Anno X - Numero 1
La libertà esiste se esistono uomini liberi.
Luigi Einaudi

giovedì 9 gennaio 2025

Diritti all’oblio: perché invece dovremmo ricordare

Chi dispone del potere, politico o economico che sia, cerca di imporre la sua visione della storia. Più che smontare, serve fornire le informazioni giuste e uscire dai recinti che le fake news costruiscono per i propri proseliti

di Raffaele Angius, Lorenzo Bagnoli e Riccardo Coluccini

«Tu che percorri gli atrii regali del grande palazzo, ricorderai i meriti del podestà Oldrado, cittadino lodigiano, difensore della fede e della spada, che costruì il palazzo e bruciò i Catari, com’era suo dovere»

Questa incisione è una fake news incancellabile. Campeggia su un fianco del Palazzo della Ragione di piazza Mercanti, a qualche decina di metri dal Duomo. Oldrado da Tresseno nell’anno del Signore 1233 è stato podestà di Milano. Si è guadagnato i posteri con un altorilievo che lo ritrae a cavallo, al di sopra di questa targa commemorativa con la quale si è fatto attribuire i meriti per la costruzione di un palazzo che ha solo ultimato e per la promulgazione di una legge contro gli eretici che non è mai stata applicata, ricorda il libro Il giro del mondo di Milano in 80 misteri. Tuttavia, perché la si tramandi nei secoli dei secoli, è bene che la balla abbia qualche attinenza con il vero e il verosimile; che sia manipolazione dei fatti, invece di pura finzione. Nel caso di Oldrado, l’interesse per il palazzo e per la guerra agli eretici erano veri, non altrettanto i risultati raggiunti.

A chi servono le fake news
Dalla notte dei tempi chi dispone del potere, politico o economico che sia, cerca di imporre la sua visione della storia. Prima lo si faceva con incisioni, statue, monumenti, oggi con radio, televisione e internet. Un tempo solamente pochissimi avevano accesso agli strumenti che permettevano di scrivere la storia, o verificarne l’attendibilità. Oggi, si dirà, internet, la rete, è a disposizione di tutti (o quasi) gratuitamente (o quasi).

Ma l’apparente partecipazione collettiva alla costruzione del registro dell’esperienza umana ha moltiplicato esponenzialmente gli Oldrado del mondo. Il debunking, la decostruzione delle notizie false è, d’altra parte, una pratica quotidiana sul web. Già nel 2017, però, il CssLab, centro studi che si occupa di disinformazione legato alla Scuola Imt Alti Studi di Lucca, ha analizzato gli effetti dell’infodemia sul pubblico cospirazionista:

«Le nostre analisi mostrano che i contenuti di debunking rimangono fondamentalmente confinati all’interno della camera dell’eco scientifica e che solo alcuni utenti di solito esposti ad affermazioni poco fondate interagiscono attivamente con questi post di correzione e spiegazione – si legge in Debunking in un mondo di tribù, ricerca basata su un campione di 50.250 post di Facebook, citata da Repubblica – l’informazione che dissente è ignorata e i sentimenti espressi [dopo la lettura] sono negativi».

Più che smontare, quindi, serve forse fornire le informazioni giuste e uscire dai recinti che le fake news costruiscono per i propri proseliti.

L’inchiesta #StoryKillers – progetto giornalistico coordinato da Forbidden Stories a cui hanno partecipato oltre cento giornalisti di trenta testate internazionali – ha invece raccontato, ancora una volta, quanto la disponibilità delle informazioni “libere” sia illusoria: la possibilità di trovare informazioni online è condizionata da un esercito di mercenari della disinformazione, teste di un’unica idra. Questi mercenari possono diffondere falsità oppure rendere irreperibili notizie “scomode”.

Per quanto sconfinati possano essere i territori del web la gran parte delle persone vi accede attraverso una sola porta: quella di Google. Sono quasi 5,6 miliardi i suoi utenti e le ricerche elaborate al giorno sono 8,5 miliardi. Ai risultati del motore di ricerca si sovrappone la diffusione delle notizie tramite i social network, programmati per propagare una verità “su misura” di ciascuno, purché l’utente rimanga incollato dentro la piattaforma. È il risultato di diversi studi condotti dal collettivo di Tracking Exposed, che in una serie di sperimentazioni – durante le elezioni francesi nel 2017 e in Italia nel 2018 – ha dimostrato che Facebook tende a sottrarre alla vista dell’utente le informazioni non affini con la sua visione politica o ideologica. Per la prima volta quella che già era la percezione comune degli utenti diventa un dato misurato e dimostrabile, che dà evidenza di come chi controlla la principale porta d’accesso a internet o le piattaforme di distribuzione, controlla di fatto ciò che gli utenti apprendono e conoscono.

