di Istituto Bruno Leoni
In un Paese allergico alla concorrenza, c’è una sentenza che farà discutere. È stata pronunciata dalla Corte di giustizia europea e ha per oggetto l’annosa questione della gestione del trasporto pubblico non di linea. Alla Corte è stato chiesto, su rinvio pregiudiziale di un giudice spagnolo, se è contraria al diritto europeo, e in particolare alla tutela della libertà fondamentale di stabilimento (art. 49 Tfue), una normativa che prevede, da una parte, che per esercitare l’attività di servizi di Ncc in una città sia imposta un’autorizzazione specifica (che si aggiunge all’autorizzazione nazionale già richiesta per la fornitura di tali servizi), e, dall’altra, che il numero di licenze necessarie per l’esercizio dell’attività sia limitato (nel caso di specie, a un trentesimo delle licenze di servizi di taxi attive nella città di Barcellona).
La Corte ha risposto: dipende. Secondo una giurisprudenza costante, infatti, le restrizioni alla libertà di stabilimento sono ammesse solo se sono giustificate da un motivo imperativo di interesse generale e se rispettano il principio di proporzionalità, ossia se garantiscono la realizzazione dell’obiettivo senza eccedere quanto necessario per conseguirlo. Nel caso spagnolo, la normativa non rispettava nessuna delle due condizioni.
Tra le giustificazioni avanzate dalla città di Barcellona campeggiava quello di garantire la praticabilità economica dei servizi di taxi, ossia – più prosaicamente – di sostenere un certo livello di reddito dei tassisti. La Corte ha avuto gioco facile nel concludere che questo obiettivo non può costituire un motivo imperativo di interesse generale. Quanto alle modalità di rilascio delle autorizzazioni, la Corte ha ribadito che non possono tradursi in un doppione di controlli già effettuati né possono avere carattere discriminatorio. In particolare, la limitazione del numero di licenze è stata giudicata sproporzionata, per eccesso, rispetto all’obiettivo di corretta gestione del trasporto, del traffico e dello spazio pubblico nonché di protezione dell’ambiente. Insomma: se esistono, come esistono, misure meno lesive della libertà di stabilimento, esse vanno preferite.
I principi di diritto in parola – che si applicano a qualunque ordinamento europeo – sono una boccata di aria buona, perché rimettono ordine nel rapporto tra interessi generali e istanze private o corporativistiche, secondo una prospettiva che, come Istituto Bruno Leoni, abbiamo a più riprese difeso. Non è nulla di rivoluzionario, perché – come già detto – è ancora possibile limitare la concorrenza, purché si facciano valere buone ragioni. Ed è facile immaginare che, da questa sentenza, le autorità locali trarranno la lezione sbagliata: essere, cioè, più obliqui e meno sfacciati quando si tratta di motivare il mantenimento di certe rendite di posizione. La bontà di quelle ragioni, però, dovrà superare il vaglio di un giudice terzo e imparziale: la sentenza europea chiarisce che proteggere il reddito dei tassisti a scapito dei consumatori non è una giustificazione accettabile.
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