Anno IX - Numero 29
Tutte le guerre sono combattute per denaro.
Socrate

mercoledì 2 agosto 2023

Regno Unito, una crisi tira l’altra

Il Regno Unito al momento è l’unico paese del G7 in cui l’inflazione aumenta anziché diminuire e inoltre, insieme alla Germania, ha un prodotto interno lordo che non ha recuperato il crollo pandemico. Uno scenario stagflazionistico che proietta lunghe ombre sulle elezioni generali previste per fine 2024 e il cui esito al momento è così scontato. Tanto che si può dire che solo il Labour di Keir Starmer può perderle

di Mario Seminerio

In Europa al momento ci sono due malati, uno dentro e l’altro fuori dalla Ue: Germania e Regno Unito. Della Germania abbiamo di recente detto; del Regno Unito è da qualche tempo che non aggiorniamo la situazione. All’incirca, da quando il tranquillo e prevedibile Rishi Sunak ha sostituito la svalvolata Liz Truss, a sua volta subentrata all'”italiano” Boris Johnson, abbattuto da eccesso di disinvoltura istituzionale, diciamo così. Ma la situazione dell’economia britannica, pur affidata alle teoricamente capaci mani di Sunak e del Cancelliere dello Scacchiere, Jeremy Hunt, non accenna a migliorare. Tutt’altro.
Il Regno Unito al momento è l’unico paese del G7 in cui l’inflazione aumenta anziché diminuire, anche solo col passo molto lento che sta innervosendo i banchieri centrali. Regno Unito e Germania sono inoltre gli unici paesi del G7 il cui prodotto interno lordo non ha recuperato il crollo pandemico.



Lo scenario stagflazionistico che avvolge il Regno Unito proietta ombre lunghe sulle prossime elezioni generali, previste per fine 2024, il cui esito al momento è così scontato che si può dire che solo il Labour di Keir Starmer può perderle. La crisi attuale sta riportando il Regno Unito agli anni Settanta e al cosiddetto Inverno del Malcontento, quello che preparò il terreno per l’avvento di Margaret Thatcher. Ma la crisi di oggi rimette in discussione la stagione delle privatizzazioni che della Iron Lady fu la firma.

Guai privatizzati e salvataggi pubblici
I fornitori di servizi pubblici, in mano privata, quando entrano in crisi finiscono col far ricadere sui contribuenti gli oneri del loro dissesto. L’ultima criticità è legata alla tendenza delle utilities a indebitarsi con obbligazioni legate all’andamento dei prezzi, anche per rendere tale debito appetibile per i fondi pensione. Il problema, come documenta Bloomberg, è che si è creata una divergenza tra il costo del debito e i ricavi di tali aziende. Il primo è legato di solito al Retail Price Index (RPI), una metrica caratteristica britannica che al costo della vita aggiunge i tassi sui mutui, che sono schizzati con la stretta monetaria della Bank of England.

Per contro, l’indicizzazione delle bollette delle imprese che gestiscono il servizio idrico è legata all’indice dei prezzi al consumo più gli affitti, che sta mostrando una dinamica meno virulenta del RPI. Da qui uno squilibrio reddituale che amplifica altri problemi gestionali, spesso legati a insufficienti investimenti di aziende che hanno privilegiato i dividendi. Per i gestori del servizio idrico, debito e costo del debito stanno crescendo più degli attivi e dei ricavi. E prima o poi, il governo dovrà intervenire per evitare il peggio.

Un problema analogo lo ha Network Rail, il gestore pubblico della rete ferroviaria britannica, subentrato nel 2002 alla società privata Railtrack affondata da gravi disfunzioni e carenze e considerata responsabile di alcuni gravi incidenti ferroviari. Network Rail si è indebitata indicizzandosi al Rpi ma i suoi ricavi, derivanti da affitto della rete ai transiti delle compagnie ferroviarie, sono rimasti pressoché stabili anche dopo la ripresa post pandemica. Allo scadere delle obbligazioni, la società ha deciso di indebitarsi direttamente col Tesoro a condizioni meno penalizzanti.

Ancora, c’è la crisi delle municipalità. Che, ovviamente, non sono entità private ma che hanno dovuto fare crescente ricorso al debito per supplire ai tagli di erogazioni da parte del governo centrale, e ora si trovano con la spesa per interessi che sta divorando i bilanci e colpendo in modo particolarmente duro l’housing sociale.

