Anno IX - Numero 29
Tutte le guerre sono combattute per denaro.
Socrate

martedì 1 agosto 2023

Invece di celebrare i vincenti, dovremmo rivalutare i vinti

Le grandi innovazioni portano a rivoluzioni sociali che cambiano non solo la vita di chi sta al vertice ma il mondo intero. È importante che ogni tanto, qualche vinto, qualcuno che sappia cosa voglia dire fallire, alzi la testa, arrivi in cima. Anzi, è fondamentale, proprio per concretizzare alcune istanze fondamentali per la democrazia e non solo

di Lucia Brandoli

L’Italia è diventata famosa per essere un popolo di santi, poeti e navigatori. E se sicuramente al momento i poeti non se la passano tanto bene (anche se gli hanno concesso uno spazietto allo Strega), il nostro non è neanche un Paese per sognatori, ma nemmeno per i più pratici, chi vuole trasformare le proprie idee in qualcosa di concreto. Solo vincendo questo compromesso tra la purezza dell’astrazione o della fantasia e il tentativo di realizzarla possiamo provare a cambiare nel nostro piccolo la realtà in cui viviamo, ma fin da piccoli in questo Paese siamo educati a non puntare troppo in alto e a non sognare troppo in grande, cosa che – alla fin fine – di solito è semplicemente un suggerimento a rispettare i limiti della classe sociale a cui apparteniamo, evitare delusioni, cadute da cui è difficile rialzarsi. Soprattutto perché, nel nostro Paese manca una cultura dell’errore e dello sbaglio a vari livelli, da quello educativo a quello economico-finanziario, passando per la creatività, lo sport, l’etica, la deontologia e la morale. Se sbagli, se perdi, se fallisci, vieni segnato, e con te i tuoi figli, e magari anche i figli dei tuoi figli – a maggior ragione se non disponi di un capitale (o di una reputazione) capace di attutire il colpo. È anche per questo che più che di perdenti, o di falliti, termini che in Italia inquadrano negativamente una ben precisa categoria sociale, ho sempre preferito parlare di vinti.

Qualche tempo fa, chiacchierando, mi è capitato di usare questo termine, e appena l’ho proferito si è sollevata un’ondata di indignazione. L’impressione era che anche quella parola – sicuramente meno abusata delle altre – suscitasse un profondo senso di disagio, imbarazzo e vergogna, quasi fosse una sorta di insulto. Come se i vinti “non avessero lottato abbastanza” per non esserlo, quando la loro condizione è complementare a quella delle strutture di potere, uno scontro tra due forme, lo stesso che si replica da migliaia di anni quando i valori di una minoranza si scontrano con quelli di una maggioranza. Sembra che questo termine si trascini con sé l’idea che i vinti siano per qualche ragione peggiori dei vincenti, “inferiori”, proprio perché “non ce l’hanno fatta”. Ma le cose non sono così lineari e consequenziali.

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