Anno IX - Numero 10
Non è sufficiente parlare di pace. Bisogna crederci.
Eleanor Roosevelt

mercoledì 4 ottobre 2017

Le basi morali del capitalismo contemporaneo

Il capitalismo a livello mondiale manifesta segni piuttosto evidenti di corrosione delle sue basi morali. Alcuni dati e ipotesi interpretative al riguardo che danno spazio al ruolo delle disuguaglianze oltre che al possibile indebolimento di norme sociali e valori morali

di Maurizio Franzini

Quando il capitalismo e il mercato spuntarono all’orizzonte della storia alcuni illustri pensatori, tra i quali Montesquieu, sostennero che essi avrebbero avuto una positiva funzione moralizzatrice con vantaggio anche per la società. Il mercato, secondo Montesquieu, avrebbe educato all’onestà e alle “maniere dolci”, contrapposte a quelle “barbare” del sovrano.

Oramai molti anni fa Albert Hirschman ha ripreso, in alcuni dei suoi magistrali saggi, l’idea del doux-commerce(in Passioni e Interessi e nel saggio Rival views of market society) e l’ha confrontata con quella dell’auto-distruzione del capitalismo, come l’ha chiamata, che fu formulata negli anni ’70 da Fred Hirsch, nel suo I limiti sociali allo sviluppo. Secondo questa idea il mercato, soprattutto con la sua inclinazione individualista, mina quella stessa moralità sociale dalla quale, in fondo, dipende il suo successo.

Hirschman, con argomenti non privi di forza persuasiva, sostenne che gli effetti positivi del “dolce commercio” e quelli negativi dell’auto-distruzione possono in qualche modo coesistere, manifestandosi in paesi diversi e in periodi storici diversi. E’ probabile che anche oggi sia così, ma non vi è dubbio che molti degli eventi sui quali si sofferma quasi quotidianamente la nostra attenzione inducono a pensare che l’auto-distruzione stia avendo partita vinta e che le basi morali del capitalismo contemporaneo si stiano inesorabilmente sfaldando.

Nel fare questa affermazione non intendo, naturalmente, riferirmi soltanto al nostro paese cosi prodigo, anche di recente, di esempi che con Hirschman potremmo chiamare di self-destruction. Il problema ha una dimensione planetaria e per documentarlo mi servirò di due soli esempi. Il primo sono alcuni dati tratti da un Rapporto del Tax Justice Network: nei cosiddetti “paradisi fiscali” (che però, come suggerisce il Rapporto, sarebbe forse meglio chiamare “giurisdizioni segrete”) è custodita una ricchezza che dovrebbe oscillare tra i 21 e i 32 mila miliardi di dollari. Alla formazione di questo gruzzoletto hanno dato il proprio contributo sia i paesi avanzati (si stima che l’Unione Europea abbia fatto affluire, tra il 2000 e il 2011 circa mille e duecento miliardi) sia quelli in via di sviluppo: sempre tra il 2000 e il 2011, 4 mila miliardi sono arrivati dalla Cina e circa mille anche dalla povera Africa.

Si può ipotizzare che una parte non irrilevante di questa montagna di soldi provenga da attività non del tutto lecite, a iniziare da quelle legate alla corruzione. Anzi, si potrebbe pensare che proprio l’esistenza delle “giurisdizioni segrete” favorisca il diffondersi della corruzione, con la conseguenza che i paesi che ospitano quelle giurisdizioni dovrebbero essere considerati suscitatori di corruzione e di comportamenti illegali e perciò non meriterebbero il posto molto lusinghiero che, invece, occupano nelle classifiche mondiali della corruzione. Se le banche svizzere aiutano i loro clienti quanto meno a evadere il fisco (come prova, ad esempio, l’indagine svolta di recente dal Senato americano sulla Credit Suisse) non è forse strano che il loro paese sia considerato uno dei meno corrotti al mondo? Le basi morali del capitalismo vacillano anche dove sembrano più solide.

Il secondo esempio è quello del cosiddetto crony capitalism cioè del capitalismo clientelare che chiama in causa i rapporti tra mondo degli affari e le pubbliche amministrazioni, intese in senso lato. A questo fenomeno ha prestato attenzione l’Economist del 15 marzo scorso, con un articolo che non soltanto non lascia dubbi sul fatto che il capitalismo clientelare è un fenomeno globale, ma si impegna anche nel tentativo di misurarne gli effetti. L’indicatore utilizzato è interessante, anche se controverso. Si tratta della presenza di miliardari in dollari tra coloro che operano in settori fortemente esposti al rischio di clientelismo. Con un certo inevitabile arbitrio, l’Economist fissa a priori l’elenco di questi settori, applicandolo indistintamente a tutti i paesi, senza verificare se ricorrano sempre le condizioni per considerarli clientelari. L’elenco include: petrolio, gas e chimica; porti e aeroporti; difesa; edilizia; acciaio, miniere e altri metalli; carbone e legname; telecomunicazioni e casinò.

