di Alexandra Elena Vechiu
L’instabilità politica non è più l’eccezione in Francia che, dal 2024, ha visto succedersi tre governi. L’esecutivo di François Bayrou, oltre a non essere stato sostenuto dalla maggioranza, si è trovato alle prese con un preoccupante rapporto debito/PIL, pari al 114%. Pur restando la seconda economia europea, le proiezioni del Fondo Monetario Internazionale sono tutt’altro che ottimistiche e Parigi rischia di diventare l’anello debole dell’Unione. Per far fronte all’eccessivo indebitamento, lo scorso luglio il PM uscente ha elaborato un piano per ridurre il rapporto deficit/PIL dal 5,8% al 4,6% entro il 2026 e recuperare 43,8 miliardi di euro attraverso tagli alla spesa pubblica. Il tentativo di austerità fiscale è stato respinto e, oltre ad essere lontano dal parametro del 3% previsto dal Trattato di Maastricht, ha anche inasprito il malcontento pubblico e la frammentazione politica. Difatti, partiti come La France insoumise (LFI) di Jean-Luc Mélenchon e il Rassemblement National (RN), capeggiato da Jordan Bardella, hanno fatto leva sulla fragilità interna per sollecitare invano le dimissioni del presidente Macron. In questo contesto, il voto parlamentare dell’8 settembre sulla legge di bilancio si è configurato come una resa dei conti: l’ultimo tentativo di ricucire la paralisi politica ha invece aggravato la crisi nazionale. Gli analisti più critici hanno rievocato persino la crisi greca del debito sovrano, ma bisogna capire se la Francia sia realmente sull’orlo di uno stallo simile. La capacità di trovare un compromesso per la legge di bilancio diviene quindi un test per la credibilità finanziaria del Paese e, soprattutto, per la stabilità nazionale ed europea.
Il tornante: l’acuirsi della crisi
La spirale dell’indebitamento francese è riconducibile a una pluralità di fattori: spesa pubblica oltre le possibilità reali, aiuti militari ed economici a Kyiv, onerosità dello Stato sociale, strette monetarie della Banca Centrale Europea e improvviso aumento degli investimenti nella difesa. La crescita insostenibile del deficit affonda le radici nel 2020: la pandemia ha rallentato settori strategici – come filiera industriale, aerospazio, automotive e turismo – e, per superare l’emergenza generale, il Matignon ha varato misure straordinarie. Difatti, la Francia detiene il primato di uno dei Welfare State (Stato sociale) più onerosi in Europa, garantito tramite costosi investimenti nel sistema scolastico, pensionistico e sanitario: al 2023, i sussidi ammontano al 57% del PIL e sono difficilmente riducibili senza innescare forti tensioni sociali, manifestazioni e blocchi produttivi.
Simultaneamente, il ricalibramento delle priorità di sicurezza, esacerbate dalla guerra in Ucraina e dalle richieste statunitensi di burden sharing, hanno comportato un incremento del budget nella difesa (pari a 64,7 miliardi di dollari, +21% rispetto al 2015), nella deterrenza nucleare e nell’innovazione digitale. Un trade off essenziale che ha garantito a Parigi il mantenimento del proprio prestigio diplomatico e decisionale, rinunciando però a finanze sostenibili.

Figura 1. Evoluzione del debito lordo in Francia, in % del PIL,
dal 1980 al 2025 con previsioni al 2030. Fonte: “General Government
Gross Debt, percentage of GDP – France”, International Monetary Fund
dal 1980 al 2025 con previsioni al 2030. Fonte: “General Government
Gross Debt, percentage of GDP – France”, International Monetary Fund
Oggi, la Francia affronta una situazione emergenziale ereditata da un cronico lassismo istituzionale. I recenti governi di minoranza hanno incontrato serie difficoltà nell’approvazione della legge di bilancio e spesso hanno fatto ricorso all’articolo 49.3 della Costituzione, derogando la votazione parlamentare salvo mozione di sfiducia. Nonostante ciò, tale scorciatoia ha aggravato l’impasse politica e indebolito il partito presidenziale Renaissance, fino a rafforzare la polarizzazione tra sinistra ed estrema destra.
