di Alice Facchini
La finanza climatica è stata al centro dell’agenda della Cop29, cominciata lunedì 11 novembre a Baku, in Azerbaigian, e in corso fino al 22 novembre. La Conferenza delle Nazioni Unite per il contrasto al cambiamento climatico si sta concentrando infatti sui fondi che i paesi più ricchi devono versare a quelli meno sviluppati e più vulnerabili e che storicamente hanno minori responsabilità rispetto al cambiamento climatico, avendo prodotto meno emissioni di gas serra in passato. Ma quale sarà il destino della finanza climatica, ora che Trump è stato eletto presidente? Il rischio è che ogni impegno sia indebolito. La Cop29 potrebbe semplicemente non riuscire a raggiungere un accordo finanziario o, più probabilmente, ottenerne uno troppo debole.
“Sappiamo perfettamente che Trump non darà un altro centesimo ai finanziamenti per il clima, e questo neutralizzerà qualunque accordo venga concordato”, ha dichiarato all’The Atlantic Joanna Depledge, ricercatrice dell’Università di Cambridge esperta di negoziati internazionali sul clima. Se così fosse, non solo ci sarebbero circa mille miliardi di dollari all’anno in meno sulla bilancia, ma sarebbe anche più probabile che altri paesi donatori metterebbero in dubbio il loro impegno. La Cina, del resto, non perde occasione per chiarire di essere anch’essa un paese in via di sviluppo, il che implica minori obblighi di limitare le emissioni o versare finanziamenti.
In tutto questo, i paesi dell’Unione Europea non hanno la forza economica e politica necessaria per andare controcorrente e colmare il vuoto lasciato dagli Stati Uniti. L’ultima volta che Trump è stato eletto, l’Ue, la Cina e il Canada avevano avviato una piattaforma negoziale congiunta per portare avanti le discussioni sul clima senza gli Stati Uniti: il risultato era stato praticamente un nulla di fatto, ma questa coalizione ora avrà una seconda possibilità. E questo potrebbe portare la Cina ad assumere il ruolo di “leadership climatica”.
La Cina rincorre la leadership climatica
Per la Cina, questa sembra essere un’occasione d’oro. Tong Zhao, membro senior del Carnegie Endowment for International Peace, ha detto alla Reuters che il paese si aspetta di essere in grado di “espandere la sua influenza nei vuoti di potere emergenti”. Nonostante in diverse occasioni abbia lavorato per bloccare gli accordi sul clima, oggi la Cina potrebbe scegliere di posizionarsi come il nuovo paese che guida la transizione energetica a livello globale.
Dopotutto, aveva già sfruttato la prima amministrazione Trump per diventare di gran lunga il più grande produttore di energia verde e fornitore di tecnologie pulite al mondo. L’obiettivo ora potrebbe essere di espandere la propria influenza attraverso il cosiddetto “soft power verde”: negli ultimi cinque anni si è concentrata sulla costruzione di infrastrutture per la transizione energetica in Africa, America Latina e Sud-Est asiatico. Sotto Biden, gli Stati Uniti stavano tentando di competere avviando programmi in Indonesia o Vietnam. “Ma ora sospetto che questi sforzi federali verranno eliminati”, ha commentato Alex Wang, professore di diritto alla Ucla ed esperto di relazioni Usa-Cina.
Non dimentichiamo comunque che la Cina resta ancora il più grande produttore di sostanze inquinanti al mondo, come ha sottolineato Li Shuo, direttore dell’Asia Society Policy Institute. L’amministrazione Biden è riuscita a spingerla a essere più ambiziosa riguardo ad alcuni obiettivi climatici, spingendola ad esempio a impegnarsi per ridurre le proprie emissioni di metano. Ma l’amministrazione Trump probabilmente abbandonerà questo dialogo e rimuoverà, per la seconda volta, gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi, che richiede ai partecipanti di impegnarsi su specifici obiettivi di riduzione delle emissioni. L’ultima volta, il ritiro di Trump ha fatto fare bella figura alla Cina senza che il paese dovesse necessariamente cambiare rotta: la stessa dinamica potrebbe accadere questa volta, spiega ancora Wang.
