di Alessio Celant
Prima a lungo minacciati, poi imposti, successivamente ritirati e infine confermati: questo è stato l’andamento del tema relativo ai dazi americani. Inizialmente Trump ha sfruttato tale strumento per fare leva su alcuni Governi sudamericani, uno su tutti quello colombiano, e costringerli ad accogliere i migranti rimpatriati. A partire da Marzo, invece, dopo settimane tese con i partner commerciali, l’amministrazione ha annunciato l’introduzione di dazi sia in Europa che in Canada e Messico. Le tariffe contro l’UE sono state ufficialmente annunciate il 2 aprile 2025 (“Liberation Day”), entreranno in vigore in parte il 5 aprile (10%) e il restante il 9 aprile e riguardano le importazioni di automobili che verranno tassate del 25% e tutti gli altri prodotti al 20%; pur non venendo colpiti da ulteriori dazi annunciati il 2 aprile i provvedimenti nei confronti dei due Paesi confinanti (Canada e Messico) hanno già colpito la quasi totalità dei beni (sempre al 25%) fatta eccezione per le risorse energetiche canadesi gravate del 10%.
Attraverso queste misure doganali aggressive, il Tycoon mira ad accrescere il mercato interno, ridurre il deficit della bilancia commerciale e proteggere l’industria pesante dalla competizione straniera con l’intento di rivitalizzare la “Rust Belt”, un tempo sede delle principali aziende siderurgiche che trainavano l’economia americana. Secondo l’ideologia della nuova amministrazione, il raggiungimento di questi obiettivi sarebbe indispensabile per incrementare il livello di benessere dei cittadini americani, soprattutto quelli appartenenti alla middle-class; tuttavia, l’esasperazione della politica protezionista targata MAGA rischia di sfociare in una guerra commerciale di vaste dimensioni e non ottenere gli effetti sperati.
L’impatto su PIL ed inflazione
I dazi, essendo sostanzialmente delle imposte sulle merci importate, dovrebbero disincentivare i consumatori i ad acquistare prodotti esteri, rendendo più convenienti quelli interni; tuttavia l’effetto varia in base alla merce colpita: imporre tasse doganali su beni di consumo a domanda rigida (beni alimentari), per i quali il mercato nazionale non riesce ad assorbire la domanda nel breve periodo porta i cittadini ad impoverirsi in quanto acquisteranno ugualmente la merce estera, sopportando il sovrapprezzo. D’altro canto, i dazi che interessano materie prime e semilavorati con caratteristiche omogenee (acciaio, alluminio) impiegati nei settori più danneggiati dalla competizione straniera, ma che presentano un buon margine di crescita permettono alle imprese operanti in quel mercato di accrescere la propria produzione a fronte di un incremento della domanda; in alcuni casi si può registrare anche un aumento dell’occupazione.
Considerando, quindi, la natura dei beni colpiti e i rapporti di import-export tra i vari Paesi, quale sarà l’effetto di questa manovra sull’economia statunitense?
Secondo uno studio di Tax Foundation, think tank di ricerca che si occupa di politiche fiscali statunitensi, i dazi, tenendo conto anche di quelli di ritorsione, influenzerebbero negativamente il PIL americano del 0.65%: le tariffe imposte all’Europa, in quanto maggiore partner commerciale, inciderebbero dello 0,2%. Ciò comporterebbe anche una riduzione del reddito nazionale disponibile, al netto delle imposte, in media dell’1% con possibili ricadute sul livello dei consumi.
