Anno X - Numero 39
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Eugenio Montale

venerdì 4 novembre 2022

La maledizione di Midterm

Tradizionalmente, negli Stati Uniti il partito del presidente perde voti e seggi alle elezioni di Midterm. In questa tornata, poi, con l’inflazione in crescita e il rischio di una grave recessione, è la situazione economica a preoccupare gli americani

di Ron Hamaui

Una delle regolarità più ferree nella politica americana è che il partito del presidente perda voti alle elezioni di metà mandato (Midterm). Quasi nessun presidente ne è risultato immune. È accaduto al democratico Barack Obama nel 2010 come al repubblicano Donald Trump nel 2018. Nelle ultime diciannove tornate elettorali di metà mandato che si sono succedute dalla fine della seconda guerra mondiale solo una volta, nel 2002, il partito repubblicano del presidente George W. Bush è riuscito a vincere le elezioni, ma quel voto si era svolto un anno dopo l’attentato alle Torri gemelle, che aveva sconvolto l’opinione pubblica americana e che il presidente in carica aveva saputo gestire con maestria.
Possiamo allora concludere che grazie alla cosiddetta “maledizione delle midterm elections” l’8 novembre i repubblicani sono destinati a conquistare la Camera dei deputati e il Senato? La questione è di particolare importanza in un momento di fortissime tensioni internazionali e nel mezzo di una probabile stagflazione senza eguali dall’inizio degli anni Ottanta.

La statistica sembra condannare i democratici. Mediamente nel secondo dopoguerra il partito del presidente ha perso il 7,4 per cento dei voti nelle elezioni di metà mandato rispetto a quelle di due anni prima. Dal momento che i democratici nel 2020 hanno vinto alla Camera con 3 punti percentuali di vantaggio e una risicata maggioranza di quattro seggi, i repubblicani possono ragionevolmente aspettarsi di guadagnarne il controllo. Al Senato la storia è un po’ più articolata giacché dal 1946 in sei casi su diciannove il partito del presidente è riuscito a guadagnare seggi o perlomeno a mantenere quelli che aveva. La maggiore stabilità dei risultati di questo ramo del Congresso è imputabile al fatto che, mentre alla Camera vengono rieletti tutti i 425 rappresentanti (in carica per due anni), nell’altro ramo del Congresso decade solo un terzo dei 100 senatori (in carica per sei anni). La natura statale del voto al Senato, assieme alla più diffusa notorietà degli incumbent, contribuisce alla maggiore vischiosità del risultato e alla minor importanza della contrapposizione tra i partiti. In questa tornata elettorale, tuttavia, partiamo da una situazione di perfetta parità fra senatori democratici e repubblicani: la perdita anche di un solo stato governato da un democratico determinerebbe la perdita della maggioranza per il partito del presidente. Particolarmente critici sono i seggi di Arizona, Georgia e Nevada, oggi per pochi voti in mano ai democratici, benché tradizionalmente repubblicani. Infine, vale la pena ricordare che generalmente le midterm elections vedono un tasso di partecipazione molto basso e l’astensionismo colpisce soprattutto gli strati più emarginati della popolazione, tradizionalmente più democratici.

Quanto conta l’inflazione
Tuttavia, le vicende politiche sono più complesse di una semplice estrapolazione di trend passati. Le elezioni di metà mandato finiscono per rappresentare una specie di referendum sull’operato del presidente e sulla situazione del paese. Vale la pena allora ricordare che la popolarità di Joe Biden non è particolarmente alta: più della metà degli americani disapprova il suo operato, mentre solo il 40 per cento lo approva. Percentuali non particolarmente lusinghiere, simili a quelle osservate dopo due anni di governo dalle presidenze Trump, Clinton, Carter e Reagan, ma inferiori a quelle raggiunte da Barack Obama, John Kennedy e Lyndon Johnson, che pure perdettero il controllo del Congresso.

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