Il limitato sostegno alla strategia economica del premier uscente si rispecchia nella crescente impopolarità nazionale. Da una parte, i cittadini sono sempre meno fiduciosi e non intendono rinunciare a due giorni festivi – il lunedì di Pasqua e l’8 maggio –, la cui abolizione alleggerirebbe il bilancio di 5 miliardi di euro. L’opinione pubblica considera il debito come una responsabilità dell’esecutivo, mentre un francese su tre designa Macron come unico responsabile. Dall’altro lato, l’opposizione definisce il piano di Bayrou come un “attacco diretto alla nostra storia, alle nostre radici e alla Francia del lavoro”. La LFI ha dichiarato l’intenzione di censurare un esecutivo con la stessa direzione politica del PM e la sinistra insiste per una tassazione più progressiva. Mentre il dibattito pubblico si divide sul tema, il costo del debito sta salendo e i titoli di Stato continuano a perdere di valore e di credibilità. La solvibilità nazionale è a rischio, ma la strada verso il compromesso politico e finanziario è difficilmente raggiungibile nel breve periodo.
Il voto dell’8 settembre: un unicum francese e le implicazioni europee
La deliberazione dell’Assemblea nazionale ha confermato le aspettative e, per la prima volta nella storia della Quinta Repubblica, un governo è caduto in seguito a un voto di sfiducia. Con 364 voti contrari, Bayrou non è riuscito ad ottenere la maggioranza necessaria per continuare a governare e approvare la legge di bilancio, ormai indispensabile per il Paese. Nel suo discorso ai deputati, ha ribadito l’urgenza “storica e generazionale” di sanare le finanze pubbliche e ha paragonato la dipendenza dal debito alla perdita di sovranità, pari a un assoggettamento militare. Per uscire dalla paralisi, la Francia deve elaborare strategie fiscali lungimiranti e condivise, ma la sfiducia a Bayrou evidenzia come i singoli interessi di partito prevalgano sul compromesso economico e politico. Intanto, non sono mancate le pressioni su Macron, che si mostra restio a dimettersi e orientato a proseguire il suo mandato fino al 2027. Nel mentre, per prendere tempo ed evitare di indire nuove elezioni, ha nominato come premier il ministro della difesa, Sébastien Lecornu, membro del partito presidenziale e incaricato di negoziare un budget accettabile per l’intero arco parlamentare. L’evenienza di un nuovo governo, che sembrava profilarsi all’orizzonte, è ora un nodo cruciale per il Paese e il primo indizio che emerge è la volontà di continuità, seppur dannosa per la solvibilità nazionale.
La precarietà economica si traduce in un ridotto peso negoziale e strategico rispetto agli alleati europei. Il caso francese rappresenta una minaccia per la coesione: il crollo della seconda economia dell’Unione Europea intacca la stabilità dell’intero assetto comunitario e, soprattutto, la tenuta dell’euro. In un contesto internazionale segnato dalla competizione geopolitica e commerciale, l’UE non può permettersi di mostrarsi come un attore debole e frammentato, né da un punto di vista finanziario né militare. A ottobre, i 27 saranno chiamati a presentare la loro politica fiscale e il vuoto di potere a Parigi non la esonera dal trovare rapidamente un’intesa sulla legge di bilancio. Inoltre, il mancato rispetto da quindici anni dei parametri economici di Maastricht (fondamentali per l’appartenenza all’Unione) e il laissez faire di Bruxelles alimentano la narrativa dei “doppi standard”, ampiamente criticati da forze centrifughe, come Budapest, Bratislava e Ankara. La crisi francese non è solo nazionale, ma è un monito per la tenuta europea.
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