Gli Stati Uniti frenano, ma la società civile non molla
Tra le nomine che hanno fatto più scalpore dopo che Trump è stato eletto presidente c'è quella del nuovo Ministro dell'energia: Chris Wright, dirigente nell'industria del petrolio e del gas, e pioniere nel settore delle trivellazioni per trovare nuovi giacimenti. "A partire dal primo giorno approverò nuovi oleodotti e nuove raffinerie", aveva detto Trump in campagna elettorale. "Ridurremo la democrazia".
Gli Stati Uniti sono attualmente il secondo paese al mondo per emissioni, e sono di gran lunga lo Stato che storicamente ha inquinato di più. Non solo: negli anni passati, hanno spesso avuto il ruolo di ostacolare i negoziati sul clima. Nel 1992, la sottoscrizione del Trattato di Rio è stata resa totalmente volontaria su insistenza del primo presidente Bush. Nel 1997, l’amministrazione Clinton-Gore non aveva alcuna strategia per far ratificare il Protocollo di Kyoto al Senato, tanto che gli Stati Uniti non l’hanno ancora fatto.
Ma sebbene l’amministrazione del presidente George W. Bush abbia sostanzialmente dichiarato morto Kyoto, di fatto ha gettato le basi per l’Accordo di Parigi. Accordo che è sopravvissuto al primo mandato di Trump, nonostante l'allora presidente statunitense sfilò gli Stati Uniti dall'Accordo, e auspicabilmente sopravviverà anche a questo.
Non solo: gli Stati Uniti non dipendono – per fortuna – soltanto dal loro governo federale. A livello locale, durante la prima amministrazione Trump sono sorte un certo numero di organizzazioni per mobilitare governatori, sindaci e amministratori affinché intervengano contro il cambiamento climatico. Tra questi ci sono la U.S. Climate Alliance (una coalizione bipartisan di 24 governatori) e America Is All In (una coalizione di 5mila sindaci, presidenti di college, dirigenti sanitari e leader religiosi). Questa volta, almeno, non partiranno da zero: alcune parti degli Stati Uniti continueranno a lottare contro il cambiamento climatico.
“Sappiamo perfettamente che Trump non darà un altro centesimo ai finanziamenti per il clima, e questo neutralizzerà qualunque accordo venga concordato”, ha dichiarato all’The Atlantic Joanna Depledge, ricercatrice dell’Università di Cambridge esperta di negoziati internazionali sul clima. Se così fosse, non solo ci sarebbero circa mille miliardi di dollari all’anno in meno sulla bilancia, ma sarebbe anche più probabile che altri paesi donatori metterebbero in dubbio il loro impegno. La Cina, del resto, non perde occasione per chiarire di essere anch’essa un paese in via di sviluppo, il che implica minori obblighi di limitare le emissioni o versare finanziamenti.
In tutto questo, i paesi dell’Unione Europea non hanno la forza economica e politica necessaria per andare controcorrente e colmare il vuoto lasciato dagli Stati Uniti. L’ultima volta che Trump è stato eletto, l’Ue, la Cina e il Canada avevano avviato una piattaforma negoziale congiunta per portare avanti le discussioni sul clima senza gli Stati Uniti: il risultato era stato praticamente un nulla di fatto, ma questa coalizione ora avrà una seconda possibilità. E questo potrebbe portare la Cina ad assumere il ruolo di “leadership climatica”.
La Cina rincorre la leadership climatica
Per la Cina, questa sembra essere un’occasione d’oro. Tong Zhao, membro senior del Carnegie Endowment for International Peace, ha detto alla Reuters che il paese si aspetta di essere in grado di “espandere la sua influenza nei vuoti di potere emergenti”. Nonostante in diverse occasioni abbia lavorato per bloccare gli accordi sul clima, oggi la Cina potrebbe scegliere di posizionarsi come il nuovo paese che guida la transizione energetica a livello globale.