Successivamente, bisogna considerare che di norma l’imposizione di dazi fa accrescere il livello generale dei prezzi. Infatti, nel breve periodo, come precedentemente riportato, l’offerta potrebbe non compensare la domanda, generando così inflazione o si potrebbero innescare fenomeni speculativi che produrrebbero il medesimo effetto. Per ora il tasso di inflazione statunitense è del 2,8%, anche per questo motivo la FED ha deciso di mantenere invariati i tassi di interessi; tuttavia un loro incremento in risposta ad eventuali tensioni inflattive disincentiverebbe gli investimenti e ciò rallenterebbe il processo di rivalorizzazione del mercato interno statunitense. Per evitare un decremento eccessivo del potere d’acquisto dei consumatori americani, Tax Foundation ipotizza un ulteriore scenario: l’apprezzamento del dollaro. Una valuta più forte, però, renderebbe più difficile per gli esportatori vendere i propri beni e servizi sul mercato globale e ciò impatterebbe negativamente sul saldo della bilancia commerciale, oltre che sul reddito nazionale.
Gli effetti sulla finanza pubblica
Vediamo, quindi, che la posizione del think tank e di molti altri economisti è molto scettica rispetto alla politica doganale adottata dall’amministrazione, in quanto bloccherebbe in parte la crescita stimolata dagli ingenti investimenti infrastrutturali della “Bidenomics”, che da un lato hanno risollevato l’economia americana dalla Pandemia, dall’altro hanno appesantito di molto una già traballante finanza pubblica: ad oggi il debito pubblico ammonta a 28,9 mila miliardi e il rapporto con il PIL è del 97,8%. In aggiunta, gli Stati Uniti non registrano un avanzo primario da circa 20 anni, ciò ha costretto i Governi precedenti a ricorrere al debito per far fronte non solo alle spese correnti ma anche alla crescente mole di interessi sulle obbligazioni sottoscritte a lunga scadenza: nel giro di 10 anni la spesa per interessi salirà a circa 21mila miliardi, ovvero il 4,1% del PIL.
In questo contesto, l’imposizione di nuovi dazi permetterebbe di incrementare le entrate federali: nel 2025 si stima un ricavo derivante dalle tasse doganali di 182 miliardi (tab. 2 Tax Foundation). Tale cifra, però, non giustifica lo sforzo in termini di costi e criticità che l’economia americana dovrà sostenere, in quanto rispetto al deficit dell’anno precedente (1,9 mila miliardi) risulta esigua.
Per risanare il debito, Trump è consapevole di non poter contare solamente sui dazi; pertanto, vuole intraprendere ingenti tagli alla spesa pubblica sfruttando le azioni del D.O.G.E., commissione guidata da Elon Musk ed istituita allo scopo di digitalizzare la burocrazia e snellire l’apparato federale. Un approccio di questo tipo evidenzia comunque diverse criticità, poiché nelle economie più sviluppate lo Stato gioca un ruolo sempre più attivo; perfino in America, nazione di libero mercato per eccellenza, il livello di Welfare e servizi pubblici garantiti alla popolazione sta crescendo sempre di più. Limitare le uscite pubbliche significa in molti casi abbassare la qualità media di vita dei propri cittadini, pertanto è una strategia difficilmente sostenibile.
Alla luce di quanto detto e ipotizzando una già annunciata riforma Trump 2.0 volta ad alleggerire la pressione fiscale, pare evidente che la finanza pubblica continuerà a rimanere un problema strutturale per l’economia americana a cui i dazi difficilmente potranno porre rimedio, soprattutto considerando le conseguenze di essi sul reddito nazionale.
La reazione di Wall Street
La politica doganale del Tycoon e le modalità aggressive con cui essa è stata annunciata hanno generato anche una forte instabilità nei mercati finanziari: dopo l’insediamento della nuova amministrazione le azioni statunitensi hanno sottoperformato, toccando picchi del -10% secondo Morningstar.
L’effetto destabilizzante dei dazi sulle imprese e sull’economia globale ha ridotto significativamente la fiducia degli investitori raggiungendo il valore più basso degli ultimi due anni. Questa ondata di pessimismo ha avuto ripercussioni sugli animi di Wall Street, dove l’indice S&P 500 è ora in calo del 2%, mentre il Nasdaq del 2,7%.
