di Michele Nobile
«Non c’è dubbio che il fondatore del Gruppo Wagner Evgenji Prigožin e il suo “esercito” fossero il progetto personale di Putin. Altrimenti, Wagner non sarebbe stato coinvolto nei conflitti in Africa, nella guerra siriana o nell’invasione su vasta scala dell'Ucraina. Senza l’approvazione di Putin, Wagner non avrebbe avuto accesso alle colonie penali russe per reclutare combattenti e non sarebbe stato in grado di pubblicare i propri annunci in tutta la Russia. Non ci sarebbero immagini di politici russi che tengono mazze donate da Prigožin [riferimento alla bestiale esecuzione di un membro del gruppo, ex detenuto, che si era arreso agli ucraini], e nessuna legge che proibisce di screditare i combattenti “volontari”, che costituiscono una parte delle forze di Wagner. Tutto è cambiato la mattina del 24 giugno 2023, quando il Presidente è stato costretto ad abbandonare la sua ambivalenza strategica nei confronti di Prigožin, denunciandolo invece pubblicamente come un “traditore”».
Queste considerazioni del redattore di MeduzaMaxim Trudolyubov, sito russo in Russia messo al bando, mi sembrano una buona introduzione a un ragionamento intorno all’ammutinamento di Prigožin e del gruppo mercenario Wagner. Prigožin è un farabutto, criminale di guerra a cui si può augurare la sorte peggiore. Non è altra cosa dal sistema di potere di Putin, ne incarna un aspetto in modo peculiare. Per le ragioni esposte di seguito, da molti mesi si è trovato però in una situazione sempre più difficile, a causa della peculiare posizione di capo di «esercito» ibrido tra privato e statale: qualcosa che costituisce una latente contraddizione interna a qualsiasi Stato moderno. Il fallimento politico dell’invasione dell’Ucraina ha fatto esplodere questa contraddizione. Il risultato è che Prigožin ha iniziato una campagna politica nella quale, per i suoi scopi personali, ha iniziato a dire anche alcune verità. Molto amare per Putin.
Riporto una parte del discorso con cui Prigožin ha motivato la sua ribellione:
«loro sparavano a noi e noi sparavamo a loro [in riferimento al conflitto nel Donbas]. E questo è continuato per lunghi otto anni, dal 2014 al 2022. A volte gli scambi a fuoco aumentavano, a volte diminuivano. Il 24 febbraio non c’era nulla di straordinario. Ora il Ministro della difesa sta cercando di ingannare il Presidente e il pubblico e gli racconta che c’era una folle aggressione da parte dell’Ucraina e che stavano per attaccare con l’intero blocco della Nato. E così la cosiddetta operazione speciale del 24 febbraio fu lanciata per ragioni completamente differenti Perché era necessaria la guerra?».
Prigožin continua dicendo che «la guerra era necessaria perché un pugno di stronzi» potesse conquistare l’attenzione dell’opinione pubblica mostrando quanto è forte il nostro esercito» e «Sergej Šojgu potesse diventare Maresciallo». Quindi,
«La guerra non era necessaria per far tornare i russi nel loro seno né per smilitarizzare e denazificare l’Ucraina. Era necessaria per una stella, con tutti i suoi ricami, affinché un uomo mentalmente malato potesse apparire bene nella bara. Šojgu vive secondo il principio per cui una bugia deve essere abbastanza orribile perché la gente ci creda. Si creano due differenti realtà. Sul terreno, giusto ora, oggi, l’esercito russo si sta ritirando dall’asse Zaporižžja-Cherson. Le forze ucraina stanno cacciando l’esercito russo; noi stiamo sguazzando nel sangue; nessuno ci dà alcuna risorsa. Non c’è controllo. C’è isteria, per cui il capo di stato maggiore, dopo un bicchiere di vodka, strilla come una pescivendola, come un porco al telefono, ordinando di riprendere le posizioni, e tutto ciò che i comandanti possono dire “è stato ripreso” e segna una linea rossa sulla mappa marcando alcuni chilometri più a nord di quel che è realmente oggi».
