di Leonello Tronti
Si dirà che il problema è la crisi che, colpendo le imprese due volte tra il 2008 e il 2013, ha proibito qualunque crescita del potere d’acquisto dei salari. Ma se andiamo più indietro e guardiamo cos’è successo prima, quando la crisi non c’era, l’Eurostat ci dice che fatta 100 la retribuzione reale media di un dipendente a tempo pieno italiano nel 1995, nel 2006 l’indice aveva raggiunto il valore di 101,5, anche se nel frattempo l’indice del reddito lordo prodotto dall’economia era passato da 100 a 118,3. Dunque le retribuzioni italiane sono – da almeno 22 anni – rigide verso l’alto, insensibili alla congiuntura. Il dipendente italiano a tempo pieno (quello fortunatamente non toccato dall’enorme crescita del lavoro flessibile) guadagna oggi in termini reali più o meno quello che guadagnava nel 1995.
Perché in Italia i salari non crescono? La risposta è semplice: perché non è previsto che crescano. Il modello contrattuale italiano stabilisce infatti che i contratti nazionali traguardino l’inflazione – ovvero che i salari reali non crescano; e demanda l’ipotetica crescita dei salari reali ai contratti aziendali o territoriali i quali, però, toccano a stento (e per cifre assai modeste) il 30% dei dipendenti delle imprese private. Ne consegue che per il 70% o più dei dipendenti privati il potere d’acquisto dei salari è ancorato ad eterno al valore del 1993, anno di varo del nostro bel modello contrattuale. Mentre per quelli che hanno la fortuna di avere un contratto aziendale la crescita è mediamente modesta, molto modesta.
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