Dal punto di vista finanziario i settori più esposti alle tariffe sono quello automobilistico, tecnologico e del commercio al dettaglio, i quali hanno sofferto una significativa pressione in borsa. Tra le aziende che hanno assistito ad un calo dei propri titoli si trovano colossi come Walmart, Ford, General Motors ed Apple a causa dell’aumento dei prezzi; da riportare anche un crollo delle azioni Tesla di oltre il 50% in meno di tre mesi.
Il 2 aprile 2025 sono entrati ufficialmente in vigore i dazi sull’Europa impattanti sul mercato automobilistico e dell’acciaio; pertanto, non è da escludere un ulteriore peggioramento nel breve periodo degli indici di borsa, stavolta anche europei.
Dal punto di vista prettamente economico, la politica doganale dell’amministrazione Trump 2.0 rischia di incidere negativamente sugli equilibri macroeconomici statunitensi: un possibile incremento dell’inflazione combinato ad un calo del PIL è lo scenario sicuramente più preoccupante. La corrente MAGA giustifica questi provvedimenti in ottica propagandistica spostando il focus del dibattito sulle elevate potenzialità di ricostruire settori del mercato interno, come quello manifatturiero, indeboliti dalla competizione estera; si tratta di un processo lungo e nelle economie globalizzate sempre più complesso: interi comparti americani, come quello del Big Tech, beneficiano degli scambi commerciali con il resto del mondo e del flusso di capitali stranieri.
Non bisogna dimenticarsi che strumenti di pressione economica possono essere imposti anche in chiave politica, segnale di una postura più chiusa e diffidente nei confronti dell’estero che si allontana dall’idea della globalizzazione e della cooperazione internazionale. Una lettura di questo genere è conforme con l’immagine e i comportamenti recenti dell’amministrazione Trump e potrebbe mascherare efficacemente gli obiettivi strategici americani sotto forma di motivazioni economiche.
Prima a lungo minacciati, poi imposti, successivamente ritirati e infine confermati: questo è stato l’andamento del tema relativo ai dazi americani. Inizialmente Trump ha sfruttato tale strumento per fare leva su alcuni Governi sudamericani, uno su tutti quello colombiano, e costringerli ad accogliere i migranti rimpatriati. A partire da Marzo, invece, dopo settimane tese con i partner commerciali, l’amministrazione ha annunciato l’introduzione di dazi sia in Europa che in Canada e Messico. Le tariffe contro l’UE sono state ufficialmente annunciate il 2 aprile 2025 (“Liberation Day”), entreranno in vigore in parte il 5 aprile (10%) e il restante il 9 aprile e riguardano le importazioni di automobili che verranno tassate del 25% e tutti gli altri prodotti al 20%; pur non venendo colpiti da ulteriori dazi annunciati il 2 aprile i provvedimenti nei confronti dei due Paesi confinanti (Canada e Messico) hanno già colpito la quasi totalità dei beni (sempre al 25%) fatta eccezione per le risorse energetiche canadesi gravate del 10%.
Attraverso queste misure doganali aggressive, il Tycoon mira ad accrescere il mercato interno, ridurre il deficit della bilancia commerciale e proteggere l’industria pesante dalla competizione straniera con l’intento di rivitalizzare la “Rust Belt”, un tempo sede delle principali aziende siderurgiche che trainavano l’economia americana. Secondo l’ideologia della nuova amministrazione, il raggiungimento di questi obiettivi sarebbe indispensabile per incrementare il livello di benessere dei cittadini americani, soprattutto quelli appartenenti alla middle-class; tuttavia, l’esasperazione della politica protezionista targata MAGA rischia di sfociare in una guerra commerciale di vaste dimensioni e non ottenere gli effetti sperati.
