Anno IX - Numero 27
Il prezzo della libertà? È la solitudine.
Laurence Deonna

giovedì 31 ottobre 2024

Che fine ha fatto il Green Deal?

Sembra passato un secolo da quando l’Europa sbandierava il Green Deal per superare il neoliberismo in direzione di una società più ecologica. La corsa alle armi ha messo una pietra tombale su quella enorme riforma. Il fallimento dell’operazione non sta nella sua eccessiva radicalità, ma al contrario nella sua titubanza. Una autentica transizione energetica ed ecologica si può affermare solo nel quadro di un superamento delle regole del gioco del mercato, ovvero dei paradigmi sociali capitalistici: modi di produzione, stili di vita, sistemi di valori

di Paolo Cacciari e Aldo Femia

Nel breve arco di una legislatura il Green Deal ha attraversato i cieli d’Europa come una meteora. A provocarne l’inabissamento sono stati, prima, l’emergenza sanitaria generata dalla pandemia da Covid, poi la crisi delle forniture di combustibili fossili, quindi l’inflazione, la recessione produttiva e persino le accise sul diesel dei trattori, infine è arrivata la chiamata generale alle armi contro la nuova “minaccia esistenziale”: la Russia. La crisi climatica e – tanto più – quella ecologica sono scese dalla prima all’ultima delle preoccupazioni dei governanti.

Questo mutamento di interesse è vero anche per le cittadine e i cittadini europei? Una incognita a cui le prossime elezioni potrebbero fornire qualche risposta e a cui è appeso il futuro del Green Deal.

Eppure sulla sostenibilità le cancellerie europee avevano costruito la loro immagine moderna e progressista mettendo in gioco il prestigio dell’“alleanza Ursula” tra conservatori, liberali, socialdemocratici e (spesso) verdi. La retorica delle “future generazioni” e della “lotta al cambiamento climatico” aveva contrassegnato l’“ambizioso” discorso pubblico della Commissione europea fin dal momento del suo insediamento. La “transizione ecologica” veniva indicata anche in campo economico come leva per superare le austere dottrine neoliberiste (in auge ininterrottamente da trent’anni, dal Trattato di Maastricht) a favore della riscoperta dei criteri keynesiani declinati in chiave green. La “crescita verde”, l’“economia circolare”, il decoupling (la teoria della dissociazione tra aumento del Pil e pressioni e impatti sull’ambiente, che consente di salvare l’obiettivo della crescita infinita), l’efficientizzazione e la decarbonizzazione energetica, gli standard Esg (Environmental and Social Governance) certificati da una “tassonomia” applicata a monte sugli investimenti finanziabili, l’Ets (Emissions Trading System, nient’altro che un mercato delle autorizzazioni all’emissione di gas climalteranti), le tasse ecologiche imposte anche all’importazione delle merci extraUe, lo Zero Net Land Take... ed altri complicati stratagemmi tecnocratici avrebbero posto l’Europa alla guida di un cambiamento epocale, persino morale, oltre che tecnologico, costringendo i recalcitranti Stati Uniti (Trump si era ritirato dall’Accordo di Parigi) e Cina (penosamente soffocata dai gas di scarico) a seguirla verso un mondo più pulito e più giusto: “nessuno sarà lasciato indietro” – si diceva.

Insomma, l’European Green Deal (proposto da Ursula von der Leyen nel novembre del 2019) si presentava come un vasto programma capace di implementare le politiche europee in ogni settore economico attraverso una impressionante serie di raccomandazioni, direttive e regolamenti: Regolamento sulla Tassonomia degli investimenti (2020), Legge sul clima (2021), Next Generation Eu (2021), Farm to Fork Strategy (2022), Fit for 55 (2022), REPower Eu (2022), Cbam, Carbon Border Adjustment Mechanism (2023), direttiva sulla estensione dell’applicazione a tutte le società quotate in borsa della Corporate Sustainability Reporting Directive (2022), Nature Restoration Law (proposta nel 2023), Regolamento sulle catene di approvvigionamento a deforestazione zero (2023), Sustainability Due Diligence Directive (2024), estensione del regolamento sui conti ambientali (in attesa dell’approvazione formale).
Ma molti di questi provvedimenti, alla fine di estenuanti trattative tra Parlamento, Commissione, Consiglio e stati nazionali si sono via via svuotati di contenuti o arenati del tutto. La loro applicazione e implementazione, poi, è affidata a procedure complesse, a sistemi di controllo farraginosi e richiede la creazione di apparati burocratici costosi e sgraditi sia alle imprese che dovrebbero subirli, sia alle amministrazioni dei singoli stati che dovrebbero attuarli. Non si contano i contenziosi e rimangono aperti ampi margini di elusione (in particolare per le verifiche di impatto ambientale), se non di truffe da parte delle imprese (tanto che si è reso necessario proporre una direttiva contro le pratiche di greenwashing, la Green claims) e di aperto boicottaggio da parte di alcuni stati.

Sempre più lontani dai target
Tra gli ultimi clamorosi voltafaccia c’è il ritiro della proposta di regolamento Sur (Sustainable Use Regulation), in applicazione della strategia Farm to Fork, “dalla fattoria alla forchetta”, lungo tutta la filiera agroalimentare per realizzare un sistema “giusto, sano e rispettoso dell’ambiente”.
Il suo obiettivo concreto era dimezzare l’uso dei fitofarmaci e pesticidi chimici più pericolosi entro il 2030. Il Sur è stato l’agnello sacrificale offerto per chetare i bollenti spiriti degli agricoltori scesi nelle strade di mezza Europa con i loro potenti trattori diesel (sussidiati). Per la verità la proposta di regolamento era già stata respinta dal Parlamento europeo nel novembre dello scorso anno, ben prima delle proteste, sotto il tiro incrociato dei Verdi che giudicavano la proposta troppo debole, e del Partito popolare alleato alle destre perché, al contrario, troppo limitante le attività delle grandi imprese dell’industria agrochimica. Ciò a conferma di quanto affermano da tempo la Confédération Paysanne, Via Campesina e le varie reti dei contadini biologici: l’agroindustria megaintensiva, sintetica, digitale, “di precisione”, biotecnologica... non va d’accordo con la preservazione dei cicli vitali del suolo.