Ma se l’accesso a Internet è un diritto umano (come stabilito, tra gli altri, dalle Nazioni unite nel 2012) chi ne fruisce ha diritto a possedere le chiavi di un archivio che sia prima di tutto affidabile e completo e non solo influenzato dai broker del listino di Google o Meta (gruppo che possiede Facebook, Instagram), che fanno salire e scendere gli url a seconda di quanto paga un cliente.

I bersagli della disinformazione
Mara è una cittadina italo-kenyana che abita a Nairobi. S’interessa di politica: legge i giornali spesso, s’informa, conosce il Paese – e le sue dinamiche – a menadito. Eppure non poteva avere idea che qualcuno stesse cercando di attaccare le elezioni intrufolandosi negli smartphone degli assistenti del candidato William Ruto, poi eletto presidente. Qualcuno poteva infatti leggere le email e scrivere direttamente ai contatti Telegram dei bersagli hackerati. Il lavoro è stato svolto da Team Jorge, il gruppo di mercenari israeliani della disinformazione scoperto dai colleghi di The Marker, Radio France e Haaretz, parte del consorzio #StoryKillers, di cui abbiamo parlato nella prima puntata.

Team Jorge crea eserciti di avatar, profili falsi e insospettabili agli occhi dell’utente comune, per manipolare le informazioni che girano sui social. Ma ancora, cerca anche di ottenere informazioni riservate da usare per attaccare i rivali dei propri clienti, attività che li ha visti coinvolti nel 2015 insieme a Cambridge Analytica nel tentativo di contribuire alla ri-elezione dell’allora presidente nigeriano, Goodluck Jonathan, contro il rivale Muhammadu Buhari. I documenti sarebbero poi stati forniti alla stampa ma non sembrano aver sortito l’effetto desiderato: Buhari ha vinto comunque. Il bersaglio di Team Jorge, organizzazione che secondo quanto ha ricostruito #StoryKillers era ingaggiata al prezzo di centinaia di migliaia di dollari, sono cittadini che si prestano a esprimere un voto e che per farsi un’idea della materia navigano online.

Lorenzo Romani lavora per Ernst&Young e di mestiere fa due diligence: svolge cioè analisi da fonti aperte su commissione di grandi aziende o istituti finanziari e produce valutazioni sul rischio reputazionale relativo a partner o fornitori. Il lavoro degli analisti di open source intelligence (ricerche da fonti aperte - Osint) consiste nel cercare di costruire un profilo di società o di privati attingendo prevalentemente da dati societari, visure camerali, bilanci e informazioni disponibili in rete.

«Anche se non quotidianamente – racconta -, capita con una certa frequenza di individuare contenuti positivi promossi solo per migliorare l’immagine pubblica di una persona o magari di riscontrare la rimozione di informazioni scomode che potrebbero affossarla. ll nostro lavoro consiste anche nel cercare di aggirare questi tentativi di manipolare la realtà attraverso la manipolazione di ciò che si trova in rete».

Naturalmente chi fa queste ricerche professionalmente sa come superare questi ostacoli, «utilizzando fonti d’informazioni diverse e anche, banalmente, diversi motori di ricerca in contemporanea», precisa l’esperto. A Romani e al suo staff si rivolgono grossi gruppi industriali ma sempre più spesso anche aziende medio-grandi, che richiedono una valutazione delle loro controparti. Più rare le richieste degli enti pubblici e dei privati, quasi nessuna invece da parte delle piccole medie imprese che in mancanza di un controllo approfondito potrebbero giudicare veritiere le credenziali digitali di chi si propone loro per un affare.

Come già raccontato da IrpiMedia, è quanto successo agli Ordini degli avvocati di Roma e Milano, che hanno stipulato una convenzione con un’azienda – che quindi ha goduto del prestigio dato dalla sua pubblicizzazione – senza nemmeno accertare che quanto dichiarava di se stessa fosse reale o meno.

Mara e Lorenzo sono ai due estremi dello spettro dei bersagli della disinformazione: da un lato chi le informazioni le consuma, dall’altro chi le impiega per lavoro. In mezzo non c’è alcun limite, regola o vigilanza possibile. E mentre l’Autorità garante per la protezione dei dati personali è l’istituto deputato a rendere concreto il diritto all’oblio, quindi decidendo in merito alle richieste di deindicizzazione di pagine e articoli, non sembra esistere una controparte: qualcuno in grado di sanzionare chi produce contenuti ingannevoli creati per manipolare la rete, né alcuno che possa multare un’azienda quando questa si finge un giornale nel chiedere a Google la deindicizzazione di un articolo. Esattamente quanto successo a IrpiMedia, che ha scoperto suo malgrado di essere titolare di quattro richieste di rimozione ai danni di un’altra testata – la violazione del copyright è il pretesto – senza che nessuno della nostra redazione ne fosse al corrente.