L’impatto su PIL ed inflazione
I dazi, essendo sostanzialmente delle imposte sulle merci importate, dovrebbero disincentivare i consumatori i ad acquistare prodotti esteri, rendendo più convenienti quelli interni; tuttavia l’effetto varia in base alla merce colpita: imporre tasse doganali su beni di consumo a domanda rigida (beni alimentari), per i quali il mercato nazionale non riesce ad assorbire la domanda nel breve periodo porta i cittadini ad impoverirsi in quanto acquisteranno ugualmente la merce estera, sopportando il sovrapprezzo. D’altro canto, i dazi che interessano materie prime e semilavorati con caratteristiche omogenee (acciaio, alluminio) impiegati nei settori più danneggiati dalla competizione straniera, ma che presentano un buon margine di crescita permettono alle imprese operanti in quel mercato di accrescere la propria produzione a fronte di un incremento della domanda; in alcuni casi si può registrare anche un aumento dell’occupazione.
Considerando, quindi, la natura dei beni colpiti e i rapporti di import-export tra i vari Paesi, quale sarà l’effetto di questa manovra sull’economia statunitense?
Secondo uno studio di Tax Foundation, think tank di ricerca che si occupa di politiche fiscali statunitensi, i dazi, tenendo conto anche di quelli di ritorsione, influenzerebbero negativamente il PIL americano del 0.65%: le tariffe imposte all’Europa, in quanto maggiore partner commerciale, inciderebbero dello 0,2%. Ciò comporterebbe anche una riduzione del reddito nazionale disponibile, al netto delle imposte, in media dell’1% con possibili ricadute sul livello dei consumi.
Successivamente, bisogna considerare che di norma l’imposizione di dazi fa accrescere il livello generale dei prezzi. Infatti, nel breve periodo, come precedentemente riportato, l’offerta potrebbe non compensare la domanda, generando così inflazione o si potrebbero innescare fenomeni speculativi che produrrebbero il medesimo effetto. Per ora il tasso di inflazione statunitense è del 2,8%, anche per questo motivo la FED ha deciso di mantenere invariati i tassi di interessi; tuttavia un loro incremento in risposta ad eventuali tensioni inflattive disincentiverebbe gli investimenti e ciò rallenterebbe il processo di rivalorizzazione del mercato interno statunitense. Per evitare un decremento eccessivo del potere d’acquisto dei consumatori americani, Tax Foundation ipotizza un ulteriore scenario: l’apprezzamento del dollaro. Una valuta più forte, però, renderebbe più difficile per gli esportatori vendere i propri beni e servizi sul mercato globale e ciò impatterebbe negativamente sul saldo della bilancia commerciale, oltre che sul reddito nazionale.
Gli effetti sulla finanza pubblica
Vediamo, quindi, che la posizione del think tank e di molti altri economisti è molto scettica rispetto alla politica doganale adottata dall’amministrazione, in quanto bloccherebbe in parte la crescita stimolata dagli ingenti investimenti infrastrutturali della “Bidenomics”, che da un lato hanno risollevato l’economia americana dalla Pandemia, dall’altro hanno appesantito di molto una già traballante finanza pubblica: ad oggi il debito pubblico ammonta a 28,9 mila miliardi e il rapporto con il PIL è del 97,8%. In aggiunta, gli Stati Uniti non registrano un avanzo primario da circa 20 anni, ciò ha costretto i Governi precedenti a ricorrere al debito per far fronte non solo alle spese correnti ma anche alla crescente mole di interessi sulle obbligazioni sottoscritte a lunga scadenza: nel giro di 10 anni la spesa per interessi salirà a circa 21mila miliardi, ovvero il 4,1% del PIL.
In questo contesto, l’imposizione di nuovi dazi permetterebbe di incrementare le entrate federali: nel 2025 si stima un ricavo derivante dalle tasse doganali di 182 miliardi (tab. 2 Tax Foundation). Tale cifra, però, non giustifica lo sforzo in termini di costi e criticità che l’economia americana dovrà sostenere, in quanto rispetto al deficit dell’anno precedente (1,9 mila miliardi) risulta esigua.
