Anno IX - Numero 31
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Soren Kierkegaard

giovedì 5 dicembre 2024

Se il welfare aziendale sostituisce le politiche pubbliche della casa

In attesa del più volte annunciato “piano casa”, la legge di bilancio prevede alcune agevolazioni sui costi delle abitazioni, pensate anche per favorire la mobilità dei lavoratori. Ma si tratta di politiche del lavoro più che di politiche abitative

di Raffaele Lungarella

Se l’articolo 71 del disegno di legge di bilancio 2025-2027 non sarà modificato dal Parlamento, entro la fine del prossimo mese di giugno il governo dovrebbe approvare un piano casa. Il segretario della Lega per Salvini lo annuncia pressoché da quanto è stato nominato al ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, che ha la competenza sulle politiche abitative. C’è da sperare che abbia una dote finanziaria superiore ai 100 milioni promessi negli incontri con le rappresentanze delle associazioni interessate. Se questa fosse la cifra, saremmo di fronte alle classiche nozze con i fichi secchi. Nel disegno di legge però non c’è nessuno stanziamento.

Aspettando il piano casa
Entro sei mesi dall’approvazione della legge di bilancio, un decreto, proposto dal ministero ed emanato del presidente del Consiglio dei ministri, dovrebbe contenere il “Piano casa Italia”, un piano di edilizia residenziale pubblica e sociale per contrastare il disagio abitativo “anche mediante la valorizzazione del patrimonio immobiliare esistente e il contenimento del consumo di suolo”.

Un piano casa dovrebbe promuovere e finanziare la realizzazione di politiche volte principalmente a fronteggiare il disagio abitativo dei nuclei familiari più deboli. Nelle grandi città sono lunghissime le liste d’attesa per l’assegnazione di una casa popolare. A Roma al bando hanno concorso oltre 18mila famiglie, in Campania 31mila e in Lombardia più di 66mila, per meno di 5mila alloggi disponibili da assegnare. Una ricerca dell’università Bocconi, stima in circa 100mila gli alloggi pubblici che non possono essere messi a disposizione delle famiglie perché in attesa di manutenzione o ristrutturazione. I comuni, gli Iacp e le aziende casa delle regioni non hanno i fondi per farlo. Il piano casa dovrebbe iniziare a fronteggiare questa situazione. Non sembra, però, che possa essere subito operativo per realizzare obiettivi ben definiti. Infatti, “Il piano rappresenta uno strumento programmatico finalizzato a definire le strategie di medio e lungo termine per la complessiva riorganizzazione del sistema casa, in sinergia con gli enti territoriali, al fine di fornire risposte ai nuovi fabbisogni abitativi emergenti dal contesto sociale, integrare i programmi di edilizia residenziale e di edilizia sociale, dare nuovo impulso alle iniziative di settore, individuare modelli innovativi di governance e di finanziamento dei progetti, razionalizzare l’utilizzo dell’offerta abitativa disponibile”. Più che di un piano concreto, potrebbe trattarsi di nuove linee guida per futuri buoni propositi.

All’occorrenza, per elaborare le nuove indicazioni potrebbero essere utilizzati i 100 milioni di euro stanziati con la legge di bilancio per il 2024, per formulare linee guida per “la sperimentazione di modelli innovativi di edilizia residenziale pubblica”, anch’essi “finalizzati a contrastare il disagio abitativo a livello nazionale”, che è lo stesso obiettivo dello “strumento programmatico” in cui dovrebbe concretizzarsi il Piano casa Italia. Quelle linee guida dovevano essere definite entro centoventi giorni della legge di bilancio per il 2024. Non risulta che sia stato emanato il decreto del ministero che doveva contenerle (forse anche perché i 100 milioni di euro saranno disponibili solo nel 2027 e nel 2028).

Politica della casa o del lavoro?
In attesa di vedere cosa sarà il Piano casa Italia, è possibile fare qualche considerazione sulle misure fiscali per il welfare aziendale relative alla casa, contenute nel disegno di legge di bilancio.

