Più di 70.000 diplomatici, politici, dirigenti d'azienda e sostenitori dell'ambiente provenienti da tutto il mondo sono attesi per partecipare alla annuale Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico che quest’anno si terrà a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, dal 30 novembre al 12 dicembre.
Ogni anno, infatti, i delegati di quasi 200 Stati si riuniscono per discutere su come limitare l'aumento delle temperature globali ed evitare le conseguenze più disastrose del cambiamento climatico. La conferenza di quest'anno potrebbe essere particolarmente importante perché le emissioni di carbonio continuano a raggiungere i massimi storici e il pianeta si avvicina a potenziali punti di svolta che potrebbero mandare il riscaldamento globale fuori controllo e innescare cambiamenti irreversibili.
Il vertice di Dubai arriva dopo un’estate di eventi meteorologici estremi a tutte le latitudini e nel bel mezzo delle guerre in Europa e Medio Oriente che potrebbero affievolire ulteriormente i processi di transizione ecologica avviati negli ultimi anni e tenere ancora viva la fiamma dei combustibili fossili.
La crisi climatica è scivolata via via tra le pieghe delle agende politiche dei governi ed è pressoché sparita dai radar dei nostri mezzi di informazione che mostrano la loro allergia ad affrontare fenomeni complessi, come il cambiamento climatico, nei loro aspetti strutturali e sistemici, accendendo i fari solo sui singoli eventi – estremi – e raccontandoli con il linguaggio e la tensione dell’emergenza. Come se la crisi climatica fosse, appunto, un’emergenza che ora c’è e poi passa, e quando non se ne parla più, smette di esistere. Il cambiamento climatico fa notizia quando fa rumore; ma il cambiamento climatico come notizia è un’altra cosa. E purtroppo continuando a parlare della crisi climatica come una emergenza (e solo quando c’è una situazione fuori dall’ordinario), si finisce per dare coordinate sballate che distorcono le lenti attraverso le quali osservare, analizzare e comprendere il fenomeno.
È un discorso che in ambiente mediatico ci ripetiamo da anni: era il 2015 quando l’ex direttore del Guardian, Alan Rusbridger, parlava della difficoltà di coprire il cambiamento climatico e la giornalista, Margaret Sullivan, si interrogava in un editoriale sul Washington Post su come trovare un modo per “mantenere alta l'attenzione sugli effetti del cambiamento climatico, un tema che apparentemente rimane sempre lo stesso, a volte senza agganci al flusso di notizie quotidiane e che dà la percezione di reiterare sempre la stessa notizia” (ad esempio, il mese xy è il più caldo degli ultimi decenni), senza però cedere a un linguaggio dai toni eccessivamente drammatici o che tende a sminuire quel che sta accadendo. Un disco rotto, insomma.
E “un disco rotto” è il titolo dell’ultimo rapporto pubblicato dall’UNEP, il Programma ambientale delle Nazioni Unite, perché riporta informazioni già ripetute da anni: nel 2022 le emissioni sono aumentate del volume record di 57,4 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente, tornando su livelli e trend di crescita pre-Covid; le emissioni da combustibili fossili e processi industriali sono responsabili per i due terzi delle emissioni totali e il divario emissivo al 2030 rimane sostanzialmente invariato; gli attuali obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni (NDC) porteranno al massimo a una riduzione delle emissioni del 9% entro il 2030, contro il 42% necessario per rimanere entro la soglia di 1,5°C in più rispetto alle temperature globali dell’era pre-industriale; proseguire con le politiche attuali significa un riscaldamento globale medio di 3°C. “Anche nello scenario più ottimistico preso in considerazione – conclude il rapporto – la possibilità di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C è del 14%”.
“Di solito parliamo della necessità di proteggere i paesi e le popolazioni più esposte agli effetti del cambiamento climatico. Ora siamo arrivati al punto in cui siamo tutti in prima linea”, commenta al Guardian Simon Stiell, nominato nel 2022 nuovo segretario esecutivo dell’UNFCCC, la Convenzione quadro dell’ONU sul clima. “Eppure la maggior parte dei governi sta ancora passeggiando quando invece dovrebbe iniziare lo sprint finale. Più procediamo a piccoli passi, più passi ampi e svelti dovremo fare nei prossimi anni se vogliamo ancora rimanere in gara. La scienza è assolutamente chiara”.
