di Alessandro Leonardi*
Dieci anni fa, James Hansen – uno dei più celebri ed influenti climatologi al mondo – liquidò in maniera sprezzante le promesse del celeberrimo Accordo di Parigi del 2015 definendolo “una frode, un falso” e pure “una stronzata”. Nelle parole dell’esperto, non si trattava che di “inutili parole”, dal momento che “fino a quando i combustibili fossili sembreranno i più economici in circolazione, continueranno ad essere consumati”. Ovviamente rimase inascoltato, seppellito dall’ottimismo green espresso dalle istituzioni internazionali e dal mondo corporate. Ma Hansen, in un certo senso, era stato fin troppo cauto; non solo la crisi climatica-ambientale è nettamente peggiorata da allora, ma le dinamiche stesse del modello industriale globalizzato ne impediscono categoricamente una risoluzione – da cui il complessivo fallimento delle lotte ambientaliste degli ultimi anni, indipendentemente dai successi conseguiti a livello locale. Ma la pandemia di Covid-19, le contese geopolitiche, lo sviluppo industriale di decine e decine di Paesi emergenti, la crescita imperativa del capitalismo, il consumismo celebrato sui media e le costrizioni poste dall’ossessiva competizione globale, paralizzano qualsiasi piano ambientalista in grande stile. Che fare quindi?
Proprio in questi giorni si sta tenendo a Belém, in Brasile, l’ennesima conferenza sul clima (la COP30), oltretutto minata in partenza dalla più grande presenza di sempre di lobbisti dei combustibili fossili, e giustamente qualcuno ha iniziato a chiedersi se vi sono delle nuove strategie per uscire da questa impasse. Il giornalista Valerio Renzi ha provato a ragionare sulla questione riepilogando il dibattito degli ultimi anni e le lotte che ne sono emerse, ma il risultato della sua riflessione è abbastanza sconfortante: le organizzazioni che hanno creduto nelle istituzioni multilaterali, puri prodotti del sistema dominante, si sono ritrovate a proporre piani di mitigazione deboli, inefficaci e lentissimi che tra l’altro sono spesso rinnegati nella pratica. Coloro che hanno provato a seguire in qualche modo la strada indicata dal sindacalista e attivista Chico Mendes – a cui viene attribuita la famosa citazione “l’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio” – sono stati perseguitati a livello giudiziario o relegati in un angolo del dibattito ignorato dalle masse. La restante nebulosa composta da attivisti, climatologi e teorici di nuovi modelli socio-economici è ferma alle teorie sulla carta: i sistemi circolari, l’economia della ciambella di Kate Raworth, la grande cooperazione globale di Gaia Vince o le radicali trasformazioni dell’attuale modello planetario. Insomma, niente di anche solo lontanamente vicino a quanto si sta effettivamente attuando. Si sogna, si spera, si cerca un mondo più giusto, in equilibrio con l’habitat naturale, quando poi nella realtà dominano tutt’altri sistemi di potere, tutt’altre dinamiche economiche, industriali e sociali, ma soprattutto domina l’implacabile motore consumistico piccolo-borghese.
I problemi, infatti, non sono limitati alla sola sfera della gestione politica della crisi ambientale, ma nel nostro stesso atteggiamento in quanto società opulenta. Nel suo ultimo libro, il filosofo Raffaele Alberto Ventura ha ricordato come una caratteristica fondamentale della modernità avanzata, tipica in particolare dei Paesi sviluppati, stia nel fatto che “la classe media fabbrica individui desideranti”, laddove “la sfida della transizione ecologica non può essere vinta da un’umanità che ha fatto del consumismo la propria seconda natura”. Un consumismo assolutamente funzionale alla crescita illimitata del modello industriale-tecnologico, sorto secoli or sono e che da allora ha preso a marciare sul mondo estraendo, trasformando e sprecando infinite quantità di materia, proprio allo scopo di edificare il gigantesco benessere fisico-materiale di cui godiamo oggi, nel XXI secolo. Questa incredibile e potentissima trasformazione del globo – tale da aver reso necessaria l’introduzione del termine “Antropocene” – è il vero collante che unisce tutte le nazioni della Terra ed è il nucleo fondamentale della nostra civiltà. Lo stesso a cui, d’altra parte, nessuno vuole davvero rinunciare, salvo piccole e ininfluenti minoranze.
