di Angelo Baglioni e Massimo Bordignon
Le politiche di allentamento quantitativo (Quantitative easing) hanno portato le banche centrali a detenere ampi quantitativi di titoli, prevalentemente pubblici. Era già successo negli Usa in reazione alla crisi finanziaria del 2007/2008 e nella zona euro a partire dal 2015. Con la pandemia, i piani di acquisto di titoli sono ripresi alla grande, facendo fare un ulteriore balzo alle dimensioni dei bilanci delle banche centrali. Ora si pone il problema di cosa fare della mole di titoli presenti nei portafogli delle banche centrali.
Le proposte sul tappeto
Di recente, sono state avanzate diverse proposte su come gestire i titoli detenuti dalla Banca centrale europea (o meglio dall’Eurosistema): si vedano per esempio quella di Francesco Giavazzi e altri e quella di Stefano Micossi. È un dibattito del tutto assente in altri paesi del mondo. Perché? Il motivo risiede nel “peccato originale” dell’Unione monetaria europea: politica monetaria unica e politiche fiscali separate. Ciò ha portato la Bce a detenere titoli pubblici emessi dai singoli paesi membri, problema che non si pone altrove.
Al di là delle differenze, le proposte avanzate condividono un aspetto: il trasferimento (almeno in parte) dei titoli pubblici detenuti dall’Eurosistema a un ente sovranazionale, si tratti di una Agenzia del debito europea di nuova costituzione o del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) già esistente. In cambio dei titoli ceduti, la Bce riceverebbe nuovi titoli di debito emessi da queste istituzioni, che potrebbe poi a sua volta vendere sul mercato. La finalità delle proposte, condivisibile, è quella di creare un titolo di debito europeo (verrebbe da chiamarlo Eurobond, ma è meglio non urtare la suscettibilità dei paesi “nordici”), liberando così la Bce dall’imbarazzo di finanziare gli stati nazionali e preservando la sua autonomia, visto che l’eventuale cessione dei nuovi titoli non avrebbe un impatto diretto sul mercato dei titoli pubblici nazionali. Un altro vantaggio sarebbe quello di consentire a tutti i paesi, anche a quelli ad alto debito come il nostro, di finanziarsi emettendo, seppure indirettamente, titoli privi di rischio e quindi a tassi di interesse più bassi di quelli pagati sul debito nazionale.
C’è un problema: la condivisione del rischio
Tuttavia, è bene ricordare che “non ci sono pasti gratis”, come amano dire gli economisti. Nella situazione attuale, gran parte del rischio relativo al portafoglio-titoli dell’Eurosistema ricade sui singoli paesi: circa il 90 per cento dei titoli pubblici nazionali, presenti in quel portafoglio, sono stati acquistati dalle rispettive banche centrali nazionali. Al contrario, il debito europeo comporta una condivisione del rischio tra i paesi membri della zona euro. La sua affidabilità deriva dal fatto che quei paesi garantiscono congiuntamente le risorse necessarie per ripagare quel debito: se un paese fosse inadempiente, gli altri ci dovrebbero mettere una pezza, versando le risorse necessarie al posto suo. Senza questa garanzia, il debito europeo non sarebbe privo di rischio, e il presunto vantaggio in conto interessi svanirebbe. Ma la condivisione del rischio è sempre stata un tabù per i paesi “nordici” (inclusa la Germania). Il tabù è stato temporaneamente superato di fronte all’emergenza della pandemia, consentendo l’emissione del debito europeo necessario per finanziare il Next Generation EU. Sarà possibile superarlo in via permanente? Rimane una questione aperta sul piano politico.
I rapporti tra politica monetaria e gestione del debito
Sul piano tecnico, vale però forse la pena porsi una domanda diversa: è davvero necessario “liberare” le banche centrali dalla massa di titoli accumulati con gli acquisti fatti in questi anni, per esempio, per la finalità di controllare l’inflazione? La risposta è complessa, ma possiamo tentare una sintesi: è necessario, ma solo in parte e con tempi lunghi. Dietro questa risposta c’è il nuovo assetto operativo della politica monetaria, che si è venuto creando a seguito delle misure “non convenzionali” adottate nell’ultimo decennio. L’abbondanza di liquidità, creata nel tempo attraverso gli acquisti di attività finanziarie, ha prodotto un eccesso strutturale di offerta sul mercato monetario, tale da spingere stabilmente i tassi di interesse di mercato al loro limite inferiore: il “pavimento” è costituito dal tasso applicato alle operazioni di deposito fatte dalle banche presso la banca centrale (deposit facility). Questo floor system consente alla banca centrale di applicare variazioni ai tassi di policy, senza dovere adeguare la base monetaria al nuovo livello dei tassi: è possibile aumentare il tasso sulla deposit facility, che guida i tassi di mercato, senza dovere ridurre la base monetaria attraverso una vendita di titoli sul mercato. In altri termini, l’eccesso strutturale di riserve introduce un grado di libertà in più nella gestione della politica monetaria: quantità di moneta e tassi di interesse possono essere gestiti indipendentemente. Questa proprietà non valeva nell’assetto tradizionale, nel quale le due variabili, quantità e tassi, erano strettamente interdipendenti: in un sistema in cui la base monetaria era relativamente scarsa, la quantità offerta andava opportunamente regolata, attraverso le operazioni di mercato aperto, per adeguarla al livello desiderato dei tassi di interesse.