Ancor più chiaro, al riguardo, è il rapporto “Stato dell'azione per il clima 2023” del World Resources Institute che ha rilevato come “i paesi siano in ritardo su quasi tutte le politiche necessarie per ridurre le emissioni di gas serra. Dei 42 indicatori valutati, la vendita di veicoli elettrici è l'unico sulla buona strada. Per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, il carbone dovrebbe essere eliminato 7 volte più velocemente del ritmo attuale.
Di fronte a questo scenario, la COP28 sarà innanzitutto una Conferenza sul clima di “accountability”, commenta Andrea Ghianda, responsabile della comunicazione del think tank ECCO. O quantomeno della consapevolezza che quanto fatto finora non è stato sufficiente. “Alla COP28 – prosegue Ghianda – i paesi dovranno accordarsi e dichiarare come vorranno procedere. Il tutto con un senso di responsabilità rispetto alla fattibilità, credibilità e allineamento di tali promesse. Lo stesso vale per le compagnie dei combustibili fossili. Solo in questo modo si potrà raggiungere un risultato credibile e adeguato, ovvero che sia sufficientemente ambizioso per chiudere il divario e al tempo stesso realizzabile”.
Staremo a vedere se le risposte dei Governi e delle imprese saranno un “disco rotto” e prevarranno interessi di parte e interventi a breve termine, che finiranno per ritardare ulteriormente la transizione energetica, o soluzioni e azioni trasformative e innovative, se saranno più forti le nubi dei combustibili fossili che si addensano minacciose su questa COP o più di buon auspicio l’accordo tra il presidente statunitense, Joe Biden, e il leader cinese, Xi Jinping sulla necessità di triplicare le rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica.
Cosa aspettarsi dalla COP28 a Dubai
“Global Stocktake”, “combustibili fossili”, “perdite e danni”, “finanza climatica” sono le parole a cui prestare attenzione durante questa conferenza sul clima.
Il Global Stocktake sarà il fulcro dei negoziati di Dubai. È il bilancio globale di due anni attraverso il quale gli Stati valuteranno i progressi fatti come comunità internazionale nell’ambito dell’Accordo di Parigi e quali azioni future intraprendere alla luce di quanto (poco) fatto finora. Uno dei risultati chiave della COP28 sarà proprio il contenuto del testo finale relativo al bilancio, considerato che dovrà essere un documento che conterrà le azioni comuni da fare e le valutazioni di cosa è stato fatto a livello globale. Ogni paese ha indicato le proprie priorità rispetto al bilancio: si va da proposte su come i singoli Stati dovranno aumentare l’ambizione dei loro piani climatici (i contributi nazionali determinati, NDC) agli obiettivi globali sulle misure di adattamento agli effetti del cambiamento climatico e sulla finanza climatica dal 2025 in poi. Data la natura onnicomprensiva del Global Stocktake, i contributi di ciascuna Parte sono tanto vari quanto i negoziati della COP: ognuno potrà fare pressione su obiettivi specifici come la transizione energetica, la trasformazione del settore industriale, lo sviluppo di particolari tecnologie. Ci si aspetta uno slancio sulle rinnovabili, ma destano preoccupazioni alcune “forzature” come la proposta della Russia di classificare il gas come “combustibile di transizione”, o quella dell’Australia di inserire tra gli obiettivi globali l’idrogeno a basse emissioni di carbonio.
I combustibili fossili sono l’altro grande tema della COP28. Come vedremo nel dettaglio più avanti, l’assegnazione della Conferenza sul clima a uno Stato petrolifero, gli Emirati Arabi Uniti, e la scelta di Sultan Al Jaber, amministratore delegato della compagnia petrolifera statale, come presidente, hanno scatenato grandi polemiche, tra chi ricorda che non è la prima volta che un paese legato alle fonti fossili (o grande emettitore di gas climalteranti) ospita una COP, e chi invece sottolinea l’evidente contraddizione. Tuttavia, questa situazione farà tenere ancora di più i riflettori accesi sui combustibili fossili, con alcuni paesi che chiederanno un accordo per la loro graduale eliminazione nei prossimi anni.
La presidenza degli Emirati Arabi Uniti ha fatto della “accelerazione della transizione energetica e della riduzione delle emissioni prima del 2030” una delle priorità del vertice, dopo che alla COP27 di Sharm El-Sheik, in Egitto, nel 2022, circa 80 paesi hanno dato slancio all’ipotesi dell’eliminazione graduale di tutti i combustibili fossili. Tutti questi sforzi, però, alla fine non hanno avuto successo.
