Taiwan è fondamentale per l’Occidente e non per motivi ideologici ma pratici. L’isola è ormai un’economia indispensabile per tutto il pianeta nella produzione dei microchip. Temendo un potenziale conflitto nell’Indo-Pacifico, le aziende Usa stanno cercando di spostare le loro produzioni, anche se a caro prezzo. Ma una guerra vera sarebbe una catastrofe e costerebbe almeno due trilioni di dollari, dicono i report. Solo per i microchip
di Pietro OrtecaIl Presidente Biden ha mandato in Cina, come messaggeri di pace, prima Blinken e poi la responsabile del Tesoro, Janet Yellen. Tuttavia, la sua ‘spalla’ più rassicurante è stata quella offertagli da Tim Cook, l’amministratore delegato di Apple che è riuscito a spostare a Phoenix, Arizona, il nuovo mega-impianto di microchip della taiwanese Tsmc. Un investimento che, solo per cominciare, sarà di 40 miliardi di dollari.
Catena globale di approvvigionamento
Oggi le industrie informatiche quelle dell’elettronica e tutti i prodotti della tecnologia di ultima generazione, funzionano grazie alle catene di approvvigionamento che partono, principalmente, dall’Asia. Cina continentale e Taiwan le prime. Solo che la divisione internazionale del lavoro è fatta con criteri squisitamente commerciali, che ovviamente non rispettano la geopolitica. Insomma, c’è bisogno della Cina e del suo basso costo del lavoro, e sostituirla diventa molto costoso. Gli intrecci produttivi e le interconnessioni nell’acquisizione delle materie prime e dei semilavorati indispensabili per la fabbricazione di microprocessori di ‘fascia alta’, sono strettissimi. Al punto da arrivare quasi a cancellare molte remore sul tema trito e ritrito della «sicurezza nazionale».
‘Silicio magico’ e mani necessarie
Il problema, secondo gli esperti dell’industria del ‘silicio magico’, è che qualsiasi prodotto elettronico particolarmente elaborato (come un i-phon) è composto da centinaia di piccoli elementi che vanno assemblati. Ci sono chip ‘nobili’ e semiconduttori ‘di servizio’, entrambi indispensabili per la realizzazione del prodotto finale. I primi sono fabbricati su progetti Usa e manodopera taiwanese. I secondi arrivano dalla Cina e da altri Paesi del Sud-est asiatico. Tuttavia, come sa ogni studente (ma, evidentemente, non ogni politico) l’economia è fatta essenzialmente di ‘aspettative’. E avere alimentato un clima da Guerra fredda, nello Stretto di Taiwan, non ha giovato a nessuno, specialmente alle imprese occidentali che producono nei settori tecnologici più avanzati. Così, riporta il Financial Times, dall’anno scorso prima hanno cominciato a chiedere un progressivo sganciamento dalla Cina continentale.
Stupidità politiche a stupire
Poi, mano a mano che il clima politico si faceva incandescente, in particolare nell’occasione della visita di Nancy Pelosi, la preoccupazione si è fatta quasi paura. Tutti volevano delocalizzare gli impianti per la produzione di microchip presenti a Taiwan. Addirittura, Hp e Dell, il secondo e il terzo produttore mondiale di computer, hanno dichiarato apertamente di avere intenzione di spostare da Taiwan le loro catene di approvvigionamento produttivo. Ancora più catastrofisti sono stati i giapponesi di Avantest. Non vogliamo pensare a una crisi bellica nello Stretto di Taiwan, hanno detto, perché in quel caso gli effetti indotti sarebbero così devastanti che potremmo definire l’evento «il giorno del giudizio dei microchip». Dal canto loro, anche due giganti come Amd e Intel non si fidano e hanno sostenuto la necessità di una diversificazione produttiva.
Il Financial Times conclude il suo report, dando una dimensione dell’impatto di un’eventuale crisi sull’economia globale: «Anche senza una guerra su vasta scala, un blocco cinese di Taiwan, per esempio, potrebbe causare gravi disordini globali».
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