di Enrico Cisnetto
In questo momento l’Italia tutta dovrebbe essere pancia a terra, impegnata allo spasimo nel tentativo di cogliere la straordinaria (e ultima?) occasione per rilanciare e modernizzare il Paese, data dalle ingenti risorse del Pnrr e più in generale da una condizione ottimale pur in un contesto internazionale difficile e pericoloso. Ma così non è. Invece di vivere un clima simile a quello della rinascita del dopoguerra, che ci portò ad essere una grande potenza economica e industriale, si percepisce un diffuso senso di malessere e svogliatezza, quasi un tirare a campare. Il paese non è fermo, anzi, ma si capisce che non ha una strategia, che non c’è una sintesi collettiva dell’impegno individuale di imprenditori, professionisti, lavoratori autonomi e dipendenti. Le ragioni di questa afasia progettuale, che si traduce in una mortificazione delle ambizioni, sono molteplici e vengono da lontano, chiamando in causa antichi difetti italici e responsabilità che non risparmiano quasi nessuno. Tuttavia, viviamo il presente, ed è nell’oggi che dobbiamo cercare i motivi di uno spreco di opportunità che fa rabbia. Basta fare una fotografia della realtà per capire: l’Italia vive alla giornata perché questo governo, non diversamente dai precedenti, vive alla giornata. E se chi guida il Paese si comporta così, è impossibile che chi è guidato mostri le virtù della lungimiranza che per definizione spettano alle leadership.
Da quando è nato, il governo Meloni non ha avuto altra agenda che quella delle cosiddette emergenze, talvolta effettive date da accadimenti e contingenze, ma talvolta immaginarie, frutto di bolle mediatiche create o subite, ma comunque sempre generate per riempire un terrificante vuoto programmatico, della maggioranza e delle opposizioni. L’elenco sarebbe lungo, e tedioso tanto compilarlo quanto leggerlo. Basta ricondurre tutto a due fronti, tra loro fortemente intrecciati: quello politico interno e quello europeo. Il primo ha una trama tutta interna alla maggioranza. Sia perché nel centro-destra, o destra-centro che dir si voglia, si annidano una grande quantità di contraddizioni e conflitti, sia perché le opposizioni sono di una tale debolezza che non rappresentano un vero pericolo per chi sta a palazzo Chigi. Si sa che Meloni al governo ha sempre suscitato l’orticaria sia a Salvini che a Berlusconi, che l’hanno subita con malcelata irritazione. Ora con Forza Italia, dopo la scomparsa del fondatore, i problemi sono destinati ad appianarsi, mentre a maggior ragione diventeranno sempre più acuti con la Lega salviniana, scientifica nel provocare e logorare. Un braccio di ferro che Meloni patisce sul piano psicologico e che è destinato a diventare patologico in vista delle elezioni europee di giugno 2024, visto che non prevedono la necessità di alcuna alleanza elettorale per effetto del sistema proporzionale che spinge ciascuno a giocare la propria partita in solitario. Un conflitto che aumenterà per via della diversa e confliggente collocazione di Lega e Fratelli d’Italia nel Parlamento Europeo. Peccato, però, che questa tensione continua – che è arrivata fino a pericolosi distinguo, pur nell’ambiguità, sulla vicenda russo-ucraina – da un lato impedisca di gettare il cuore oltre l’ostacolo verso strategie e piani programmatici di medio termine, e dall’altro alimenti l’orientamento verso la politica della quotidianità.
Il fatto stesso che il chiodo fisso di tutti sia l’appuntamento elettorale europeo, collega il fronte interno a quello delle relazioni con la Comunità e dei temi continentali. Anche qui ci sarebbe bisogno di volare alto, non fosse altro perché l’attacco militare di Putin di 16 mesi fa aveva come obiettivo non solo e non tanto l’Ucraina, ma la messa in discussione dell’ordine mondiale, mettendo nel mirino l’Occidente e in particolare l’Europa. Per carità, la risposta europea c’è stata; anzi, è stata ben più forte e solidale di quanto non ci si potesse aspettare. Ma è chiaro che ci deve essere una fase due, basata su una maggiore se non totale integrazione. Le articolazioni istituzionali su cui fin qui si è basata la Ue hanno fatto il loro tempo, e le risposte che gli europei sono chiamati a dare sul piano politico, economico, militare, dell’autonomia energetica e della transizione ambientale richiedono nuove frontiere dello stare insieme. L’Italia, poi, per l’altissimo debito, per le sue fragilità strutturali e per la fortissima integrazione continentale nelle filiere industriali, dovrebbe essere la prima a spingere per gli Stati Uniti d’Europa. Invece, la nostra posizione è quella del parente povero ma presuntuoso e litigioso, che preferisce anteporre sempre le proprie rivendicazioni sovraniste al ruolo di guida dei processi di trasformazione. Ruolo che non puoi certo conquistare esibendo la pretesa che ti spetti di diritto.