I paesi vengono classificati in base alla ricchezza, come quota del Pil , posseduta dai miliardari che operano nei settori clientelari. Si arriva così alla sorprendente conclusione che il paese più gravato dal crony capitalism è Hong Kong, seguito dalla Russia e dalla Malesia. L’Italia non è compresa nell’elenco, mentre gli Stati Uniti sono al 17° posto, la Cina al 19° e la Germania all’ultimo.

La metodologia adottata per giungere a questi risultati è, naturalmente, molto discutibile – e infatti è stata criticata – ma essa ha il merito di chiarire che uno degli effetti del capitalismo clientelare consiste nel permettere arricchimenti straordinari. La crescente concentrazione dei redditi in piccolissimi (e molto “fortunati”) segmenti della popolazione è un fenomeno praticamente universale e questo potrebbe dipendere dal carattere universale del crony capitalism.

L’indebolimento delle basi morali del capitalismo può essere rilevato anche a livelli molto più bassi, ma vi sono buone ragioni per pensare che questi strabilianti arricchimenti, ottenuti fuori delle regole della concorrenza “buona”, siano di cruciale importanza, perché non segnalano soltanto il già avvenuto indebolimento di quelle basi ma possono potentemente contribuire al loro ulteriore indebolimento.

In un libro del 2008 Uslaner ha sostenuto che la principale causa della corruzione (ingrediente importante del crony capitalism) è la disuguaglianza e alcuni studi empirici sembrano dargli ragione. Si può ipotizzare che sia così soprattutto se la disuguaglianza si caratterizza per la forte concentrazione al top piuttosto che per l’ampiezza delle distanze economiche su tutta la distribuzione dei redditi. In queste condizioni il “potere” di persuasione del potenziale beneficiario del clientelismo è molto forte e la conseguenza può essere l’indebolimento delle difese morali delle loro controparti, portandole alla capitolazione. Dunque, ricchezza e corruzione potrebbero sostenersi vicendevolmente.

Questa considerazione ha un’importante implicazione per la contrapposizione tra “dolce commercio” e “auto-distruzione”. Entrambe queste teorie guardano all’evoluzione dei valori morali e presuppongono, rispettivamente, che essi miglioreranno o peggioreranno con l’affermarsi del mercato. In un’analisi più completa bisognerebbe tenere conto anche di quanto “seduttive” siano le tentazioni, di come possa essere dura, cioè, la prova alla quale sono sottoposti i valori morali individuali. Le ricchezze possedute da persone con non elevatissimi valori morali possono trasformarsi in seduzioni irresistibili anche per chi non pone troppo in basso l’asticella dei propri valori. Sfortunatamente potrebbero avere ragione, in questa materia, gli economisti che analizzano i comportamenti come l’esito di un confronto tra costi e benefici. Quando i benefici materiali sono enormi il rischio che eccedano il costo di una violazione dei propri valori morali è alto.

Questo ragionamento porta a escludere che il problema sarebbe risolto se tutti i settori fossero aperti alla concorrenza e lo stato facesse un passo indietro. Non lo sarebbe perché la concorrenza richiede regole che, a loro volta, possono essere oggetto di clientelismo. Non lo sarebbe anche perché nei mercati considerati concorrenziali possono facilmente tenersi comportamenti a basso tasso di moralità che generano diffusi danni sociali. Basta ricordare cosa può accedere nei mercati finanziari o nella prestazione di servizi caratterizzati da una forte asimmetria informativa. In questi casi, invocare, come soluzione, la regolazione della concorrenza può essere del tutto velleitario.

Ma è indubbio che il tema richieda un grande approfondimento e imponga di riflettere su una vasta gamma di fattori dai quali dipendono i costi e i benefici (oggettivi e soggettivi) rilevanti per i comportamenti poco morali: i fattori che determinano i valori morali degli individui (collegati certamente alla loro formazione e esperienza); quelli che influenzano le “tentazioni” (probabilmente collegate alle disuguaglianze) che il capitalismo contemporaneo sembra aver fatto lievitare senza un parallelo allineamento dei valori morali; quelli che possono portare al disegno e all’introduzione di regole, a vari livelli, in grado di rendere meno convenienti i comportamenti poco morali; quelli che possono favorire il diffondersi di favorevoli norme sociali.

Su tutto ciò il “Menabò di Etica e Economia” intende riflettere, nella convinzione che dall’intreccio tra regole, disuguaglianze, valori morali e norme sociali, dipenda il futuro del capitalismo e, soprattutto, la possibilità che esso non ceda il passo a un sistema che assomigli pericolosamente a quell’antico regime dal quale, invece, doveva marcare un irreversibile distacco.

Maurizio Franzini per Etica ed Economia