Su suggerimento di diversi esperti, IrpiMedia si è rivolta ad Agcom, autorità per le garanzie nelle comunicazioni, per chiedere se non fossero loro preposti a vigilare in tal senso. Come si legge nel sito della stessa organizzazione, retta da Giacomo Lasorella, l’autorità ha il «duplice compito di assicurare la corretta competizione degli operatori sul mercato e di tutelare i consumi di libertà fondamentali degli utenti», oltre a svolgere «funzioni di regolamentazione e vigilanza nei settori delle comunicazioni elettroniche, dell’audiovisivo, dell’editoria, delle poste e più recentemente delle piattaforme online». Nessuna risposta è mai pervenuta.

Nel frattempo Mara e Lorenzo saranno tanto più esposti a notizie false, quanto più il mondo di chi produce informazioni, il giornalismo in particolare, non cercherà di riacquistare la propria autorevolezza. Oggi le redazioni fanno costantemente uso di pubblicità redazionali – articoli di promozione commissionati a uffici stampa che cercano di dare positivo risalto a ciò che fa il loro cliente – senza che il pubblico di lettori ne sia pienamente consapevole. In fondo agli articoli si affastellano gli “strilli” che conducono a contenuti promozionali che servono solo a generare click, nella speranza di racimolare più pubblicità. Il confine tra marketing e giornalismo si è assottigliato con la creazione di ibridi che non sempre sono di facile comprensione per chi legge.

Le buone maniere dell’informazione
Dalle conversazioni con chi si occupa di reputazione online, si evince che deindicizzare e anonimizzare è prima di tutto un fatto di quieto vivere. Si accondiscende a queste richieste – noi stessi a IrpiMedia lo abbiamo fatto alcune volte – perché sottrarre un articolo ai risultati dei motori di ricerca è apparentemente meno lesivo dell’integrità del giornalista di quanto non sia cancellarlo del tutto. Deindicizzare o anonimizzare non significa modificare ciò che si è scritto, non è un’ammissione di colpa. Al contrario, queste due operazioni vanno incontro a una richiesta di una controparte e risolvono a monte una controversia che altrimenti potrebbe finire in tribunale. Qualsiasi cosa pur di evitare una querela, che nella gran parte dei casi punta a disincentivare la stampa a coprire una notizia, piuttosto che a raddrizzare un torto.

Tuttavia intervenire sull’indicizzazione o anonimizzare è molto più efficace oramai di una querela, perché mentre i giornalisti sono pronti a lottare contro un chiaro tentativo di censura, la richiesta apparentemente moderata di deindicizzazione punta sulla moral suasion e sull’inerzia delle testate giornalistiche, poco attrezzate per difendersi da questa forma di attacco “gentile”.

Senza dubbio, la prassi delle richieste di rimozione degli articoli ha il lato positivo di spostare le controversie fuori dai tribunali e renderle più “agili”. L’altra faccia della medaglia è che trasforma la decisione di mantenere o meno un’informazione in un semplice «favore» per evitare qualcosa di peggio. La querela non dovrebbe essere un’arma per minacciare, ma per difendere la vittima di un’ingiustizia commessa da chi riporta informazioni scorrette. Invece in questi anni ha sempre più assunto la forma di uno strumento intimidatorio. Questo non giustifica i giornalisti che talvolta si arroccano dietro al diritto di cronaca o alla lesa libertà di stampa per giustificare un lavoro superficiale e approssimativo.

Ma nella lotta tra i due estremi, fra le querele minatorie e il pressapochismo acchiappa-click, il giornalista finisce per perdere il suo ruolo e valore sociale ed è invece sempre più percepito o come un martire o come un carnefice: mai come semplice fornitore di un pubblico servizio.
In questo contesto, assassinare una storia non è più considerato un “reato” perché abbiamo smesso di considerare la “verità” del suo contenuto come il suo vero valore per la collettività.

Si fa presto a dire libertà di stampa
C’è la falsa opinione che una volta che un articolo è online, ci resti per sempre. Invece agenzie come Eliminalia contribuiscono a seppellirli dove nessuno li trova, mentre l’incuria della gestione degli archivi in rete, che siano di giornali o di enti pubblici come i tribunali, contribuisce a “rompere” i link e renderli introvabili. A questo si aggiungono le maglie sempre più larghe dell’applicazione del diritto all’oblio o richieste di tutela dei propri dati che si scontrano con il diritto di cronaca (in Italia la riforma proposta dall’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia sta creando molte perplessità tra chi deve occuparsi di cronaca giudiziaria).