Ora consente alle banche centrali, di fronte alla ripresa dell’inflazione a cui stiamo assistendo, di reagire innalzando i tassi di interesse e rimandando semmai a un momento successivo la riduzione della dimensione del loro bilancio. Non solo, ma la riduzione può essere anche parziale, come insegna l’esperienza degli Usa: tra il 2017 e il 2019, la Fed ha ridotto solo del 15 per cento lo stock di titoli accumulato con i precedenti round di Qe. Sempre nel 2019, ha annunciato che il nuovo schema operativo, basato sull’abbondanza di riserve, è destinato a rimanere per sempre, aprendo così la porta al mantenimento di un ampio portafoglio-titoli. L’annuncio fatto dalla Fed il 26 gennaio 2022 punta a una riduzione graduale e prevedibile dello stock di titoli accumulato durante la pandemia, senza effettuare vendite di titoli, ma limitandosi a non rinnovare parte di quelli in scadenza, dando priorità alla diminuzione dello stock di titoli privati rispetto a quelli pubblici.
Nel dicembre scorso, la Bce ha annunciato che manterrà invariato lo stock di titoli acquistati con il programma pandemico (Pepp) fino alla fine del 2024, attraverso il reinvestimento dei proventi, derivanti dai titoli in scadenza, in titoli dello stesso tipo: il cosiddetto roll-over. Il roll-over dei titoli acquistati con l’altro programma (App) continuerà “per un prolungato periodo di tempo successivamente alla data in cui la Bce inizierà a innalzare i tassi di interesse”. La forward guidance chiarisce l’orizzonte della politica della Bce per il prossimo triennio (2022-2024), escludendo un “quantitative tightening”, cioè una significativa riduzione del portafoglio-titoli. L’eventuale reazione alla fiammata inflazionistica in corso avverrà usando l’arma dei tassi di interesse. Resta da chiarire quale sarà a regime l’assetto operativo della Bce. Prevedibilmente, rimarrà improntato a una abbondanza di riserve, come negli Usa. Tuttavia, la Bce farebbe bene a rendere esplicito questo aspetto, cruciale non solo per la politica monetaria, ma anche per i rapporti tra la banca centrale e la gestione del debito pubblico.
Angelo Baglioni e Massimo Bordignon* per Lavoce.info
* Le opinioni espresse sono personali e non riflettono necessariamente quelle dell’istituto di appartenenza.
Al di là delle differenze, le proposte avanzate condividono un aspetto: il trasferimento (almeno in parte) dei titoli pubblici detenuti dall’Eurosistema a un ente sovranazionale, si tratti di una Agenzia del debito europea di nuova costituzione o del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) già esistente. In cambio dei titoli ceduti, la Bce riceverebbe nuovi titoli di debito emessi da queste istituzioni, che potrebbe poi a sua volta vendere sul mercato. La finalità delle proposte, condivisibile, è quella di creare un titolo di debito europeo (verrebbe da chiamarlo Eurobond, ma è meglio non urtare la suscettibilità dei paesi “nordici”), liberando così la Bce dall’imbarazzo di finanziare gli stati nazionali e preservando la sua autonomia, visto che l’eventuale cessione dei nuovi titoli non avrebbe un impatto diretto sul mercato dei titoli pubblici nazionali. Un altro vantaggio sarebbe quello di consentire a tutti i paesi, anche a quelli ad alto debito come il nostro, di finanziarsi emettendo, seppure indirettamente, titoli privi di rischio e quindi a tassi di interesse più bassi di quelli pagati sul debito nazionale.
C’è un problema: la condivisione del rischio
Tuttavia, è bene ricordare che “non ci sono pasti gratis”, come amano dire gli economisti. Nella situazione attuale, gran parte del rischio relativo al portafoglio-titoli dell’Eurosistema ricade sui singoli paesi: circa il 90 per cento dei titoli pubblici nazionali, presenti in quel portafoglio, sono stati acquistati dalle rispettive banche centrali nazionali. Al contrario, il debito europeo comporta una condivisione del rischio tra i paesi membri della zona euro. La sua affidabilità deriva dal fatto che quei paesi garantiscono congiuntamente le risorse necessarie per ripagare quel debito: se un paese fosse inadempiente, gli altri ci dovrebbero mettere una pezza, versando le risorse necessarie al posto suo. Senza questa garanzia, il debito europeo non sarebbe privo di rischio, e il presunto vantaggio in conto interessi svanirebbe. Ma la condivisione del rischio è sempre stata un tabù per i paesi “nordici” (inclusa la Germania). Il tabù è stato temporaneamente superato di fronte all’emergenza della pandemia, consentendo l’emissione del debito europeo necessario per finanziare il Next Generation EU. Sarà possibile superarlo in via permanente? Rimane una questione aperta sul piano politico.
