Anno X - Numero 39
Il tempo degli eventi è diverso dal nostro.
Eugenio Montale

giovedì 24 aprile 2025

Si fa presto a dire dazi

La linea commerciale di Trump arricchisce solo i capitalisti che lo hanno sostenuto. Ma i Democratici, pur criticando nettamente la presidenza, devono rompere con l'ortodossia del libero scambio che ha devastato gli Usa

di David Sirota*

Dazi o non dazi? Il dibattito politico odierno, lungo quanto un tweet, finge che si tratti di una scelta binaria. Il presidente Donald Trump ha presentato dazi generalizzati sulle importazioni come una panacea per ricostruire l’industria manifatturiera americana, mentre i Democratici insistono sul fatto che le proposte di Trump siano un tentativo di far crollare l’economia e che il loro partito dovrebbe manifestare la propria opposizione a tutti i dazi.
Ma né le scelte politiche né la strategia sono così chiare e semplici. Anche se dazi troppo bassi o troppi alti possono distruggere le economie, esiste una misura intermedia che funziona. Viene semplicemente omessa dal dibattito.

Dal punto di vista politico, l’iniziativa di Trump di imporre dazi su tutte le importazioni si colloca dal lato del «troppo», ignorando alcuni dati economici fondamentali. Non prevedendo praticamente nessun periodo di sperimentazione, non concede all’industria un tempo adeguato per riportare effettivamente in patria fabbriche e altre attività ad alta intensità di capitale per produrre beni negli Stati uniti. Applicando i dazi in modo generalizzato anziché mirato, la proposta di Trump prevede poche agevolazioni per materie prime come caffè e vaniglia, nonché vari minerali di terre rare che l’America non può produrre su larga scala al proprio interno.

Nel complesso, l’approccio di Trump costituisce soprattutto un tentativo di accaparramento di potere più che una politica commerciale, che impone agli Usa decisioni imprevedibili senza il consenso del Congresso. Questa strategia gli consente di recuperare la sua pratica di mantenere imposte che colpiscono gli oppositori politici, concedendo al contempo esenzioni redditizie per premiare i suoi grandi donatori e le industrie più potenti. Il risultato probabile: prezzi inutilmente più alti, ritorsioni che paralizzano l’industria, un contesto politico incerto che frena gli investimenti, una corruzione sempre più dilagante e pochi benefici duraturi per la macroeconomia nazionale.

Detto questo, l’idea dei liberali secondo cui il comportamento di Trump dimostra che tutte le tariffe sono negative e che l’attuale politica commerciale senza tariffe è ideale, viene smentita dalla viva realtà.

Il North American Free Trade Agreement (Nafta) e la riduzione dei dazi sulla Cina negli anni Novanta e Duemila hanno eliminato un disincentivo finanziario per le aziende a tagliare i costi e aumentare i profitti trasferendo la produzione in paesi che consentono lo sfruttamento dei lavoratori e il degrado ambientale. Non sorprende che, dall’approvazione degli accordi commerciali, gli Stati uniti abbiano perso oltre settantamila stabilimenti produttivi e milioni di posti di lavoro nelle fabbriche: un’apocalisse economica che ha coinciso con un’impennata senza precedenti di suicidi, overdose di droga e altre «morti per disperazione».

Per gran parte della classe lavoratrice, la perdita di salari e posti di lavoro non è stata compensata dai benefici finanziari derivanti da beni d’importazione più economici. Mentre i ricchi uomini di Davos degli anni Novanta e Duemila propagandavano la «distruzione creativa» del commercio internazionale senza dazi, a legioni di lavoratori americani disoccupati non è stato garantito il solido sistema di supporto (assistenza sanitaria, riqualificazione, pensioni, eccetera) offerto da altri paesi esposti al commercio. Qui negli Stati uniti, le risorse sono state invece spese in guerre, salvataggi bancari e tagli fiscali per i ricchi.

Nel frattempo, come hanno dimostrato di recente le carenze dovute alla pandemia, la frenesia anti-dazi degli Stati uniti ha ridotto la nostra capacità di produrre beni di prima necessità per i quali probabilmente non dovremmo dipendere esclusivamente da altri paesi.

Nel deridere tali preoccupazioni, il senatore Democratico delle Hawaii Brian Schatz ha recentemente affermato: «Non dovrebbe essere un obiettivo dei nostri responsabili delle politiche economiche nazionali se ci fabbrichiamo i calzini». Il suo tweet, poi cancellato, era una disinvolta bordata anti-Trump contro i dazi, solo pochi anni dopo che lo stesso Schatz aveva elogiato l’uso dei dazi da parte del suo partito per riportare posti di lavoro americani in patria. Allo stesso modo, alcuni esperti progressisti hanno deriso l’idea che l’America dovrebbe persino provare a ricostruire parte della sua capacità manifatturiera.

