Il numero di uomini coinvolti come spettatori immobili in storie come quella di We Are Social è enorme. Non si tratta di rendere tutti colpevoli, ma neanche ci si può nascondere dietro l’indifferenza di fronte a dati impressionanti. Fare a meno di stereotipi e pregiudizi riguardanti il genere significa far lavorare chiunque in un ambiente nel quale poter dare il meglio di sé
di Lorenzo Gasparrini
Il caso We Are Social ha generato una ridda di commenti e in molti e molte, con diverse competenze, hanno detto la loro. Poco però è stato detto di quanto quell’esempio racconti di uno specifico problema degli ambienti di lavoro, che non è inquadrabile semplicemente in un problema di “sessismo sistemico”; certamente questa è una condizione di partenza, ma la particolarità di ciò che accade tra colleghi e colleghe che condividono uno spazio di lavoro ha delle peculiarità che non sono accostabili a quello che succede nelle generiche “chiacchiere da spogliatoio”. Queste ultime sono certamente riprovevoli esempi di sessismo più o meno consapevole - vedremo che non è questo aspetto a caratterizzarle - ma il fatto che accadano tra chi condivide spazi e tempi di lavoro è un’aggravante non trascurabile. La particolare gravità del sessismo al lavoro emersa dal caso We Are Social la possiamo desumere dalle “risposte” che commentatori e commentatrici tentano di opporre alle sacrosante rimostranze sociali arrivate soprattutto da chi fa delle questioni di genere il proprio lavoro e il proprio attivismo politico.
Più di una testata ha dato risalto alla frase espressa da chi lavora nell’agenzia “We Are Social”, frase che è un luogo comune nei casi di violenza di genere: “Non siamo tutti maniaci”, ennesima versione del “raptus”, l’argomento per il quale questa condotta riprovevole sarebbe un caso eccezionale e imprevedibile dovuto appunto a un malato, un perverso o comunque a pochi casi di persone con una forma di “anormalità” di un qualche tipo. L’esperienza e la testimonianza di migliaia di donne, gli studi ormai consolidati da decenni, la raccolta di dati relativi a crimini e denunce, smentiscono questa fantasia: sono proprio uomini normalissimi a compiere questi atti, dal più efferato femminicidio, allo stupro, alla diffusione non consensuale di immagini e video intimi, come alla molestia e alla violenza verbale in ufficio.
Si tratta il più delle volte di conoscenti, vicini, parenti, amici o colleghi. Nel caso di chi lavora con le persone colpite da questa forma di violenza il caso è ancora più complesso, principalmente per due motivi: perché tra vittime e colpevoli potrebbe esserci uno squilibrio di potere (di ruolo, di anzianità, di livello aziendale) che rende ancora più grave l’effetto di quei comportamenti violenti. Inoltre, tra i presenti che sapevano, o partecipavano a quei comportamenti senza opporsi, potrebbero essersi innescati dei comportamenti omertosi dovuti alla paura di ritorsioni a lavoro. Per questo in molte aziende italiane si fanno sempre più formazioni su linguaggi e comportamenti rispettosi del genere: quella che viene spesso considerata erroneamente una “goliardata” ha pesanti conseguenze nella vita lavorativa di molti e di molte.
Quindi è del tutto fuori luogo, e forse assimilabile a una ulteriore violenza, anche l’espressione “fattela una risata”, cioè l’invito a trascurare l’effetto di comportamenti violenti o oppressivi riguardo il genere. Questa espressione vìola uno dei principi più consolidati in casi di questo tipo, cioè mettere in discussione il vissuto delle persone. Il vissuto - la sensazione di aver subito una violenza, il disagio che ne consegue, il malessere dello stare nello stesso ambiente di persone che hanno usato forme di violenza - è fondamentalmente soggettivo e perciò indiscutibile: quel vissuto va sempre creduto, non come “elemento di prova”, ma come sintomo di qualcosa di grave, cioè quello che è accaduto. Quest’ultimo sì che può e deve essere discusso, e in spazi e momenti dedicati proprio a questo proposito; un’altra situazione importante di cui sempre più aziende si stanno dotando, proprio per evitare conseguenze molto spiacevoli per qualsiasi lavoratrice o lavoratore.
Questo “accaduto” non è mai solo un comportamento verbale, perché proprio l’uso di precise espressioni riferite ai corpi, alla sessualità, alle possibili gestualità desiderate o immaginate è una violazione dell’immagine di un essere umano e non “libertà d’espressione” di chi formula quelle idee, quei desideri, quelle immagini.
Quando si leggono commenti di chi ritiene esagerato considerare chat come quella del caso We Are Social, leggiamo cose del tipo: “È come considerare assassino chi, parlando con gli amici, si augura la morte della suocera”.
La differenza tra chi uccide davvero e chi immagina di uccidere è ben chiara a chiunque, e nel caso in esame è evidente che questo paragone non c’entri nulla. Qui l’azione violenta non è immaginata ma desiderata, e la violenza sta non solo nell’attuazione di un gesto ma anche nella sua sola formulazione. Mentre nel caso della suocera (e perché non accade lo stesso del suocero, con la stessa frequenza?) si tratta di un dialogo che possiamo immaginare appunto tra amici o parenti, nel quale per l’eccesso verbale potremmo chiedere facilmente scusa o il consenso a un tale umorismo, nel caso di una comunicazione virtuale tra colleghi e colleghe quel consenso è praticamente impossibile da chiedere, e complicato da quelle questioni di potere (di ruolo, di anzianità, di livello aziendale…) già accennate.