I rapporti tra politica monetaria e gestione del debito
Sul piano tecnico, vale però forse la pena porsi una domanda diversa: è davvero necessario “liberare” le banche centrali dalla massa di titoli accumulati con gli acquisti fatti in questi anni, per esempio, per la finalità di controllare l’inflazione? La risposta è complessa, ma possiamo tentare una sintesi: è necessario, ma solo in parte e con tempi lunghi. Dietro questa risposta c’è il nuovo assetto operativo della politica monetaria, che si è venuto creando a seguito delle misure “non convenzionali” adottate nell’ultimo decennio. L’abbondanza di liquidità, creata nel tempo attraverso gli acquisti di attività finanziarie, ha prodotto un eccesso strutturale di offerta sul mercato monetario, tale da spingere stabilmente i tassi di interesse di mercato al loro limite inferiore: il “pavimento” è costituito dal tasso applicato alle operazioni di deposito fatte dalle banche presso la banca centrale (deposit facility). Questo floor system consente alla banca centrale di applicare variazioni ai tassi di policy, senza dovere adeguare la base monetaria al nuovo livello dei tassi: è possibile aumentare il tasso sulla deposit facility, che guida i tassi di mercato, senza dovere ridurre la base monetaria attraverso una vendita di titoli sul mercato. In altri termini, l’eccesso strutturale di riserve introduce un grado di libertà in più nella gestione della politica monetaria: quantità di moneta e tassi di interesse possono essere gestiti indipendentemente. Questa proprietà non valeva nell’assetto tradizionale, nel quale le due variabili, quantità e tassi, erano strettamente interdipendenti: in un sistema in cui la base monetaria era relativamente scarsa, la quantità offerta andava opportunamente regolata, attraverso le operazioni di mercato aperto, per adeguarla al livello desiderato dei tassi di interesse.
Ora consente alle banche centrali, di fronte alla ripresa dell’inflazione a cui stiamo assistendo, di reagire innalzando i tassi di interesse e rimandando semmai a un momento successivo la riduzione della dimensione del loro bilancio. Non solo, ma la riduzione può essere anche parziale, come insegna l’esperienza degli Usa: tra il 2017 e il 2019, la Fed ha ridotto solo del 15 per cento lo stock di titoli accumulato con i precedenti round di Qe. Sempre nel 2019, ha annunciato che il nuovo schema operativo, basato sull’abbondanza di riserve, è destinato a rimanere per sempre, aprendo così la porta al mantenimento di un ampio portafoglio-titoli. L’annuncio fatto dalla Fed il 26 gennaio 2022 punta a una riduzione graduale e prevedibile dello stock di titoli accumulato durante la pandemia, senza effettuare vendite di titoli, ma limitandosi a non rinnovare parte di quelli in scadenza, dando priorità alla diminuzione dello stock di titoli privati rispetto a quelli pubblici.
Nel dicembre scorso, la Bce ha annunciato che manterrà invariato lo stock di titoli acquistati con il programma pandemico (Pepp) fino alla fine del 2024, attraverso il reinvestimento dei proventi, derivanti dai titoli in scadenza, in titoli dello stesso tipo: il cosiddetto roll-over. Il roll-over dei titoli acquistati con l’altro programma (App) continuerà “per un prolungato periodo di tempo successivamente alla data in cui la Bce inizierà a innalzare i tassi di interesse”. La forward guidance chiarisce l’orizzonte della politica della Bce per il prossimo triennio (2022-2024), escludendo un “quantitative tightening”, cioè una significativa riduzione del portafoglio-titoli. L’eventuale reazione alla fiammata inflazionistica in corso avverrà usando l’arma dei tassi di interesse. Resta da chiarire quale sarà a regime l’assetto operativo della Bce. Prevedibilmente, rimarrà improntato a una abbondanza di riserve, come negli Usa. Tuttavia, la Bce farebbe bene a rendere esplicito questo aspetto, cruciale non solo per la politica monetaria, ma anche per i rapporti tra la banca centrale e la gestione del debito pubblico.
Angelo Baglioni e Massimo Bordignon* per Lavoce.info
* Le opinioni espresse sono personali e non riflettono necessariamente quelle dell’istituto di appartenenza.
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