Esistono infatti diversi teorici che hanno proposto concetti come il “Pil stazionario” o la “decrescita”, proprio perché consci della natura del tardo-capitalismo e dei suoi dogmi, provando così ad ipotizzare un riequilibrio concordato a livello globale; l’idea sarebbe di ridistribuire alle nazioni più povere l’eccessivo accumulo di ricchezze dei Paesi avanzati, evitando l’ennesima estensione dei processi inquinanti per sviluppare industrialmente ed economicamente le aree più economicamente e tecnologicamente arretrate del mondo. Tutti questi piani e modelli alternativi, però, peccano di una palese ingenuità al limite del “pensiero magico”, come ha sottolineato l’economista Branko Milanovic. Credere che interi sistemi dominanti cederanno in tempi rapidi le loro ricchezze e il loro potere alle fasce più disagiate dell’umanità, è l’equivalente delle utopie sulla pace perpetua e universale, e non sono che semplici fantasie che rimuovono tutta una serie di ostacoli sociologici, antropologici e culturali che forse ci accompagneranno fino alla fine dei tempi. Ed infatti le grandi narrazioni sulla cooperazione multilaterale, nel breve periodo intercorso fra il 2015 e il 2019, sono state fatte a pezzi dai tragici eventi successivi – con l’esplosione di tensioni internazionali che hanno impresso un duro colpo alla mobilitazione ambientale.
Ovviamente tali proposte sono sempre state rigettate, quando non semplicemente ignorate, dalle leadership di tutto il mondo, che hanno puntualmente preferito affidarsi alla più comoda via del “soluzionismo tecnologico” – la semplice quanto invitante idea che l’innovazione tecnologica declinata in chiave “verde” finirà necessariamente per produrre in un imprecisato futuro un modello eco-sostenibile, capace di garantire al contempo e per tutta l’umanità una generale abbondanza materiale e un minor inquinamento. In tal senso, la spinta verso l’elettrificazione e le energie rinnovabili, ma anche i nuovi metodi di riciclaggio e di sostituzione delle sostanze più pericolose, sono diventate l’architrave per mettere in piedi i piani di sviluppo alternativo di varie nazioni – prima fra tutte la Cina, che ormai ha assunto un vero e proprio ruolo egemonico nell’implementazione su larga scala del green-tech. Con una serie di successi e impatti decisivi che iniziano a manifestarsi anche al di fuori dei suoi confini, promettendo di fermare le emissioni di gas alteranti o addirittura di abbattere la loro presenza nell’atmosfera già nei prossimi anni.
Ma anche nel fortunato caso in cui avesse effettivamente luogo nell’arco del prossimo decennio una rapida elettrificazione dei Paesi emergenti, è evidente che questo singolo processo non avrà le potenzialità per risolvere in un colpo solo la situazione. La crisi in corso, infatti, non è solo “climatica” e quindi strettamente legata alle emissioni, ma in senso più generale anche “ambientale”: in sintesi, si tratta di un’azione contemporanea di svariati fenomeni, come l’inquinamento chimico, il consumo del suolo, dell’aria e dell’acqua, la distruzione degli habitat naturali, l’alterazione della fauna e delle catene alimentari, e così via. Il risultato di tutto questo è un combinato estremamente complesso e pericoloso che sta minando alla base le cosiddette “nicchie ecologiche”. Ovvero quelle stabili condizioni territoriali-ambientali che hanno permesso all’umanità di prosperare per millenni in svariate aree del mondo con temperature tollerabili e abbondanza di risorse naturali.
