di Raffaella R. Ferré
Facciamo un esercizio di astrazione. Mettiamo una sera al cinema per un film nuovissimo, una specie di thriller di cui parlano tutti. Racconta di 105 donne ammazzate in 324 giorni di un anno che s'appresta a finire. La nazione in cui avvengono i delitti ne è sconvolta. Ne parlano cittadini, media, intellettuali, politici. Le indagini sono difficili. Le donne, l'una diversa dall'altra per aspetto, età, grado d'istruzione, professione, condizioni economiche, familiari, relazionali. Anche il modus operandi dell'assassino cambia di volta in volta, così come i luoghi geografici e gli ambienti in cui si muove e agisce. 105 sono le donne che ha ucciso, moltissime altre quelle che ha ferito. Ci sono quelle che, sopravvissute alla violenza, denunciano. Ci sono quelle che non possono più farlo. Ci sono quelle che, atterrite dallo stato di cose - la storia, si scoprirà, ha una sottotrama - hanno rinunciato a denunciare o la faccenda si è rivelata più complicata del previsto. Poi emerge un dettaglio. L'indizio trascurato anche se sotto gli occhi di tutti. Un particolare accomuna tutte le donne ammazzate, violentate o abusate: sono, per l'appunto, donne. Penseremo, allora, a un serial killer? Probabile. Ma ecco il colpo di scena: per ognuna di queste donne, c'è un uomo che ha fatto loro del male. 105 donne uccise, 105 uomini a uccidere. Anche loro non si somigliano. O forse sì? Forse a commettere femminicidio, non è un individuo “normale”, un “insospettabile”, un “bravo ragazzo”, un “lavoratore”, un “fidanzatino”, un “marito”, un “ex” colto da “raptus” poiché “non accettava la fine della relazione” o “era geloso” o “era invidioso” o “era stato provocato”, ma un femminicida. La pellicola termina con il suo identikit. Messo su carta perché possa essere riconosciuto e rintracciato prima che colpisca di nuovo, il profilo non riguarda però l'aspetto, ma il modo di pensare, parlare, interagire, relazionarsi, guardare alle donne. Plot twist: questi atteggiamenti non hanno carattere di eccezionalità, non sono fatti straordinari, ma ricorrenti e mutuati dalla stessa società che se ne diceva sconvolta all'inizio del film.
Perché è un film, vero? Solo un film. E usciti dal buio della sala cinematografica, troveremo un mondo che su questi comportamenti subdoli, ambigui, invasivi e persistenti, ha fatto luce. Un paese in cui le donne possono stare tranquille, anzi, non se lo pongono nemmeno il problema della tranquillità. Un paese in cui Giulia Cecchettin non è morta ammazzata, non è stata vessata, colpita, trascinata, accoltellata, caricata in un'automobile e lasciata in dirupo nei pressi di un bacino d’acqua nel cuore della Valcellina, provincia di Pordenone. Un paese che la annovera tra i vivi. Viva, una ventiduenne la cui faccia non conosciamo, con progetti e sogni di cui non sappiamo niente. Viva, una ventiduenne appena laureata in ingegneria biomedica. Guarda ancora una volta le foto che le sono state scattate mentre discuteva la tesi all'università di Padova, chiude l'anno pensando a quello da venire. Il futuro che a chiamarlo è già qui. Il suo futuro che non ha il nome di un uomo. Nessun Filippo Turetta può deciderlo per lei e non lo farà.
La notizia di femminicidio, il femminicidio come notizia
Le storie degli altri sono mappe. Vite che non sono la nostra ci dicono comunque di punti di svolta, direzioni, indicazioni per l'esistenza. Le storie delle donne ammazzate da uomini con cui avevano, avevano avuto o si rifiutavano d'avere un rapporto, sono così tante che potremmo ricavarne un atlante. Ma chi ne disegna per noi la cartina, spesso sbaglia le proporzioni e i termini. Cosa ci potrà mai dire una mappa piena di errori grossolani, in cui il mare diventa rigagnolo e il monte una pianura? A seguirla, potremo mai finire altrove che su una strada sbagliata? Chi è già sul posto o ha migliori strumenti di rilevazione, fa bene o no ad arrabbiarsi? Dove ci ha condotto – e cerca ancora di condurci – il racconto mediatico della violenza perpetrata ai danni di Giulia Cecchettin fino a causarne la morte e di cui è accusato Filippo Turetta, precedentemente suo fidanzato? Se volessimo utilizzare questa storia come caso di studio dell'informazione italiana, ne emergerebbe uno scenario preoccupante.