Qui Prigožin dice che in Donbas non c’era alcun genocidio, che l’Ucraina e la Nato non avevano intenzioni bellicose. In effetti, quasi il 90% delle 3.404 vittime civili in Donbas verificate fino al 2021 dall’Ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) morirono nel 2014-15 e nel 2019-21 non hanno mai superato le trenta; neanche i numeri forniti dai secessionisti cambiano il quadro: per il Donetsk, nel 2021 denunciano 7 civili e 70 militari morti. In altri termini, Prigožin dice una verità che in Russia è un crimine: che gli argomenti portati per giustificare l’invasione erano stupidaggini.
Per dare un senso a questo messaggio bisogna tener conto che la popolarità e le pretese del comandante dei mercenari dipendono dal fatto che egli rappresenta la faccia orgogliosamente brutale, selvaggia e fascistoide dell’imperialismo russo e del regime di Putin, in Ucraina, in Siria e in Africa. E in Russia. È quello a cui è stato delegato il lavoro sporco. Tra i putinisti ci sarà qualcuno che affermerà che il padrone e comandante del Gruppo Wagner si è venduto alla Cia o qualcosa del genere. In Russia, invece, nessuno dubita del nazionalismo guerrafondaio di Prigožin.
È proprio per questo motivo che a Prigožin è stato permesso per tanti mesi di attaccare duramente e impunemente il ministro della difesa SergejŠojgu, il capo di stato maggiore Valerij Gerasimov, il sindaco di Pietroburgo, parte dell’élite intorno a Putin. Per evidenziare la corruzione e l’opportunismo di questa gente Prigožin ha contestato le ragioni false per invadere l’Ucraina, certamente non la guerra in sé. Un sincero imperialista grande-russo non ha affatto bisogno d’inventarsi una minaccia per muovere alla riconquista di quelle che considera terre della Russia. Al contrario, il capo dei mercenari ha attaccato il Ministero della difesa e i corrotti burocrati perché incapaci di conseguire la vittoria e di negare al Gruppo Wagner e al suo capo, ai veri disinteressati patrioti, i mezzi per vincere. Il 24 giugno ha così replicato all’accusa di tradimento portatagli da Putin: «il Presidente si sbaglia di grosso. Siamo patrioti della nostra madrepatria. Abbiamo combattuto e continueremo a combattere. Tutti i combattenti del gruppo Wagner». Quelli che dice burocrati si appropriano dei fondi e trattano i soldati come carne da cannone, mentre bombardano i civili perché non possono colpire altri obiettivi», cedendo spazio all’esercito ucraino.
La motivazione dell’ammutinamento di Prigožin è l’intento del governo di Putin di subordinare completamente la sua compagnia militare privata all’esercito regolare. Non è da escludersi che Prigožin pensasse anche di svolgere un più ampio ruolo politico come incarnazione dell’integerrimo patriota nazionalista e antielitario, forse perfino di presentarsi alle elezioni presidenziali. Per questo gli serviva però mantenere l’autonomia del Gruppo Wagner dall’esercito e giocare la carta finto-populista della critica dei generali incapaci e del Gruppo Wagner quale vittima della corruzione.
In questo si esprimono due problemi basilari della campagna militare russa e del sistema di potere putiniano.
Il primo problema è il fallimento totale degli obiettivi politici dell’aggressione all’Ucraina. Al contrario di quel che demagogicamente sostiene il padrone del gruppo Wagner, questo fallimento politico non è la conseguenza del fatto che gli siano stati negati 200mila uomini (così diceva a maggio) e mezzi e munizioni. È, invece, il risultato della volontà di resistere del popolo ucraino e del suo esercito, nonostante la grande disparità di mezzi a confronto della svergognata «superpotenza» russa. Ancora una volta, il fallimento dell’invasione russa ribadisce che il «fattore morale», la motivazione e la determinazione, è l’arma più grande e l’anima della resistenza all’oppressione. Che può non essere sufficiente a vincere la guerra, ma in Ucraina è sicuramente sufficiente a impedire la vittoria del nemico e a logorarlo fino a farlo crollare dall’interno. La straordinaria sottovalutazione del «fattore morale» ucraino e la sopravvalutazione della potenza dei propri mezzi è la prima ragione del fallimento della prima offensiva russa, concepita come una «guerra lampo» di decapitazione del vertice politico ucraino.