Altro recente colpo inferto al Green Deal è l’annacquamento della Corporate Sustainability Due Diligence Directive (Csddd), proposta dalla Commissione già nel 2022 e approvata il 15 marzo di quest’anno ma ora osteggiata dai governi della Germania (con i Grünen intrappolati nelle dinamiche del governo con i liberali) e dell’Italia (il cui governo opera sotto dettatura della Confindustria) che si sono astenuti nell’ultimo passaggio nelle trattative tra stati e Commissione. Definita come un provvedimento cruciale per accompagnare la transizione delle imprese verso la sostenibilità, la legge prevedeva l’introduzione - peraltro, molto graduale e soft - di obblighi sul rispetto dei diritti umani e della tutela dell’ambiente per le imprese che operano nella Ue a cui dovrebbe essere chiesto di rendere pubbliche le performance ambientali attraverso un Corporate Sustainability Reporting, già in vigore per le grandi imprese, in linea con gli impegni dell’Accordo di Parigi sulla lotta al cambiamento climatico. (Per comprendere l’importanza di tali regolamentazioni nel settore della moda – ad esempio e in particolare – si legga il saggio di Deborah Lucchetti su questo stesso fascicolo).

Il colpo più grave al Green Deal è stato inferto dal Consiglio dell’Ue che con un voto a sorpresa, il 22 marzo scorso, ha rinviato a data da destinarsi (cioè, salvo miracoli, a dopo le elezioni di giugno) l’approvazione del regolamento sulla Nature Restoration Law. Un voltafaccia vergognoso per mano dei governi caduti nelle mani delle destre negli ultimi due anni (tra cui l’Italia) - segno dei mutati equilibri politici all’interno della Ue - e, per di più, uno sgarbo inusuale al Parlamento europeo che aveva approvato il provvedimento già due volte, l’ultima nel febbraio scorso sulla base di un compromesso al ribasso che ne aveva depotenziato di molto l’efficacia. Un esempio davvero eclatante di quanto poco democratica sia l’intera impalcatura delle istituzioni europee. È accaduto che tra i rappresentanti (ambasciatori) dei governi dei 27 stati membri si è formato un “blocco di veto” comprendente Ungheria, Austria, Finlandia, Paesi Bassi, Polonia, Svezia e Italia che ha messo nell’angolo Francia, Germania e Spagna. La legge sul ripristino della natura veniva considerata il “regolamento simbolo” del Green Deal, uno dei suoi pilastri più importanti e innovativi sotto il profilo naturalistico che puntava a tutelare il 20% della superficie terrestre e marina dell’Unione entro il 2030, per poi estenderle ad una serie di ecosistemi entro il 2050.

Le reazioni non sono mancate. Il Wwf ha lanciato un appello di scienziati e naturalisti per chiedere al governo italiano di rivedere la sua posizione. Špela Bandelj Ruiz di Greenpeace ha dichiarato: «È una vergogna che i governi silurino i primi piccoli passi verso il ripristino della natura europea. Stanno giocando con la vita delle generazioni future e con il sostentamento degli agricoltori che affermano di proteggere. Senza natura, non c’è cibo e non c’è futuro». Alessandro Polinori, presidente della Lipu, ha dichiarato: «Dopo aver superato enormi difficoltà e il sostegno di 300 tra associazioni, università, enti che hanno aderito al Manifesto per la Restoration Law della nostra associazione non possiamo che esprimere rabbia e delusione per quanto accaduto». La coalizione #RestoreNature, composta da BirdLife Europe, ClientEarth, Eeb e Wwf Eu ha scritto un comunicato in cui si dice: «Condanniamo tutti gli Stati membri che non sostengono la legge – nella migliore delle ipotesi, ciò suggerisce una profonda incapacità di comprendere la situazione in cui ci troviamo e cosa significa per i diritti dei cittadini. (…) È del tutto incomprensibile e spaventoso vedere la legge sacrificata sull’altare del sentimento populista anti-verde, privo di qualsiasi spiegazione razionale, e minando il processo decisionale democratico».

L’elenco completo dei colpi di maglio inferti al Green Deal è ancora lungo: marcia indietro sui tempi dello stop dei motori termici alimentati a benzina e diesel; opposizione al regolamento sugli imballaggi; annacquamento della direttiva sulle “case green”; via libera ai nuovi Ogm basati sulle tecniche genomiche; insabbiamento del regolamento Reach sui rischi associati alle sostanze chimiche; retromarcia nella Politica Agricola Comune sugli obblighi alla rotazione delle colture e la messa a riposo di una quota (minima) di terreni. Infine lo stop al regolamento per impedire la “deforestazione importata”, ovvero sulla tracciabilità e vigilanza dei prodotti (la lista è particolarmente lunga: beni alimentari come cacao, caffè, soia, olio di palma o carne bovina, oltre a legnami, caucciù, cuoio, carta, carbone, pneumatici, cosmetici) che possono provenire da aree tutelate.

Il tutto avviene mentre anche il principale obiettivo della transizione ecologica, l’abbattimento delle emissioni (dirette e indirette) di gas climalteranti, rimane lontano dalla road map stabilita.

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