L'analisi ci dice che ci è stato fornito un racconto quantomeno impreciso e fallace e in alcuni momenti una narrazione tossica. La copertura mediatica è cominciata con la notizia di scomparsa. Le scomparse sono accadimenti particolari. È il tempo che, più passa senza notizie d’un soggetto, più dà rilevanza al fatto. È lo spazio che, più s'estende alla ricerca di chi manca, più ne amplia la diffusione dell’allarme. Infine, c'è un elemento – anzi due – che funzionano in maniera inversamente proporzionale e/o atipica: l'età della persona sparita, il suo sesso. Giulia Cecchettin, quand'era una giovanissima donna scomparsa: ci ricordiamo ancora di lei e del fatto che c'è stato chi, su reti televisive nazionali e sulla stampa, ci ha presentato la sua assenza come qualcosa che poteva aver scelto? Siccome oltre a lei mancavano anche Filippo Turetta e la sua automobile, c'è stato chi ha parlato di “coppia”, “coppietta”, “fuga d'amore”. I “due fidanzatini”: ecco come ce li hanno presentati. Anche se lei aveva messo fine alla relazione mesi fa, in molti l'hanno riportata al suo interno. Sua sorella Elena ci forniva già un quadro allarmante dei rapporti tra i due, con una controparte maschile sempre più invasiva e controllante, e in troppi, lungi dal parlare dell'eventualità di un rapimento, ci dicevano di lui come parte emotivamente lesa. “Un bravo ragazzo”, un “ragazzo d'oro”, un “giovane timido”, “il fidanzatino” che c'era rimasto male.
Il cadavere di una giovane donna nei pressi del lago di Barcis, a Pordenone, non era stato ancora identificato come quello di Giulia e già si cercavano scusanti. Quando è arrivata la conferma, prima ancora che Filippo Turetta fosse fermato e arrestato vicino a Lipsia, in Germania, c'era chi diceva: “Forse lui non voleva ucciderla intenzionalmente”, “era tormentato dalla fine della storia”, “non credo in un'azione premeditata”, “non le avrebbe mai fatto del male”, “lui le faceva i biscotti”. Questo non è un discorso unico, ma frasi da più discorsi. Se in qualche caso potevano avere una ragione paradossale – ad esempio, il vincolo parentale – i media vi hanno dato eco e diffusione. Si è discusso di “gelosia” e “invidia”, dimenticando che queste emozioni non sono innate e senza scampo, ma nascono e si sviluppano con il confronto sociale, e non tutte le persone ammazzano il soggetto verso cui le hanno provate. Non si tratta del “non si può più dire niente”. Si tratta dei contesti in cui questo niente diventa qualcosa, ovvero morale pubblica. Se l'informazione è la messa in forma di nozioni utili o addirittura indispensabili per l'individuo e la società, qual è il messaggio che abbiamo ricevuto? A cosa sono servite le illustrazioni dell’aggressione, i dettagli macabri? La notizia di femminicidio è una cosa, di solito accompagnata da dati a dirci che non si tratta di un fenomeno isolato, ma dell'ultimo atto di una catena di eventi di sopraffazione, alimentata da stereotipi e aspettative di genere radicati nel substrato sociale e culturale italiano come in buona parte del mondo; il femminicidio come notizia è un’altra.