Ecco, dunque, la mancata firma del Mes, che non ha alcuna giustificazione né formale né sostanziale visto che nessuno ne obbliga l’uso; la diatriba sui ritardi del Pnrr (“a Bruxelles vogliono farci l’analisi del sangue, altro che verificare i target del Recovery”); la pretesa di un nuovo Patto di stabilità scritto per compiacere i nostri difetti; la polemica sopra le righe sulla politica monetaria della Bce (sostenere che fa più danno il rialzo dei tassi che l’inflazione è tesi ardimentosa che quantomeno richiede di evitare le battute); interlocuzione che richiede altre modalità anche quando si ha qualche ragione. Ed ecco l’idea dello scambio (ti firmo il Mes se mi dai…) che può anche starci, lo fanno tutti, purché si evitino gli aut-aut (una modalità “perigliosa” l’ha definita Mario Monti, spiegando come le trattative a Bruxelles richiedano ben altro approccio) e si abbia l’abilità necessaria. Il tutto inquadrato nel solito riflesso condizionato della paranoia nazionalistica della serie “l’Europa dei burocrati ce l’ha con l’Italia, e ancor più con l’Italia che ha la guida a destra”, accentuata dal fatto che Meloni soffre la minaccia di un Salvini tornato a cavalcare l’antieuropeismo e che dunque si sente indotta ad alzare i toni fino al punto di commettere un errore politico grave come quello di attaccare il commissario Gentiloni, fin qui il migliore alleato che la presidente del Consiglio abbia avuto. Ora capisco il desiderio e la necessità di avere a disposizione un nemico, che è propria di chi ha sempre vissuto la politica in una logica “catacombale”, ma scegliersi la Commissione europea non è una scelta saggia. È vero che la presidente del Consiglio ha usato il doppio registro – polemica a Roma e accondiscendente a Bruxelles – ma ciò non basta ad evitare reazioni conseguenti (che poi verranno bollate come ritorsioni alimentando nuovi contrasti, in una spirale tanto perversa quanto rischiosa). Né le sarà sufficiente farsi scudo di una sorta di protezione americana conquistata – si vedano a tal proposito le riflessioni di Stefano Folli su Repubblica – in virtù della sua saldezza atlantista nel contesto della guerra, tanto più apprezzata visto il filo-putinismo di Salvini e Berlusconi.
Insomma, farsi nemica la Commissione sulla base della presunzione che sia stata questa a farsi nemica di questo governo, laddove a Mario Draghi era condonato tutto, non appare una scelta lungimirante per chi avesse a cuore la trasformazione dell’Italia in un paese moderno. Poi, certo, è vero che al precedente inquilino di palazzo Chigi venivano stesi tappeti rossi al suo passaggio nelle sedi internazionali, ma su questo basta farsi una domanda e darsi una risposta che non sia la solita solfa complottista. E comunque è proprio grazie a quell’apertura di credito conquistata da Draghi che l’Italia gode ancora di un atteggiamento che può considerare ostile solo chi coltiva pregiudizi anti-europei o chi è abituato a vedere nemici ad ogni angolo di strada. E questo nonostante che i ritardi sul Pnrr siano tutti nostri (stabilire quante responsabilità siano dell’attuale governo e quante del precedente è secondario) e non certo dell’Europa matrigna. E nonostante che bloccare a tutti gli altri paesi dell’eurozona il processo di attuazione del Mes (paradossalmente comprese le modifiche che noi vogliamo apportare), concede ai nostri partner un più che valido motivo di irritazione.
Al traguardo delle elezioni europee, cui tutti i partiti fanno dipendere le proprie sorti, manca ancora un anno. Un tempo troppo lungo per far dipendere scelte strategiche improrogabili dal suo esito o per ricondurle alle convenienze (peraltro presunte) e alle furbizie di una campagna elettorale già in corso e che inevitabilmente accentuerà i toni con il passare dei mesi. Il Paese ha bisogno della forza tranquilla di una leadership conscia delle sfide e sicura di volerle e poterle affrontare nel medio periodo, sulla base di un’agenda politico-programmatica non sacrificata dal day-by-day. Sono convinto, per la conoscenza diretta delle cose che ho, che Giorgia Meloni abbia chiaro questo concetto e coltivi le ambizioni conseguenti. E che soffra nel sapere di non avere a disposizione una classe dirigente all’altezza. Ma tutto questo non basta, occorre trovare – con coraggio e fantasia politica – la soluzione a questa impasse. Lasci cadere polemiche e provocazioni, dismetta gli abiti della biliosa permanentemente sull’orlo di una crisi di nervi e (ri)scriva l’agenda del governo trascurando le scelte identitarie di cui il Paese non sente il bisogno e scegliendo alcuni importanti target di modernizzazione su cui aggregare un consenso più qualificato e più vasto.
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