Questi commenti superficiali distolgono dai problemi di sicurezza, sovranità e autosufficienza basati sul fatto che gli Stati uniti ora dipendono in tutto da altre nazioni, dalle forniture mediche e medicinali alle attrezzature militari ed energetiche, fino ai chip per computer che alimentano l’economia.

Sotto il dogma del libero scambio dei liberali si cela l’insinuazione snob secondo cui nessuno in America vuole davvero lavorare in fabbrica – un’idea alimentata dai video sull’Intelligenza artificiale cinese. Ma i sondaggi che vengono citati da media, dai libertariani e dagli influencer Democratici in Tv, come prova presunta di questa ipotesi, dimostrano in realtà il contrario: non solo la stragrande maggioranza degli americani ritiene che sia importante per il paese ricostruire la propria capacità manifatturiera, ma ben un quarto dei lavoratori del paese ritiene che starebbe meglio se potesse cambiare lavoro per dedicarsi al settore manifatturiero.

C’è una via di mezzo
I Repubblicani che cercano di rintuzzare i liberali e i Democratici che mirano a demonizzare Trump possono anche scontrarsi in Tv e sui social network, ma sono anche uniti da una causa: in quest’epoca di netta polarizzazione, sono tutti spinti a credere che non ci sia nessuna via di mezzo tra i dazi generalizzati alla Maga, che minacciano un’immediata recessione nazionale, e il fondamentalismo liberista del libero scambio che ha causato condizioni simili alla depressione nel cuore degli Stati uniti.

In questo trambusto politico, resta quindi in disparte la zona fiabesca alla «Riccioli d’oro» in materia di commercio: tariffe mirate, insieme ad altre politiche di investimento, possono creare una politica industriale più completa, che può sicuramente creare le condizioni per iniziare a ricostruire l’industria americana e incrementare l’occupazione nel settore manifatturiero. Questa non è una teoria. È esattamente quello che è iniziato ad accadere poco prima del secondo mandato di Trump.

Dopo esser stato fedele alla dottrina del libero scambio, Joe Biden, da presidente, ha invece promosso un mix accuratamente calibrato di incentivi fiscali, programmi di spesa e – sì – dazi. Lui e la sua amministrazione hanno fatto un pessimo lavoro nel pubblicizzare il successo di questa politica, ma stava funzionando. Durante il mandato di Biden, gli Stati uniti hanno creato oltre 700.000 posti di lavoro nel settore manifatturiero, superando di gran lunga il primo mandato di Trump. Molti dei posti di lavoro e degli investimenti industriali si sono verificati in Stati a maggioranza repubblicana, già colpiti duramente dalle passate politiche di libero scambio.

«I Democratici dovrebbero accogliere i dazi come una componente di una strategia industriale più ampia per rivitalizzare il settore manifatturiero americano e dare nuova linfa vitale a intere comunità che sono state svuotate da decenni di cattive politiche commerciali», ha scritto di recente in un editoriale il deputato della Pennsylvania Chris Deluzio.

Deluzio, che rappresenta il tipico distretto in bilico spesso perduto dai Democratici, ha aggiunto su Twitter/X: «L’approccio tariffario del Presidente Trump è stato caotico e incoerente… Ma la risposta non è condannare tutti i dazi. Questo rischia di allontanare ulteriormente i Democratici dai lavoratori che un tempo erano la linfa vitale del partito. Se ti opponi a tutti i dazi, stai di fatto sostenendo che non hai problemi con il fatto che i lavoratori stranieri sfruttati producano i tuoi prodotti a spese dei lavoratori americani. Io non lo sono, e nemmeno la maggior parte degli elettori».

La politica commerciale è più complicata di quanto sembri
Nonostante stesse riprendendo le dottrine economiche fondamentali della più recente Casa Bianca democratica, Deluzio è stato prontamente attaccato dai liberali e dai cosiddetti Repubblicani «Mai con Trump», alcuni dei quali hanno chiesto che fosse sottoposto alle primarie e cacciato dal Congresso.

Tra chi critica Deluzio, la governatrice Democratica del Michigan Gretchen Whitmer e altri Democratici in una posizione intermedia sui dazi, si tratta di un banco di prova politico per una sfida da «con noi o contro di noi». Ma i Democratici populisti, piuttosto che i loro critici assolutisti del libero scambio, non solo hanno ragione nel merito, ma sono anche più in sintonia con le sfumature politiche della questione.

Quando la politica commerciale divenne una questione nazionale di alto profilo negli anni Novanta, il presidente Democratico Bill Clinton ruppe con i sindacati e promosse il Nafta, che garantì ai Democratici un’ingente somma di denaro per la campagna elettorale da parte delle aziende. Ma la mossa alienò a tal punto gli elettori della classe lavoratrice che alcuni dei distretti congressuali più regolarmente Democratici divennero rapidamente i più nettamente Repubblicani, secondo un recente studio condotto da ricercatori di Princeton, Stanford e Yale.