Per risanare il debito, Trump è consapevole di non poter contare solamente sui dazi; pertanto, vuole intraprendere ingenti tagli alla spesa pubblica sfruttando le azioni del D.O.G.E., commissione guidata da Elon Musk ed istituita allo scopo di digitalizzare la burocrazia e snellire l’apparato federale. Un approccio di questo tipo evidenzia comunque diverse criticità, poiché nelle economie più sviluppate lo Stato gioca un ruolo sempre più attivo; perfino in America, nazione di libero mercato per eccellenza, il livello di Welfare e servizi pubblici garantiti alla popolazione sta crescendo sempre di più. Limitare le uscite pubbliche significa in molti casi abbassare la qualità media di vita dei propri cittadini, pertanto è una strategia difficilmente sostenibile.
Alla luce di quanto detto e ipotizzando una già annunciata riforma Trump 2.0 volta ad alleggerire la pressione fiscale, pare evidente che la finanza pubblica continuerà a rimanere un problema strutturale per l’economia americana a cui i dazi difficilmente potranno porre rimedio, soprattutto considerando le conseguenze di essi sul reddito nazionale.
La reazione di Wall Street
La politica doganale del Tycoon e le modalità aggressive con cui essa è stata annunciata hanno generato anche una forte instabilità nei mercati finanziari: dopo l’insediamento della nuova amministrazione le azioni statunitensi hanno sottoperformato, toccando picchi del -10% secondo Morningstar.
L’effetto destabilizzante dei dazi sulle imprese e sull’economia globale ha ridotto significativamente la fiducia degli investitori raggiungendo il valore più basso degli ultimi due anni. Questa ondata di pessimismo ha avuto ripercussioni sugli animi di Wall Street, dove l’indice S&P 500 è ora in calo del 2%, mentre il Nasdaq del 2,7%.
Dal punto di vista finanziario i settori più esposti alle tariffe sono quello automobilistico, tecnologico e del commercio al dettaglio, i quali hanno sofferto una significativa pressione in borsa. Tra le aziende che hanno assistito ad un calo dei propri titoli si trovano colossi come Walmart, Ford, General Motors ed Apple a causa dell’aumento dei prezzi; da riportare anche un crollo delle azioni Tesla di oltre il 50% in meno di tre mesi.
Il 2 aprile 2025 sono entrati ufficialmente in vigore i dazi sull’Europa impattanti sul mercato automobilistico e dell’acciaio; pertanto, non è da escludere un ulteriore peggioramento nel breve periodo degli indici di borsa, stavolta anche europei.
Dal punto di vista prettamente economico, la politica doganale dell’amministrazione Trump 2.0 rischia di incidere negativamente sugli equilibri macroeconomici statunitensi: un possibile incremento dell’inflazione combinato ad un calo del PIL è lo scenario sicuramente più preoccupante. La corrente MAGA giustifica questi provvedimenti in ottica propagandistica spostando il focus del dibattito sulle elevate potenzialità di ricostruire settori del mercato interno, come quello manifatturiero, indeboliti dalla competizione estera; si tratta di un processo lungo e nelle economie globalizzate sempre più complesso: interi comparti americani, come quello del Big Tech, beneficiano degli scambi commerciali con il resto del mondo e del flusso di capitali stranieri.
Non bisogna dimenticarsi che strumenti di pressione economica possono essere imposti anche in chiave politica, segnale di una postura più chiusa e diffidente nei confronti dell’estero che si allontana dall’idea della globalizzazione e della cooperazione internazionale. Una lettura di questo genere è conforme con l’immagine e i comportamenti recenti dell’amministrazione Trump e potrebbe mascherare efficacemente gli obiettivi strategici americani sotto forma di motivazioni economiche.
Alessio Celant per Geopolitica.info
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