Il problema della rimozione di contenuti online è noto da almeno vent’anni: l’associazione statunitense per i diritti digitali Electronic Frontier Foundation mantiene un archivio e già nel 2003 segnala l’abuso del copyright per silenziare articoli scomodi. Negli anni la situazione si è aggravata e oggi governi di Paesi come Nicaragua, Tanzania ed Ecuador sfruttano sistematicamente le violazioni di copyright come un’arma per silenziare critici e oppositori online.

Con la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 2014, in Europa è emerso anche un nuovo scenario: con il diritto all’oblio le piattaforme come Google devono rimuovere informazioni e dati personali quando ricevono una richiesta dall’interessato, soprattutto se le informazioni non sono più rilevanti. E proprio sulla rilevanza delle informazioni si apre una battaglia che procede a colpi di sentenze della Corte. Ci sarebbero delle linee guida per decidere come trattare una richiesta di diritto all’oblio, le prime pubblicate nel 2014 mentre le più recenti nel 2020, e dovrebbero offrire un aiuto ai Garanti per la privacy nazionali nel bilanciare il diritto all’oblio e il diritto all’informazione. Il tutto è però affidato alla discrezionalità non solo delle Autorità, i cui processi interni nascono e operano nell’alveo di un meccanismo di garanzia, ma anche delle stesse piattaforme, che possono decidere anche in assenza di un pronunciamento istituzionale.

Di fronte alla scomparsa degli articoli, già nel 2016 i giornalisti Mario Tedeschini-Lalli e Nicolas Kayser-Bril si sono posti il problema opposto: il “diritto a ricordare”. Avevano in mente di creare “paradisi del ricordo”, sullo stesso stile dei “paradisi fiscali”, luoghi dove salvare i contenuti dall’oblio dalle legislazioni che impongono la deindicizzazione.

L’iniziativa si chiamava Offshore Journalism Platform: «I giornalisti e gli editori non “scrivono più per il presente”, ma producono informazioni da consumare nel tempo, in contesti diversi e inimmaginabili. A tutti gli effetti, stanno “scrivendo per il futuro”- si legge nel manifesto del report finale, del 2018 -. Scrivere per il futuro significa dotare ogni informazione di tutti gli attributi che la renderanno reperibile e rilevante per un pubblico diverso, in un momento diverso. Che gli editori e i giornalisti siano o meno pienamente consapevoli di questa possibilità, si tratta di un passo da gigante nella ridefinizione della libertà di parola e di stampa».

In questi cinque anni non sembra che in molti si siano preoccupati di scrivere per il futuro. Inoltre le decisioni sugli archivi online della Corte europea dei diritti dell’uomo sono sempre più problematiche dal punto di vista di chi deve gestire un archivio.

È emblematico un suo pronunciamento del maggio 2021 contro il quotidiano belga Le Soir. Nel 2008 il giornale ha riprodotto nel proprio archivio online un vecchio articolo del 1994 in cui si parlava di un uomo che in un incidente ha provocato la morte di due persone e ne ha uccise altre tre. Condannato nel 2000, ha scontato la sua pena nel 2006. Il protagonista dell’incidente ha chiesto di essere anonimizzato, il giornale si è rifiutato. Il caso è andato fino alla Corte di Strasburgo e la decisione è stata contro l’editore di Le Soir. Questo però implica che qualunque articolo di cronaca giudiziaria sia in pericolo.

Nella sentenza si legge che un gruppo di esperti ha stabilito che la questione non riguardava la libertà di stampa «ma solamente la sua (dell’articolo, ndr) accessibilità sul sito del giornale». Come a dire che il diritto di informare non è intaccato dal momento che il giornalista è libero di scrivere, sebbene la notizia non sia leggibile da nessuno, producendo uno sbilanciamento dei diritti tutto a favore di aziende come Eliminalia, che sfruttano le fragilità del sistema dell’informazione a beneficio di clienti ricchi e potenti.

«Con [l’emergere] di queste aziende è diventato molto più efficace sfruttare le già presenti iniquità del sistema», sostiene Katherine Trendacosta, direttrice dell’area politiche e attivismo del Electronic Frontier Foundation: «Il modo più semplice per rimuovere qualcosa è presentare un reclamo per violazione del copyright». O sfruttando il diritto all’oblio. Vero o falso? Non è importante. Conta evitare grane, tanto più grandi quanto più sono ampie le disponibilità economiche di chi reclama il proprio diritto.

Raffaele Angius, Lorenzo Bagnoli e Riccardo Coluccini per IrpiMedia

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