Dopotutto, aveva già sfruttato la prima amministrazione Trump per diventare di gran lunga il più grande produttore di energia verde e fornitore di tecnologie pulite al mondo. L’obiettivo ora potrebbe essere di espandere la propria influenza attraverso il cosiddetto “soft power verde”: negli ultimi cinque anni si è concentrata sulla costruzione di infrastrutture per la transizione energetica in Africa, America Latina e Sud-Est asiatico. Sotto Biden, gli Stati Uniti stavano tentando di competere avviando programmi in Indonesia o Vietnam. “Ma ora sospetto che questi sforzi federali verranno eliminati”, ha commentato Alex Wang, professore di diritto alla Ucla ed esperto di relazioni Usa-Cina.
Non dimentichiamo comunque che la Cina resta ancora il più grande produttore di sostanze inquinanti al mondo, come ha sottolineato Li Shuo, direttore dell’Asia Society Policy Institute. L’amministrazione Biden è riuscita a spingerla a essere più ambiziosa riguardo ad alcuni obiettivi climatici, spingendola ad esempio a impegnarsi per ridurre le proprie emissioni di metano. Ma l’amministrazione Trump probabilmente abbandonerà questo dialogo e rimuoverà, per la seconda volta, gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi, che richiede ai partecipanti di impegnarsi su specifici obiettivi di riduzione delle emissioni. L’ultima volta, il ritiro di Trump ha fatto fare bella figura alla Cina senza che il paese dovesse necessariamente cambiare rotta: la stessa dinamica potrebbe accadere questa volta, spiega ancora Wang.
Gli Stati Uniti frenano, ma la società civile non molla
Tra le nomine che hanno fatto più scalpore dopo che Trump è stato eletto presidente c'è quella del nuovo Ministro dell'energia: Chris Wright, dirigente nell'industria del petrolio e del gas, e pioniere nel settore delle trivellazioni per trovare nuovi giacimenti. "A partire dal primo giorno approverò nuovi oleodotti e nuove raffinerie", aveva detto Trump in campagna elettorale. "Ridurremo la democrazia".
Gli Stati Uniti sono attualmente il secondo paese al mondo per emissioni, e sono di gran lunga lo Stato che storicamente ha inquinato di più. Non solo: negli anni passati, hanno spesso avuto il ruolo di ostacolare i negoziati sul clima. Nel 1992, la sottoscrizione del Trattato di Rio è stata resa totalmente volontaria su insistenza del primo presidente Bush. Nel 1997, l’amministrazione Clinton-Gore non aveva alcuna strategia per far ratificare il Protocollo di Kyoto al Senato, tanto che gli Stati Uniti non l’hanno ancora fatto.
Ma sebbene l’amministrazione del presidente George W. Bush abbia sostanzialmente dichiarato morto Kyoto, di fatto ha gettato le basi per l’Accordo di Parigi. Accordo che è sopravvissuto al primo mandato di Trump, nonostante l'allora presidente statunitense sfilò gli Stati Uniti dall'Accordo, e auspicabilmente sopravviverà anche a questo.
Non solo: gli Stati Uniti non dipendono – per fortuna – soltanto dal loro governo federale. A livello locale, durante la prima amministrazione Trump sono sorte un certo numero di organizzazioni per mobilitare governatori, sindaci e amministratori affinché intervengano contro il cambiamento climatico. Tra questi ci sono la U.S. Climate Alliance (una coalizione bipartisan di 24 governatori) e America Is All In (una coalizione di 5mila sindaci, presidenti di college, dirigenti sanitari e leader religiosi). Questa volta, almeno, non partiranno da zero: alcune parti degli Stati Uniti continueranno a lottare contro il cambiamento climatico.
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