La libertà individuale e civile, il diritto alla propria vita, la tolleranza, la solidarietà sembrano prossimi al tramonto mentre a noi occidentali, che li abbiamo inventati, sembra non importare un granché, perché male e libertà sono intrinsecamente legati, fin dall’origine, e non possono separarsi
Ascolto da qualche giorno i Quartetti di Beethoven per fuggire dalla guerra. La stessa scimmia che li ha composti, oggi in Ucraina bombarda ospedali, uccide donne e bambini, devasta villaggi inermi. In entrambi in casi, senza alcuna ragione, né ragionevolezza: gratuiti i Quartetti, gratuita la ferocia russa. Frequentare per qualche ora al giorno questa vetta assoluta della civiltà borghese – il quartetto è una scommessa teorica, e politica: far suonare insieme quattro individui che rimangono per tutto il tempo tali: individui cioè con un proprio temperamento, morale, visione, e suono – non riesce tuttavia a consolarmi come vorrei, e anzi, mio malgrado, mi incupisce sempre più.
Questi nostri valori che il quartetto invera così bene – la libertà individuale e civile, il diritto alla propria vita, la tolleranza, la solidarietà – sembrano così prossimi al tramonto, così sdruciti e consumati: a noi occidentali, che li abbiamo inventati, non importano un granché, e anzi ovunque (ma segnatamente negli Stati Uniti, il primo paese ad averli messi in pratica) sono oggetto di un attacco sistematico, violento, radicale; il resto del mondo, un mondo immenso, non sa neppure che cosa siano, se non fra sparute élites cosmopolite.
La civiltà – la civiltà occidentale: si chétino i terzomondisti e i relativisti – è una crosticina sottile, una garza trasparente sopra una ferita purulenta che sanguina e chiede sangue. Sotto questa crosticina, oggi come sempre, vive una pericolosa, spietata, vorrei dire inumana scimmia assassina. Vorrei, ma non si può: “umanità”, statisticamente parlando, non significa solidarietà o affetto, ma stupro e sterminio e devastazione.
Mi è venuta in mente Jane Goodall, che per prima nel secolo scorso ha studiato gli scimpanzé nel loro ambiente naturale. Ha scritto libri meravigliosi, se ne è innamorata, e forse un poco li ha idealizzati: finché un giorno non ha assistito ad una battaglia furibonda fra due clan, all’esplodere di una violenza cieca ben oltre la necessità di controllare un territorio giudicato vitale, e ad un fenomeno ignoto al resto del regno animale: uccidere non per necessità, non per sfamarsi o per avere salva la vita, ma per uccidere – cioè per eliminare il proprio simile in quanto tale. Questo gene dello sterminio ci è evidentemente arrivato intatto.
E naturalmente mi è venuta in mente la Shoah, e la storia familiare su cui sto lavorando ormai da anni, e che ogni tanto devo interrompere perché è troppo, è soverchiante, piano piano toglie il respiro finché non ne resta più, e allora bisogna interrompere. La Shoah non è un caso isolato: è semmai un paradigma, un’idea platonica dello sterminio, nonché la sua realizzazione più coerente.
Il meccanismo è sempre all’opera: persone normali, persone con una vita qualunque intessuta di piccole gioie e sofferenze non sempre piccole, persone che non c’entrano niente e che improvvisamente devono scappare, vengono uccise, la loro casa distrutta, il lavoro perduto: una personale, e anonima, e irragionevole fine del mondo. Se è già accaduto, può accadere di nuovo, diceva Primo Levi. È proprio così, non c’è niente da fare.
La Genesi offre un’interpretazione del Male che a me pare ogni giorno più persuasiva. Il primo ad essersene accorto è stato Kant, l’uomo che più di ogni altro ha elevato la ragione umana. Quando Dio ci dà la libertà, ci dà anche il Male: e infatti Adamo ed Eva, non appena possono scegliere, immediatamente disobbediscono, peccano, sono esiliati (l’esilio è la condizione umana), e più tardi un loro figlio ammazza l’altro – noi, per inciso, discendiamo dall’assassino.
Male e libertà sono intrinsecamente legati, fin dall’origine, e non possono separarsi. Il Male entra nella storia dalla porta lasciata aperta dalla libertà: cioè dalla possibilità di scegliere. E quando possiamo scegliere, molti scelgono male. La gratuità, del resto, è un tipico effetto collaterale della libertà: quando scelgo di fare una cosa che non ha un tornaconto immediato – come scrivere un quartetto o bombardare un ospedale – contravvengo alla legge di necessità che governa il regno vivente, e che impone di scegliere soltanto ciò che serve al proprio bene. O, quantomeno, interpreto questa legge con una certa… libertà.
Ora che ho scritto queste cose, sono ancora più depresso. Mi spiace, non c’è niente da fare. Personalmente sono favorevole ad un intervento militare occidentale massiccio in Ucraina, a stabilire la no-fly zone, a difendere con ogni mezzo i nostri valori al tramonto (che poi sono l’unico vero motivo dell’invasione: Putin non può sopportare che altri “russi” vivano e prosperino nella libertà). Ma so anche che non servirà a molto, che dietro ogni guerra ce n’è un’altra, che siamo una specie malata.
* collaboratore de La Stampa e l'Espresso, è stato cronista politico all’Unità; ha lavorato nello staff di Massimo D’Alema, prima come portavoce e poi, a palazzo Chigi, come consigliere per la comunicazione e l’immagine.
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