Per quanti pannelli solari si possano installare e nonostante l’aumento delle auto elettriche in circolazione, questo non potrà cambiare il fatto che miliardi di abitanti dei paesi poveri continueranno, giustamente, a cercare di raggiungere a loro volta il tenore di vita della classe media occidentale e i comfort dell’epoca contemporanea. E per ottenere tutto questo, sarà ancora una volta necessario saccheggiare un’immensa quantità di materia dagli habitat naturali aumentando inevitabilmente l’inquinamento di massa, e questo anche solo banalmente per costruire le infrastrutture necessarie a favorire tale sviluppo, dalle strade agli aeroporti, dalle case agli ospedali, fino a tutta la rete industriale e commerciale. Di fronte a tutto questo, come si può garantire la coesistenza equilibrata di miliardi di borghesi con l’ecosistema del pianeta Terra, perenni consumatori, in un mondo che arriverà a 9 miliardi di individui già entro il 2050? Una domanda a cui nessuno sa concretamente rispondere, salvo ricorrere alle solite utopie sull’umanità altruista, cooperante, pronta ad attuare un modello “asceta e responsabile” già nel giro di qualche anno.
La realtà – la drammatica realtà inevitabilmente creata dalla modernità – al contrario ci fa vedere che non c’è alcun equilibrio possibile. Ad oggi, non c’è alcuno spazio per mettere effettivamente in piedi un qualsiasi progetto di decrescita felice e nessuno sembra credere davvero alla possibilità di intraprendere una nuova e comoda rotta, al di fuori della crescita esponenziale senza limiti, senza freni, inesorabile, implacabile. Il sistema tecnologico-industriale è diventato talmente potente, pervasivo e costringente che nessuno osa realmente sfidarlo o metterlo in discussione; come un treno senza conducente che viaggia a velocità folli, fino a quando i binari glielo permetteranno. Gli accelerazionisti, così come i sostenitori della possibile nuova “era transumanista”, in cuor loro hanno intuito questa cosa e, in ossequio ai dogmi del sistema, hanno deciso di ricorrere a qualsiasi mezzo per superare anche gli ultimi limiti: quelli terrestri e più in generale quelli dell’Homo sapiens in quanto tale. “La salvezza sta su Marte”, ripete ossessivamente Elon Musk; ma in realtà tutto quello che ottiene è di illuderci (o forse di auto-convincersi), mentre la civiltà attuale rischia un violento collasso planetario che chiuderà il lungo ciclo di accumulazione capitalistico-materiale degli ultimi secoli.
La battaglia ambientalista, come tante altre del passato, è rimasta incastrata nelle liturgie novecentesche figlie di un contesto benestante o, cosa ancora più grave, in pratiche micro-settarie che non avranno mai successo. O, quantomeno, non quello auspicato da chi se ne fa promotore. Invece di sognare futuri impossibili, sarebbe bene riprendere in mano non solo la questione del “potere” e tentare una migliore comprensione di come funzionano i sistemi egemonici, ma anche gli studi sulle origini del nostro modello di sviluppo. Solo così facendo diventa possibile capire come siamo finiti in questo dedalo perverso e avere quindi modo di formulare finalmente delle strategie che siano realistiche e adattive, all’altezza dei tempi che corrono. In tal caso, i piani di adattamento climatici, specialmente quelli praticati a livello locale, dovranno diventare prioritari nei prossimi anni, mentre si cercherà di guadagnare tempo con quel poco che si sta ottenendo dai piani di mitigazione e da certi avanzamenti tecnologici.
Qualche poeta potrebbe ribadire che l’umanità è di fronte a una scelta: la Grande Macchina industriale o Gaia. Ma è mai davvero esistita questa scelta? E abbiamo effettivamente modo di scegliere? Se ormai la sensazione dominante è quella di esserci imbarcati sul Titanic, forse sarebbe il caso di guardare verso le scialuppe di salvataggio. Una specie intelligente – o quantomeno chi pretende di rappresentare la componente più sveglia – dovrebbe farlo.
Alessandro Leonardi per Iconografie
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