Ecco che la semplice formulazione verbale di un abuso di potere diventa esso stesso un abuso: a quella espressione l’interessata non può opporsi, i presenti che la leggono non possono o non vogliono farlo per non avere problemi lavorativi con la persona che l’ha pronunciata o scritta, l’immaginario di un bel po’ di persone si riempie di possibilità abusanti nei confronti di colleghi e colleghe. Se già tra amici e parenti sono discorsi tossici e nocivi, in un gruppo di persone che lavora nella stessa azienda, nello stesso ufficio, nello stesso reparto, è un intreccio di poteri e di condizionamenti devastante.
Alla sacrosanta richiesta di interrogarsi più spesso e pubblicamente su questi comportamenti così diffusi, richiesta fatta soprattutto al genere maschile come quello che ne è molto più spesso protagonista, si sente da più parti la risposta che “non esiste una colpa collettiva”, “non ha senso colpevolizzare un intero genere”. Questa risposta è un’altra versione del vecchissimo e inutile - per chi si occupa professionalmente di questi problemi sociali - “not all men”. Dire che non tutti gli uomini sono come quello o quelli colpevoli di un comportamento violento o oppressivo è infatti un’inutile banalità. Inutile perché i colpevoli si accertano con altri strumenti che le voci, e banale perché, letteralmente, questa obiezione non c’entra nulla.
È ovvio che non si tratta di rendere tutti colpevoli, ma neanche ci si può nascondere dietro l’indifferenza di fronte a dati impressionanti. Il numero di uomini coinvolti in queste storie come spettatori immobili, ascoltatori muti, presenti indifferenti è enorme; come è enorme il carico di violenza che l’immagine di ciascun uomo riceve dai comportamenti non socialmente criticati che attuano gli uomini stessi. Non si tratta di fare i difensori delle donne o gli eroi della parità di genere, ma di non volere su di sé un’immagine violenta e oppressiva dovuta a comportamenti altrui. Infatti l’effetto sociale di una chat lasciata per anni a produrre sessismi, di un gruppo cameratesco che produce discorsi abusanti chiamandoli goliardia, di un ambiente virtuale o reale che si scambia immagini e opinioni su corpi femminili senza il consenso esplicito delle interessate, è la diffidenza diffusa e profonda verso tutti gli uomini.
Diffidenza della quale non si possono biasimare le donne, che continuano a non vedere uomini che si oppongono con parole o gesti a quei comportamenti, ma che anzi continuano a non assumersi una responsabilità di genere dicendo “io non sono così”. E da cosa lo si dovrebbe vedere che “noi non siamo tutti così”, se non dalla capacità di opporsi a quelle forme di abuso e di violenza quando accadono davanti a noi? Continuare a pensare che il comportamento abusante o violento di uno non sia affare nostro significa farsi arrivare addosso le conseguenze di quei comportamenti, semplicemente perché il silenzio e l’indifferenza, socialmente, sono irrilevanti: il comportamento di uno ricade come sospetto su tutti i congeneri. Tra l’altro, è un fenomeno sociale che le donne conoscono molto bene: quanti stereotipi su di loro sono generalizzazioni di un solo caso, e magari inventato o leggendario, come nel caso di Eva responsabile della cacciata del genere umano dal paradiso terrestre?
Anche contro la diffusione di queste generalizzazioni insensate, gli ambienti di lavoro sono sempre più attenti a cautelarsi. I danni provocati da decisioni lavorative prese solo per luoghi comuni, stereotipi e pregiudizi su uomini e donne causano danni economici gravi ormai accertati da decenni di studi. Indubbiamente la creatività, la voglia di lavorare, la capacità di dare il meglio in un team, sono qualità prive di caratteristiche di genere; ma le persone che hanno quelle qualità, hanno tutte un genere e un corpo diversi. Fare a meno di stereotipi e pregiudizi riguardanti il genere significa far lavorare chiunque in un ambiente nel quale poter dare il meglio di sé.
Alla richiesta di una maggiore responsabilità di genere maschile, data la condizione di privilegio data da una cultura sessista e maschilista, molti rispondono che gli uomini non hanno alcun privilegio sociale, che il patriarcato è un’invenzione e non esiste. Dati alla mano gli uomini vivono di meno, muoiono più di morti violente e sul lavoro, vanno più spesso in depressione delle donne, si suicidano molte più volte, subiscono violenza di genere anche loro. Dove sarebbe il privilegio sociale?
È incredibile come sia ancora difficile spiegare che esattamente questo pseudoragionamento è una dimostrazione di quanto sia efficace il condizionamento patriarcale. Gli uomini da secoli accettano questi dati innegabili come il loro destino, come il risultato inevitabile di una divisione di ruoli sociali legata al genere, perché “sta” all’uomo lavorare fino a consumarsi, accettare ogni rischio pur di portare il pane a casa, assumersi anche responsabilità che non gli spettano “perché così fa un uomo”, spaccarsi la schiena come missione maschile. Queste assurdità fanno ancora pensare a molti che la parità sia volere le donne in miniera o in guerra, invece di lottare tutti e tutte contro i lavori rischiosi e usuranti e la barbarie generalizzata. Queste stesse assurdità fanno passare in secondo piano un altro dato innegabile nei numeri e nella sostanza: la stragrande maggioranza della violenza di genere subita dagli uomini è causata da altri uomini che li bullizzano, li manipolano, li fanno vergognare della loro scarsa virilità anche sul luogo di lavoro; usando per questa violenza il budget non raggiunto, la consegna non rispettata, la prepotenza non mostrata, l’autorità non fatta pesare.
Questo è il dibattito che dovremmo fare come genere maschile, e non prendercela con chi, da secoli, cerca di farci vedere quello che è già sotto i nostri occhi.
Lorenzo Gasparrini per Valigia Blu
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