Trent’anni dopo, mentre il commercio torna a essere al centro dell’attenzione, i sondaggi suggeriscono una dinamica simile. I dati mostrano che la maggioranza degli americani è insoddisfatta di come Trump sta utilizzando i dazi e di come sta gestendo l’economia – e i Democratici fanno bene a concentrarsi su questa linea di critica. Ma i dati mostrano anche che per la prima volta da generazioni i Repubblicani hanno eguagliato i Democratici quando agli elettori viene chiesto quale partito «si preoccupa di più dei bisogni e dei problemi delle persone come te».

La morale della favola: gli elettori percepiscono la mossa tariffaria di Trump come un’iniziativa politica, ma anche come una dichiarazione di valori. Si oppongono giustamente alla specifica forma di dazi di Trump, ma sembrano anche vedere il dibattito come una cartina al tornasole, un banco di prova per capire da che parte stare. Per quanto disonesta e fraudolenta sia la particolare strategia tariffaria di Trump, la sua difesa di un paradigma commerciale completamente diverso è pensata per segnalare alla working class americana che, a differenza dei presidenti del passato, ascolta le loro lamentele a lungo ignorate da quando il Nafta ha iniziato a devastare le loro comunità.

In altri termini: la guerra commerciale di Trump è parte di una più ampia guerra culturale. In una recente intervista a Lever Time, il presidente della United Automobile Workers (Uaw) Shawn Fain ha riassunto il controverso momento politico. Il suo sindacato ha appoggiato l’ex vicepresidente Kamala Harris alle elezioni del 2024, e Fain ha criticato sia i dazi generalizzati di Trump che le sue politiche sindacali. Ma Fain ha anche appoggiato i dazi di Trump mirati all’industria automobilistica e ha attribuito al presidente il merito di aver posto la politica commerciale al centro delle sue priorità, suggerendo che questo sia stato uno dei motivi per cui quasi la metà dei membri del suo sindacato ha votato per Trump alle ultime elezioni [Su JacobinMag si può leggere la trascrizione integrale del recente discorso con cui Fain ha appoggiato i dazi trumpiani, ndt].

«Nei miei primi ventotto anni da membro della Uaw, lavorando alla Chrysler, ho visto solo stabilimenti chiudere anno dopo anno, e provo rabbia», ha detto Fain, che indossava una maglietta con la scritta «Ross Perot Was Right» durante l’intervista. «E quindi, vedere una persona come Donald Trump arrivare e iniziare a parlare di dazi e commercio, mentre si continua a minacciare la chiusura dei propri stabilimenti, colpisce la gente». Una generazione fa, i Democratici sembravano rendersi conto della realtà descritta da Fain e comprendere l’errore dei loro metodi liberisti.

«Non possiamo continuare a giocare la stessa partita di Washington con gli stessi giocatori di Washington e aspettarci un risultato diverso, perché è una partita che gli americani comuni stanno perdendo», ha affermato Barack Obama nella sua campagna presidenziale del 2008. «È una partita in cui accordi commerciali come il Nafta trasferiscono posti di lavoro all’estero e costringono i genitori a competere con i figli adolescenti a lavorare per un salario minimo da Walmart. Questo è ciò che accade quando il lavoratore americano non ha voce al tavolo delle trattative, quando i leader cambiano le loro posizioni sul commercio in base alla politica del momento, ed è per questo che abbiamo bisogno di un presidente che ascolti Main Street, non solo Wall Street; un presidente che stia dalla parte dei lavoratori non solo quando è facile, ma anche quando è difficile».

Il populismo di Obama ha assicurato ai Democratici un’enorme vittoria elettorale quell’anno, anche nei principali Stati industriali indecisi. Ma da presidente, Obama ha rapidamente tradito le promesse di creare politiche commerciali più eque, sostenendo invece accordi commerciali più simili al Nafta, fornendo così a Trump un’arma politica per massacrare i Democratici e ottenere il suo primo mandato presidenziale.

Quasi un decennio dopo, Trump spera senza dubbio che i suoi dazi ricreeranno la magia del 2016, spingendo i suoi oppositori a difendere lo status quo commerciale mentre lui si definisce un populista. I Democratici non devono abboccare all’amo: possono e dovrebbero criticare duramente il suo programma economico e il suo particolare uso dei dazi, ma devono anche rompere una volta per tutte con l’ortodossia del libero scambio che ha devastato elettoralmente il loro partito e distrutto economicamente gran parte degli Stati uniti.

David Sirota per Jacobin Italia

*David Sirota è direttore di Lever e in precedenza è stato consulente senior e speechwriter per la campagna presidenziale di Bernie Sanders del 2020. È caporedattore di Jacobin. 

Nessun commento:

Posta un commento