Giulia e le sue sorelle
Il femminicidio che fa notizia lo si presenta sempre come un accadimento senza precedenti nella storia italiana. Basterebbe dare un occhio alla programmazione delle fiction su Rai 1 – da Per Elisa, il caso Claps a Circeo – per capire che la cronaca di violenze, sequestri, ammazzamenti e occultamenti del cadavere di una donna è così lunga, antica e articolata da poterne fare una narrazione a puntate. Ogni tanto, spesso in forza di un anniversario, le ripeschiamo, ritornano sullo schermo. Quello stesso schermo che, intanto, ci dice di una nuova donna uccisa. Se non risponde a caratteristiche allettanti per l'esposizione mediatica, non ne conosciamo neppure la faccia. Sapreste dire, ad esempio e senza una ricerca su Google, che aspetto aveva Concetta Marruocco, 53enne infermiera di Torre del Greco uccisa il 14 ottobre 2023 da Franco Panariello dal quale si stava separando? Di Giulia Cecchettin, come di Giulia Tramontano prima di lei, invece lo sappiamo. Questa giovane donna, il sorriso, gli occhi vispi e la frangetta: eppure la sua faccia ci è stata riproposta di continuo accanto a quella del principale sospettato: un'immagine che li ritraeva insieme.
Se questa non è una violenza, assomiglia almeno all'oltraggio? E quali oltraggi, quali prepotenze e aggressioni verbali sta subendo sua sorella, Elena Cecchettin, proprio in questo momento? Su Rai 1, abbiamo sentito dire di lei: “Ora si trova unica donna di casa a dover accudire il padre e il fratello”. Su Rete 4, quando Elena ha parlato, quando lucida ha detto ciò che buona parte degli opinionisti del salotto televisivo non riusciva o non sapeva o non voleva dire, e cioè che in Italia abbiamo un grosso problema sociale, culturale ed educativo, c'è chi le ha risposto con la Svezia e la Finlandia. Le è stato e ci è stato ribadito ancora una volta che Filippo Turetta è un ragazzo di ventidue anni: “Ha usato probabilmente la disponibilità di Giulia (…). Ha usato l'ingenuità di Giulia (...). Comprendo il suo dolore ma (…) L'idea che si debba fare un processo alla società patriarcale (…) Che sia usata questa vicenda in maniera strumentale e anche un po' ipocrita…”. Sottotesto: piangi tua sorella, condanna il suo assassino, ma non provare a farlo diventare un nostro problema. Oggi la sua richiesta di giustizia non per sé e per sua sorella ma per tutte, è bollata come messaggio ideologico. La si è prima esposta andando a bussare alla porta di casa sua e poi la si è lasciata in pasto ai commentatori dei social network. Il piercing, il trucco, la maglietta: ecco di cosa stanno parlando e scrivendo centinaia di uomini. Intanto, il dibattito mediatico si è spostato su questi giovani d'oggi che non sanno gestire le relazioni a causa della pandemia, la digitalizzazione dei rapporti e i genitori che non sanno dire no.
C'è ancora domani?
Nello stesso giorno in cui è stato rinvenuto il cadavere di Giulia Cecchettin, sono andata al cinema a vedere C'è ancora domani di e con Paola Cortellesi. Senza fare spoiler né anticipare la trama, dirò solo che la protagonista, Delia, è una moglie, una madre, una casalinga, una sarta, una factotum, una lavoratrice, una badante, una cuoca nella Roma del dopoguerra. Umiliata, maltrattata, insultata e picchiata continuamente. Il suo domani è da intendersi sia in senso utopistico che temporale. Non è solo un futuro in cui si spera che le cose possano cambiare, ma è un giorno che si sta già facendo insieme alla possibilità di agire. Al termine della proiezione, la regista presente in sala ha risposto a qualche domanda dal pubblico. E tra le tante voci, quella di una signora. Bello il film, ha detto, però volevo più amore, una cosa più romantica.
Lucía Etxebarria, scrittrice spagnola, analizzando elementi della cultura popolare, film, canzoni, ha scritto di come il sentimento amoroso e le relazioni sentimentali continuino ad essere presentate dall'insieme dei media come progetti prioritari, sostanziali e fondamentali. Capaci di minare l'effetto di iniziative e leggi contro la violenza, le molestie e i maltrattamenti, “canzonette si incollano come gomme da masticare all'inconscio e ci vengono a dire che l'amore, quello vero, comporta sacrifici, sottomissione e rinuncia alla nostra identità”. Ma parlare oggi della pervasività dell'idea romantica d'amore rischierebbe di puntare lo specchio in direzione opposta al fascio di luce e far precipitare la discussione nel buio.