A questo si aggiungono gli errori dei comandanti russi nella concezione delle operazioni e i loro errori di tattica e nella gestione integrata del campo di battaglia, e da parte ucraina un utilizzo ottimo e creativo delle scarse risorse e delle armi fornite dall’«occidente», di qualità attentamente dosata per non irritare troppo la Russia. Per le numerose lezioni che se ne possono trarre, alcune delle quali preoccupanti anche per gli Stati Uniti (per quel che gli ucraini hanno dimostrato essere possibile), le operazioni e le tattiche della guerra russo-ucraina saranno oggetto di studio per anni. Di questo dirò altrove.
Il fallimento politico dell’aggressione di Putin all’Ucraina non poteva non avere ripercussioni interne alla Russia. Una è stata la fuga di centinaia di migliaia di giovani russi per sfuggire al reclutamento, il che implica milioni di famigliari coinvolti e tanti altri giovani che volentieri avrebbero evitato l’arruolamento ma che non hanno avuto la forza o la possibilità di sottrarsi alla leva. La repressione si è abbattuta sulle proteste, anche quelle deliberatamente minuscole (al fine di ridurre il numero militanti arrestati) e, nel complesso, la popolazione russa appare inerte. Tuttavia, la contraddizione implicita nel fallimento politico dell’invasione si è manifestata clamorosamente quando ha interagito con il secondo problema: l’esistenza stessa di una formazione militare con le caratteristiche assunte nel tempo dal gruppo Wagner.
La definizione formale di compagnia militare privata non è per nulla adeguata a caratterizzare la realtà del gruppo Wagner. La crescita del numero e delle dimensioni delle compagnie militari private nell’ultimo trentennio è fatto noto e notevole. L’industria dei servizi militari è esplosa con l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti e dei loro «volenterosi» alleati. Non è noto quanti siano stati i contractorsassoldati per servire in Iraq, ma si tratta certamente di una cifra ben superiore ai 100.000. Tuttavia, il gruppo Wagner è un caso a parte.
Nello studio pionieristico Corporate warriors. The rise of the privatized military industry (prima edizione nel 2003), Peter Singer ha discusso anche i differenti modi di analizzare l’industria dei servizi militari e di classificare i servizi e le imprese attive nel ramo. Nel suo libro raggruppa queste imprese in tre categorie: imprese military provider, focalizzate sull’ambiente tattico, o impegnate direttamente in battaglia o come unità di combattimento o per la messa a disposizione di specialisti e di esperti nel comando-controllo del campo di battaglia; consultant firms, che forniscono ai clienti «analisi strategiche, operative e/o organizzative», svolgendo funzioni di consulenza in tutti i campi, compreso l’addestramento, ma che non s’impegnano direttamente in battaglia; imprese di military support, che costituiscono il settore più ampio ma meno analizzato dell’industria. Come nell’economia civile, queste imprese forniscono servizi di assistenza in campi come «logistica, intelligence, supporto tecnico, forniture e trasporto», servizi indispensabili alle forze armate ma che sono esternalizzati a imprese private specializzate perché i militari possano concentrarsi sulla loro specifica missione.
Ebbene, come si colloca il gruppo Wagner in questa classificazione? Una compagnia militare privata può svolgere un ruolo importante anche sul campo di battaglia, ma questo di norma vale per lo scontro con forze irregolari, comunque non dotate dei sistemi d’arma più potenti, per i Paesi più poveri e dagli apparati statali poco sviluppati. Ad esempio, è difficile immaginare che un comando degli Stati Uniti affidi a una compagnia militare privata il compito di sconfiggere forze armate regolari e pesantemente armate, in battaglie come quella per Bakhmut. Per dimensioni, armamento e compiti operativi il gruppo Wagner rassomiglia di più a un piccolo esercito. E però, benché moderno, il gruppo Wagner è - o era fino al termine dell’ammutinamento - qualcosa di simile a un esercito feudale, nel senso d’essere fedele a un signore della guerra distinto dal sovrano; un esercito dentro un esercito più che un’unità militare integrata e pienamente subordinata a un comando centrale. Un piccolo esercito capace di abbattere aerei ed elicotteri, ammazzando nell’ammutinamento almeno tredici aviatori russi. Anche i termini della rivolta di Prigožin ricordano l’accusa di fellonia del vassallo al suo signore, motivo di legittima rottura del vincolo feudale. In questo caso ad essere accusato non è direttamente Putin, che sarebbe stato «ingannato».