Come tutti gli altri paesi occidentali, il Regno Unito si trova a dover gestire un forte aumento di indebitamento pubblico, conseguenza della pandemia e delle misure per evitare il collasso economico, ma lo fa con la peculiarità di una forza lavoro segnata da aumento di inattivi per motivi di condizioni di salute e delle limitazioni all’immigrazione imposte dalla Brexit, anche se ora il numero di ingressi nel paese sta tornando a crescere, sia pure per motivi peculiari legati alla guerra in Ucraina e all’accoglienza di espatriati da Hong Kong.

Pressione inflazionistica e condizioni strette del mercato del lavoro si autoalimentano, e il mercato dei capitali esprime scetticismo sulla capacità del paese e della sua banca centrale di domare il carovita. I tassi più elevati aggiungono almeno 20 miliardi l’anno al debito, che nel frattempo ha toccato la soglia del 100% del Pil.

Più tasse, non meno
Il governo Sunak-Hunt, malgrado le pressanti richieste di ampia parte dei Tory, non taglierà le tasse, avendo visto quello che è accaduto alla sciagurata Truss e al suo compare Kwasi Kwarteng, quando decisero di fare un bel taglio a debito, e vennero mitragliati dai mercati. Anzi, il numero 10 e 11 di Downing Street hanno messo in campo un aumento di entrate sia esplicito, frutto di aumenti di aliquote e/o di riduzione di soglie per scaglioni, sia indiretto, tagliando il valore nominale di detrazioni e deduzioni ma soprattutto lasciando che il fiscal drag trascini i contribuenti negli scaglioni d’imposta superiori, anche se i loro redditi sono aumentati solo in senso nominale e non reale. Tradizione storica italiana, appunto. Un drenaggio fiscale esteso all’aldilà.

La crisi inflazionistica rischia di diventare crisi finanziaria, con la Bank of England che deve recuperare credibilità con nuove pesanti strette mentre i mutuatari, alle prese con mutui britannici tipicamente di breve durata e che vengono rinnovati a scadenza, vengono falcidiati dal reset al rialzo del costo del debito.

Per essere sempre più italiani, anche in Regno Unito è in corso una vibrante polemica politica sulla (scarsa) remunerazione dei conti correnti, che tuttavia non sono strumenti di risparmio. Polemica assai poco comprensibile, se non entro i soliti sterili canoni populistici: con i Gilt a breve scadenza sempre più vicini al 6%, chi ha bisogno di avere i conti correnti remunerati per guadagnare qualcosa?

Il problema britannico è quello di capire che strada prendere. Una pressione fiscale ancora piuttosto bassa rispetto alla media Ocse ma che rischia di essere incompatibile col mantenimento di una rete di welfare anche minima. E col servizio sanitario nazionale in crisi nera, di risorse e personale. Il problema dei Tories è quello di credere e chiedere ancora tagli di tasse in un contesto come l’attuale.

Ricorda gli italiani e i loro dibattiti degli ultimi lustri: tagliam, tagliamo, e nel frattempo debito e spesa pubblica non hanno fatto che aumentare. In Regno Unito, questa ideologia avversa al concetto di tradeoff, di cui BoJo è stato il massimo interprete, si chiama scherzosamente cakeism e deriva dal loro motto “avere la torta e pure mangiarsela”, che equivale al nostro “botte piena e moglie ubriaca”. Altra inquietante somiglianza. Eh, ma loro possono permetterselo, non hanno la catena dell’euro e i mercati finanziari li lasciano tranquilli. Ah no, aspetta.

La Brexit come il comunismo
Decisamente il fallimento di un modello economico, fatto detonare anche dalla Brexit, che ha terremotato il mercato del lavoro. In tutto ciò, c’è il tempo per un po’ di British humour: l’ultimo episodio ce lo ha offerto l’ex ministro dell’agricoltura di BoJo, George Eustice, un convinto Brexiter. Per il quale serve un accordo tra Londra e Ue per visti biennali di lavoro a cittadini under 35, per fare respirare il mercato del lavoro.

Tu pensa. E già che ci sei, se pensi che questa sia una autocritica per la Brexit, toglitelo dalla mente. Il problema non è la Brexit, ha detto Eustice, che proviene da una famiglia di agricoltori, bensì dagli errori del sistema di immigrazione a punti che il Regno Unito si è dato, dopo la Brexit. “Bisogna smettere di guardare ad ogni problema attraverso il prisma della Brexit”. Mi ricorda un po’ il comunismo: un’idea geniale ma applicata in modo pessimo.

Mario Seminerio per Phastidio.net

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