Giulia Cecchettin aveva capito e troncato una relazione sentimentale che, evidentemente, non rispondeva alle sue esigenze e bisogni. Forse ha incontrato Turetta perché manipolata in modo estenuante. Forse era una ragazza empatica e teneva umanamente al ragazzo con cui aveva fatto un pezzetto di strada. Forse aveva sentito parlare della necessità di closure nelle relazioni. Forse non voleva passare da stronza che fa ghosting. Nessuno dei motivi suddetti, tra mille altri possibili, è certo, né vale come ragione o base o fondamento del suo assassinio.
Not all men: rompere il silenzio e il post di Facebook come unità minima d'impegno
Al 25 novembre, Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, mancano pochi giorni. La chiamata a scendere in piazza è forte, rilanciata da personaggi pubblici. Tra chi mi legge, non so quante donne hanno mai sperimentato una forma di sopraffazione da parte di un uomo. Sono certa che, a partire dal movimento Se Non Ora Quando, nell'ondata lunga del #metoo fino al “lo sapevamo tutte”, in migliaia ci siamo guardate alle spalle e abbiamo scorto l'ombra minacciosa, vicina o lontana, talvolta incarnata nel profilo di un individuo ben preciso, di un sistema sociale in cui gli uomini detengono ed estendono il loro potere.
Non so quanti uomini si sono resi conto d'averlo esercitato e di esercitarlo, imponendo il loro sguardo, la loro visione, il loro volere e sentire a una donna per forzarne e manipolarne il pensiero e le scelte, limitarne il raggio d'azione e la libertà. Sono certa che a volte questi comportamenti sono tanto diffusi, giustificati e accettati dal gruppo di maschi da non essere neppure riconosciuti come lesivi. Il catcalling interpretato come forma d'interesse, le battute come scherzo, la gelosia come prova di sentimento, il controllo e l’insistenza come dimostrazione di vicinanza e presenza, l'atto fisico e sessuale come naturale risposta a presunti stimoli visivi ricevuti, le urla come manifestazioni di temperamento focoso e le mazzate tolte dalle mani. Dove e quando ci si ferma a riflettere sulle proprie azioni e su quelle degli altri?
Le donne parlano continuamente di queste cose. È bene che lo facciano, sono costrette a farlo e rompere il silenzio anche quando si tratta di silenzio commemorativo di un'altra donna ammazzata. Ma gli uomini: fanno altrettanto? Il femminicidio è un tema di loro dibattito personale, un fatto da non pubblicizzare per forza ma di cui ragionare sistematicamente?
Forse per dirsi estranei, incontaminati e innocenti, basta un post su Facebook come unità minima d'impegno. E forse, se prossimi a un soggetto accusato di un crimine, una dichiarazione ad attestare che no, nessuno aveva capito. Chi poteva immaginare, era tanto un bravo ragazzo! Un bravo ragazzo cui nessun altro ragazzo o uomo ha messo una mano sulla spalla dicendo: tu da qua non ti muovi, fammi capire, cos’è ‘sta storia, che stai pensando di fare? Un bravo ragazzo cui nessun altro ragazzo o uomo ha tolto le chiavi dell'auto quando ha parlato di ammazzarsi. Un bravo ragazzo per cui altri ragazzi o uomini, che l’abbiano conosciuto o meno, rispondono oggi contriti, dispiaciuti, allarmati. Ma a un certo punto, il loro discorso si blocca e ferma. Li vedi scuotere la testa davanti alle telecamere. Loro non c’entrano, no. E alla maniera di Caino nella Bibbia, sembrano chiedere: “Sono forse il custode di mio fratello?”.
Raffaella R. Ferré per Valigia Blu
La mappatura dei Centri Anti Violenza aggiornata ad aprile 2023
è fornita dal Dipartimento per le Pari Opportunità ed è disponibile qui.
Il 1522 è il numero gratuito da tutti i telefoni, attivo 24 ore su 24,
che accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno
delle vittime di violenza e stalking. Per avere aiuto o anche solo un consiglio
chiama il 1522 oppure apri la chat da qui.
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