Nell’improbabile caso l’ammutinamento avesse avuto successo, la sostituzione del Ministro della difesa e di altri uomini al vertice delle forze armate e degli apparati di sicurezza sarebbe stato l’equivalente di un colpo di Stato, in cui il potere reale di Putin sarebbe stato molto ridimensionato. Tuttavia, il gruppo Wagner non è propriamente un apparato statale ma qualcosa di ibrido, la ragione per cui ho detto che ha qualcosa di modernamente feudale. È un ossimoro che corrisponde però alla peculiarità del capitalismo e dell’imperialismo russo.
Nel capitalismo oligarchico russo il confine tra impresa privata e statale è molto fluido. La peculiarità dei gruppi finanziari e industriali del capitalismo russo è infatti proprio la sovrapposizione potere politico ed economico (come in Cina) e di mezzi di lotta economici ed extraeconomici, in una misura e in modi tali che nei capitalismi più avanzati «occidentali», porterebbero direttamente alla galera con gravissime imputazioni, anche di omicidio (in Cina, invece, il Partito unico di Stato ha una funzione di arbitraggio e coesione carente in Russia). In particolare, oltre la censura legale e informale, è straordinaria la quantità di casi noti di giornalisti bersagli di violenza, ricatto ed omicidio, a un livello da dittatura di Paese sottosviluppato.
La carriera personale dell’ex galeotto Prigožin e la vicenda del gruppo Wagner incarnano questa peculiarità del capitalismo russo. Nei primi anni ottanta del secolo scorso, in Unione Sovietica, Prigožin venne condannato a tredici anni di lavoro forzato per furto, frode, rapina e prostituzione; di questi ne scontò nove. Nei primi anni novanta fu implicato nel gioco d’azzardo, associandosi a un importante gruppo criminale e accumulando milioni di dollari, quando Putin era a capo del comitato per gli affari internazionali di Leningrado, al servizio del sindaco Anatolij Sobčak. All’inizio del nuovo secolo Prigožin venne introdotto nel circolo più vicino al Presidente russo, ricavandone cospicui vantaggi grazie alle commissioni statali, anche nella ristorazione, da cui il nomignolo di «cuoco» di Putin. In particolare, divenne amico di Victor Zolotov, già guardia del corpo del sindaco di Pietroburgo, spalla di Putin negli allenamenti di judo, dal 2018 a capo della Guardia nazionale russa (Rosgvardija) e membro del Consiglio di sicurezza della Russia. Questi dettagli sono sufficienti per caratterizzare Prigožin come uno dei nuovi ricchi che hanno fatto fortuna grazie al crollo dell’Unione Sovietica e, specialmente, attraverso uno stretto rapporto con apparati statali e criminali.
Quanto sopra vale anche per il gruppo Wagner. Fatto bizzarro considerando l’importanza di questo gruppo, l’articolo 359 del Codice penale russo proibisce la formazione di compagnie militari private4. Il paradosso dell’esistenza del gruppo Wagner - e altre simili compagnie - si risolve considerando la delega funzionale di cui esso è stato investito dal governo russo: di fungere come apparato militare al servizio dell’imperialismo statale russo (nel 2014 in Ucraina, poi in Siria, Sudan, Libia, Mali, Mozambico, Repubblica centrafricana, probabilmente in altri Paesi, azioni di guerra elettronica contro i Paesi «occidentali») nello stesso tempo permettendo di negare un coinvolgimento diretto del governo russo. E permettendo anche a Prigožin di arricchirsi: voci difficile da verificare, almeno nell’esatta entità, ma pare che il gruppo Wagner possa appropriarsi di un quarto della ricchezza petrolifera nelle zone della Siria in cui è presente e che stesse costituendo analoghi interessi economici nel Donbas occupato.
Quando ho letto la notizia dell’ammutinamento di Prigožin il mio primo, istintivo pensiero è stato: «i fascisti russi si scannano tra loro, ottimo!» E poi, «fascismo-movimento» contro «fascismo-regime»? Tuttavia, queste associazioni spontanee sono idee sbagliate.
