di Ugo Tramballi
“Il governo ti invita ad assistere al ridispiegamento del nostro contingente in Afghanistan”, mi disse al telefono il butterato Pichomkin al desk italiano del ministero degli Esteri, sulla Smolenskaja. Il “ridispiegamento” era un vero ritiro e il “contingente” erano i 115mila uomini dell’OKSVA, l’acronimo russo di Contingente Limitato delle Forze Sovietiche in Afghanistan: cioè la 40^ Armata, la storica 40-y Obshchevoyskovaya Armiya caricatasi di gloria contro i nazisti sul Dniepr e a Kursk. Nel 1979 era stata ricostituita per soccorrere il regime comunista di Kabul, incapace di resistere alla rivolta islamista del mujaheddin. In quell’estate del 1988 la 40^ iniziava la sua ritirata.
Accettai l’invito con evidente entusiasmo. Dandomi un anno prima visto e accredito da giornalista, i sovietici sapevano che ero entrato in Afghanistan con i mujaheddin tre volte dalla North West Frontier Province del Pakistan. Ora con la telefonata di Pichomkin sarei stato il primo giornalista ad aver visto il conflitto su due fronti. Presi la cosa come una conferma della glasnost.
Sulla verticale di Kabul il Tupolev-144 dell’Aeroflot incominciò a scendere a vite. Due elicotteri da combattimento MI-24 accompagnavano la rapida discesa, lanciando dei razzi che avrebbero richiamato le testate a ricerca di calore degli eventuali missili dei mujaheddin. Kabul era da tempo assediata, le montagne attorno alla città non erano più sotto il controllo governativo.
Finalmente a terra, mentre attraversavamo la pista per raggiungere il terminal, i due MI 24 passarono a volo radente. Istintivamente mi abbassai per proteggermi: l’ultima volta che avevo visto da vicino quei musi spaventosi a forma di mosca ero con i mujaheddin della milizia tajika di Shah Massoud, il Leone del Panjshir. “Tranquillo, questa volta sei dalla parte giusta”, disse il collega dell’Izvestia col quale avevo viaggiato. “O forse no”, aggiunse. “Sei da quella sbagliata”.
Trascorremmo alcuni giorni nella capitale: conferenza stampa di Mohammad Najibullah, l’ultimo leader comunista afghano; visita alla base degli Spetznaz, i reparti speciali, con pranzo alla loro mensa; chiacchierate informali con gli esperti russi su campo, cioè il Kgb. Erano molto interessati alle mie esperienze al fronte con i mujaheddin. Poi, una notte, fummo caricati su un Antonov dell’esercito. Senza luci di posizione e la cabina completamente buia, l’aereo decollò per Shindand, a Ovest, non lontano dal confine iraniano. Era la base sovietica più grande dell’Afghanistan: vent’anni più tardi lo sarebbe stata anche della Nato e avrebbe visto un’altra grande ritirata.
“Il governo ti invita ad assistere al ridispiegamento del nostro contingente in Afghanistan”, mi disse al telefono il butterato Pichomkin al desk italiano del ministero degli Esteri, sulla Smolenskaja. Il “ridispiegamento” era un vero ritiro e il “contingente” erano i 115mila uomini dell’OKSVA, l’acronimo russo di Contingente Limitato delle Forze Sovietiche in Afghanistan: cioè la 40^ Armata, la storica 40-y Obshchevoyskovaya Armiya caricatasi di gloria contro i nazisti sul Dniepr e a Kursk. Nel 1979 era stata ricostituita per soccorrere il regime comunista di Kabul, incapace di resistere alla rivolta islamista del mujaheddin. In quell’estate del 1988 la 40^ iniziava la sua ritirata.
Accettai l’invito con evidente entusiasmo. Dandomi un anno prima visto e accredito da giornalista, i sovietici sapevano che ero entrato in Afghanistan con i mujaheddin tre volte dalla North West Frontier Province del Pakistan. Ora con la telefonata di Pichomkin sarei stato il primo giornalista ad aver visto il conflitto su due fronti. Presi la cosa come una conferma della glasnost.
Sulla verticale di Kabul il Tupolev-144 dell’Aeroflot incominciò a scendere a vite. Due elicotteri da combattimento MI-24 accompagnavano la rapida discesa, lanciando dei razzi che avrebbero richiamato le testate a ricerca di calore degli eventuali missili dei mujaheddin. Kabul era da tempo assediata, le montagne attorno alla città non erano più sotto il controllo governativo.
Finalmente a terra, mentre attraversavamo la pista per raggiungere il terminal, i due MI 24 passarono a volo radente. Istintivamente mi abbassai per proteggermi: l’ultima volta che avevo visto da vicino quei musi spaventosi a forma di mosca ero con i mujaheddin della milizia tajika di Shah Massoud, il Leone del Panjshir. “Tranquillo, questa volta sei dalla parte giusta”, disse il collega dell’Izvestia col quale avevo viaggiato. “O forse no”, aggiunse. “Sei da quella sbagliata”.
Trascorremmo alcuni giorni nella capitale: conferenza stampa di Mohammad Najibullah, l’ultimo leader comunista afghano; visita alla base degli Spetznaz, i reparti speciali, con pranzo alla loro mensa; chiacchierate informali con gli esperti russi su campo, cioè il Kgb. Erano molto interessati alle mie esperienze al fronte con i mujaheddin. Poi, una notte, fummo caricati su un Antonov dell’esercito. Senza luci di posizione e la cabina completamente buia, l’aereo decollò per Shindand, a Ovest, non lontano dal confine iraniano. Era la base sovietica più grande dell’Afghanistan: vent’anni più tardi lo sarebbe stata anche della Nato e avrebbe visto un’altra grande ritirata.
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