Sultan Al Jaber ha affermato che “la riduzione graduale della domanda e dell'offerta di tutti i combustibili fossili è inevitabile ed essenziale”. Alcune Parti (come la cosiddetta “High Ambition Coalition”, che comprende Francia, Spagna e Kenya) hanno dichiarato che daranno priorità alla completa eliminazione dei combustibili fossili, mentre altre hanno posto l'accento sull'eliminazione dei soli combustibili fossili “non consumati” o hanno respinto del tutto l'idea. Altri paesi ancora hanno spinto per obiettivi più specifici, come la fine del carbone o dei sussidi ai combustibili fossili.
Contestualmente, sta cominciando a prendere credito la richiesta di triplicare la capacità rinnovabile globale, promossa dall'Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), sostenuta a settembre dal gruppo delle principali economie del G20 e accolta dalla presidenza della COP28, insieme all’invito a raddoppiare il tasso di maggiore efficienza energetica. Vedremo su quale accordo convergeranno i negoziati.
L’altro grande obiettivo di questa COP è rendere operativo un nuovo fondo per le “perdite e i danni” causati dal cambiamento climatico. La decisione di istituire questo fondo, dopo decenni di pressioni da parte dei paesi in via di sviluppo, è tra i principali risultati della Conferenza dello scorso anno in Egitto. Dopo la COP27, un “comitato di transizione” composto da funzionari governativi di tutto il mondo è stato incaricato di concordare un quadro di riferimento per il fondo. Si trattava di decidere chi avrebbe dovuto versare, chi avrebbe potuto attingere al fondo e dove avrebbe avuto sede.
Anche in questo caso, i negoziati hanno portato a profonde divisioni tra economie avanzate e paesi in via di sviluppo. I paesi in via di sviluppo non vogliono che il fondo abbia sede presso la Banca Mondiale, chiedono che il fondo sia accessibile a tutti i paesi in via di sviluppo e sia sostenuto principalmente con finanziamenti a fondo perduto da parte dei paesi sviluppati. A loro volta, i paesi sviluppati vogliono garantire che il settore privato, i gruppi umanitari e gli Stati più ricchi, come la Cina e l'Arabia Saudita, condividano l'onere di pagare il fondo. Alla fine si è arrivati a elaborato una bozza di quadro che potrebbe essere approvata alla COP28, anche se gli Stati Uniti non concordano sul testo finale e potrebbero riaprire alcune questioni in sede negoziale.
Proprio i finanziamenti per il clima sono l’altro tema importante di questa Conferenza. I paesi in via di sviluppo hanno bisogno di migliaia di miliardi di investimenti annuali per realizzare i loro piani climatici e passare a economie a basse emissioni di carbonio. Ai colloqui sul clima delle Nazioni Unite, a Bonn, all'inizio di quest'anno, alcuni di questi Stati hanno dichiarato apertamente di non voler discutere della riduzione delle emissioni se non si è posta la stessa attenzione al sostegno finanziario. Il prossimo anno, le Parti dovranno indicare un nuovo obiettivo globale post-2025 per fornire ai paesi in via di sviluppo finanziamenti per il clima, ma ancora i paesi sviluppati non sono riusciti a rispettare il finanziamento di 100 miliardi di dollari l'anno per il clima verso i paesi in via di sviluppo, prefissato per il 2020.
Si tratta di una delle questioni più delicate che potrebbe indirizzare i negoziati della COP28, alla quale è strettamente legato anche il tema dell’adattamento. A Dubai, le Parti dovranno adottare un quadro di riferimento per il raggiungimento dell’“obiettivo globale sull'adattamento”, fissato per la prima volta nell'Accordo di Parigi, ma mai definito. È questa una delle priorità di alcuni paesi in via di sviluppo, che affermano da tempo che la protezione delle popolazioni più esposte e vulnerabili agli effetti dei cambiamenti climatici sia meno considerata rispetto agli sforzi per ridurre le emissioni (mitigazione). Alcune Parti probabilmente spingeranno per un riferimento all’obiettivo di raddoppiare i finanziamenti complessivi per l'adattamento - menzionato per la prima volta nel Patto per il clima di Glasgow alla COP26 - e cercheranno delle soluzioni per collegare i risultati dell'adattamento al Global Stocktake.
Alla COP28 proseguiranno, infine, altri due “programmi di lavoro”: uno sulla mitigazione, che si concentrerà su come gli Stati possono aumentare i loro sforzi di riduzione delle emissioni; l’altro sui “percorsi di transizione giusta”, ovvero come raggiungere gli obiettivi dell'Accordo di Parigi, garantendo al tempo stesso una “transizione giusta” per le persone in tutto il mondo.
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