il più innovativo strumento introdotto dall’UE negli scorsi decenni sembrava finalmente aver fatto breccia nell’ostinato rifiuto dei policy makers europei di immaginare strumenti comuni sia per affrontare le crisi sia per gestire le trasformazioni strutturali. L’abbondante letteratura sulle aree valutarie ottimali se da un lato ci dice che non si può prescindere da un ruolo per i mercati nell’assorbire gli shock e per allocare le risorse dall’altro evidenzia che altrettanto importanti sono meccanismi tipici di un bilancio federale, in particolare i trasferimenti tra Stati. Diventa sempre più imprescindibile affiancare alla gestione comune della moneta una capacità di bilancio centrale per provvedere alla stabilizzazione economica e a finanziare i beni pubblici europei con maggiore efficacia e costi minori rispetto alle politiche nazionali, oltre a rendere più facile e più stabile il finanziamento di progetti di investimento transnazionali.
Purtroppo, però, la spinta propulsiva della reazione comune e solidale alla pandemia si è esaurita in fretta. La frammentazione politica diffusa emersa con le recenti elezioni europee, l’indebolimento in molti paesi dei partiti più europeisti e il ritorno tedesco all’ossessione per la frugalità, non lasciano molto spazio all’ottimismo sul fronte delle politiche comuni. Le reazioni di molti paesi (a partire dalla Germania) alla timida proposta di politiche comuni del rapporto Draghi non fanno che confermare questa sensazione.
Se l’onere di investire sulle transizioni rimarrà sulle spalle degli Stati, occorrerà guardare da vicino alla riforma appena entrata in vigore del Patto di stabilità. La vecchia regola era ormai criticata da molti: i) perché barocca e basata su di una pletora di indicatori, alcuni arbitrari e difficili da calcolare; ii) perché orientata, con l’enfasi su obiettivi annuali uguali per tutti, verso la disciplina di breve periodo, con l’effetto di essere prociclica; iii) perché sfavorevole all’investimento pubblico. Il vecchio Patto era anche figlio della concezione del mondo evocata sopra per cui occorreva legare le mani alle politiche di bilancio con regole restrittive, per lasciare mano libera alla presunta efficienza dei mercati.
L’apertura del cantiere della riforma del Patto, nel 2020, aveva lasciato sperare che fossero superati i difetti della vecchia regola facendo tesoro del ripensamento teorico sull’importanza della politica di bilancio. Un cambiamento di filosofia che era in qualche modo presente nella sia pure imperfetta proposta di riforma avanzata nel 2022 dalla Commissione europea. Al centro del quadro proposto dalla Commissione era, per ogni paese, un’analisi probabilistica della sostenibilità del debito; analisi per sua natura imperfetta, che tuttavia costituiva un passo avanti importante rispetto all’idea precedente per cui l’unico metro di sostenibilità fosse la riduzione del debito. L’analisi di sostenibilità serviva poi da base per un piano pluriannuale di aggiustamento, preparato dallo Stato membro, che lo mettesse su di una traiettoria “ragionevole” di finanze pubbliche.
Quell’impianto è ancora presente, ma il processo negoziale che ha condotto alla nuova regola lo ha svuotato. Sulla carta, i piani pluriannuali e la protezione dell’investimento esistono; ma la Germania, tornata alla vecchia ossessione per l’austerità, ha imposto una pletora di complesse clausole di salvaguardia che, indipendentemente dai piani concordati con la Commissione, di cui il paese in teoria ha la titolarità, tornano ad imporre vincoli numerici annuali. Il nuovo Patto è estremamente complesso (ancora più della vecchia regola) e recupera indicatori problematici come il disavanzo strutturale, in passato oggetto di estenuanti negoziati tra la Commissione e i paesi membri.
La prova che poco è cambiato sta nel fatto che, appena entrata in vigore, la nuova regola ha portato ad una procedura d’infrazione per sette paesi (tra cui l’Italia) e che nell’autunno del 2024 quasi tutti i paesi dell’Eurozona mettono in cantiere leggi di bilancio restrittive nonostante la crescita stagnante.
Un clima non favorevole a grandi progetti comuni e le mani legate delle politiche nazionali non sono compatibili con i bisogni di finanziamento per la transizione ecologica e con la necessità di beni pubblici globali. Appare dunque inevitabile riaprire le discussioni sulla riforma delle regole. Sembra irrealistico immaginare che un cantiere appena chiuso (su di un tema controverso come la politica di bilancio) possa essere riaperto a breve. Ma nei prossimi mesi i difetti della nuova regola diventeranno purtroppo sempre più evidenti, anche per i paesi, come la Germania, che la hanno voluta. Le discussioni sull’architettura europea potrebbero quindi riprendere per adottare una regola che consenta infine investimenti pubblici e politiche realmente anticicliche. Se no, perderemo un altro treno; l’ultimo, come nota giustamente Mario Draghi.
Floriana Cerniglia e Francesco Saraceno per Etica ed Economia
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