I lavoratori assunti nel 2025 con contratto a tempo indeterminato e con un reddito da lavoro dipendente nel 2024 non superiore a 35mila euro potranno dedurre dal loro reddito Irpef fino a 5mila euro delle somme che i datori di lavoro erogano o rimborsano per il pagamento dei canoni di locazione e delle spese di manutenzione dei fabbricati presi in locazione. Si tratta di una temporanea tax expenditure. Il beneficio fiscale si applica solo per i primi due anni dalla data dell’assunzione e solo nel caso in cui il lavoratore assunto che trasferisce la sua residenza nel comune sede del nuovo lavoro, risiedesse in precedenza ad almeno cento chilometri di distanza. In alternativa alla distanza, potrebbe essere opportuno considerare il tempo che occorre per percorrere il tragitto tra il comune dell’attuale residenza del lavoratore e quello della sede del nuovo posto di lavoro. L’assenza o la carenza del servizio del trasporto pubblico, con la conseguente eccessiva lunghezza del tempo necessario per percorrere quel tragitto, potrebbe disincentivare un lavoratore a cambiare residenza almeno quanto la distanza.

Non è invece assoggettata a tutti questi vincoli la possibilità per la generalità dei lavoratori di dedurre dal loro reddito, per i periodi d’imposta 2025, 2026 e 2027, fino a mille o duemila euro (se senza o con figli) dalle somme erogate o rimborsate dai datori di lavoro per il pagamento delle utenze domestiche, dell’affitto e per gli interessi sul mutuo per la prima casa.

Queste agevolazioni, soprattutto la prima, si propongono di alleggerire l’ostacolo dell’elevato costo dei servizi abitativi, che frena la mobilità territoriale dei lavoratori. Si spera, così, di andare incontro alle richieste del mondo imprenditoriale, e anche delle società dei servizi pubblici, che non riescono a sopperire alla mancanza di figure professionali non disponibili nelle aree in cui operano.

È probabilmente più pertinente considerare queste misure tra le politiche del lavoro e non tra quelle abitative. Come si evince anche dal fatto che della loro promozione politica si occupi il ministro dello Sviluppo economico (Il Sole-24Ore, 16 novembre 2024 p. 6).

Entrambe le misure si prestano a considerazioni sia specifiche sia di carattere generale. Le agevolazioni sono limitate nel tempo. Se, come si ipotizza nella relazione tecnica alla Ddl, l’aliquota marginale media dei lavoratori dipendenti è del 30 per cento, il dipendente che riceve l’importo massimo di 5mila euro avrà un risparmio d’imposta di 1.500 euro per due anni, cioè risparmia 125 euro ogni mese. Alla fine del periodo in cui può essere applicato lo sconto fiscale, nulla garantisce che il datore di lavoro continuerà a erogare la cifra. L’ammontare massimo di 5mila euro, anche qualora fosse assoggettato a Irpef, costituisce un aiuto non trascurabile per pagare l’affitto, senza il quale il lavoratore potrebbe trovarsi in difficoltà.

Quante saranno le imprese disposte a fare le elargizioni e di che importo lo si saprà solo a consuntivo. È ragionevolmente certo, però, che non tutte lo faranno. Per quelle che vorranno contribuire al pagamento del canone dei loro dipendenti, è possibile che tale decisione interferisca con la contrattazione sindacale aziendale in materia di welfare aziendale. Già non mancano casi in cui le politiche di benefit aziendali sono promosse unilateralmente dai datori di lavoro. Per le rappresentanze sindacali aziendali diventa ancora più difficile contrastare eventuali decisioni datoriali sull’elargizione della cifra rilevante di 5mila euro, sulla quale, per di più, il lavoratore beneficia di uno sconto fiscale; anche se ciò dovesse creare disparità tra i lavoratori.

A queste sintetiche considerazioni, può essere affiancato un quesito di ordine più politico. Il coinvolgimento, oneroso, degli imprenditori nella ricerca di possibili vie per intervenire sul problema delle abitazioni è l’indizio che il settore pubblico tende a ritrarsi anche dalle politiche per la casa?

Per rispondere bisognerà aspettare la presentazione del Piano casa Italia, se mai vedrà la luce.

Raffaele Lungarella per Lavoce.info

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