È vero che quella di Putin è oramai una dittatura con connotati reazionari. Tuttavia, ideologicamente è un pasticcio postmoderno che combina riferimenti alla tradizione zarista e a quella sovietica. Non è né per genesi né per struttura un regime fascista. Del resto, seguendo una tradizione sovietica, «fascista» è una etichetta che in Russia può essere facilmente appiccicata a qualsiasi oppositore. I riferimenti di Putin alla Grande guerra patriottica contro l’invasore tedesco e la retorica pseudo-antifascista non hanno nulla a che fare con l’antifascismo, ma si inscrivono nell’apologia dello Stato autoritario come presunto carattere proprio della Madre Russia e del suo eterno «spirito» metafisico. Tuttavia, questa retorica che nobilita lo zarismo, condanna Lenin ma simpatizza con Stalin quale nuovo zar che ricentralizzò la Russia elevandola allo status di potenza mondiale, riesce ad abbagliare l’antimperialismo imbecille e hitlerocomunista (quello che giustifica e ripercorre la logica del Patto fra Hitler e Stalin nel 1939, detonatore della Seconda guerra mondiale e che giustifica in nome dell’antiamericanismo qualsiasi schifezza concepita nel Cremlino).
Putin non è un Mussolini per il semplice fatto che deve tutto al presidente Boris El’cin: non è asceso al potere scatenando un’offensiva antisocialista e antioperaia (in Russia non esisteva alcun pericolo sovversivo) né con un movimento extraistituzionale. Fu designato da El’cin e sostenuto dai grandi oligarchi.
Oltre che per le sue caratteristiche concrete e ideologiche, Prigožin e il gruppo Wagner hanno effettivamente qualcosa di fascistoide. Trovo sbalorditivo che si sia dedicata tanta attenzione all’ucraino battaglione Azov (ora molto «ripulito» e operativamente totalmente subordinato al comando ucraino) rispetto al gruppo Wagner, infinitamente più pericoloso, tanto che si può identificare come l’entità fascistoide più temibile vista in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Al confronto con le capacità militari e l’armamento del gruppo Wagner, le camicie nere della marcia su Roma erano ragazzini inermi. Benché fallimentare, la marcia su Mosca del gruppo Wagner ricorda quella delle camicie nere più che un colpo di Stato.
I fintopacifisti ora possono affrettarsi a dire: «Guardate, Putin non è il peggior governante possibile in Russia, e quindi bisogna fare subito la pace per evitare che salgano al potere personaggi come Prigožin». Fatte le proporzioni, dunque Hermann Göring meglio di Adolph Hitler? La logica del meno peggio è speculare a quella del tanto peggio, tanto meglio, anche perché di meno peggio in meno peggio non si fa che peggiorare: entrambe conducono al disastro.
È la ragione dell’autodistruzione di Rifondazione comunista e dello stato miserrimo della sinistra italiana, che pare non riuscire a liberarsi di questa patologia senile. Nel caso dell’Ucraina, bisognerebbe accettare, come meno peggio, la sottomissione diretta di parte del popolo ucraino alla dittatura russa e che l’Ucraina non possa decidere del proprio destino. Gli hitlerocomunisti, invece, pur condividendo le (demagogiche) critiche di Prigožin ai burocrati corrotti (che non sono critiche al sistema oligarchico, di cui Prigožin è parte integrante) e auspicando la vittoria dell’invasione imperiale, prendono le distanze dal capo di Wagner perché ha esagerato. Come Putin, questi ripetono il ritornello della destra nazionalista tedesca, culla del nazismo, agli spartachisti: la leggenda della «pugnalata alle spalle».
In conclusione, quel che dice la tragico-comica avventura dell’ammutinamento di Prigožin è che il regime di Putin è instabile. Lo zar non è ancora in mutande, ma sta perdendo pezzi.
Il fallimento politico-militare dell’invasione dell’Ucraina ha scontentato parte dell’estrema destra russa, che però, nel complesso, non può prescindere dal sostenere lo sforzo militare. Il perdono concesso agli ammutinati ha probabilmente la motivazione di non spingere questa destra estrema verso l’opposizione aperta. È però anche significativo che il compromesso sia stato mediato dal presidente bielorusso, il tiranno Lukašenka, che probabilmente se lo giocherà per avere maggiore autonomia da Putin. È pure significativo che l’ammutinamento sia stato possibile e che sia stata occupata Rostov: mostra una falla notevole degli apparati di sicurezza governativi, come pure la penetrazione della frontiera russa nel distretto di Belgorod da parte di una formazione di russi che combattono per l’Ucraina.
L’estrema destra russa è scontenta e divisa. L’esercito d’invasione subisce l’iniziativa della resistenza ucraina e il suo morale è bassissimo. Putin non osa lanciare una vera e propria mobilitazione generale, perché sa che anche il morale della popolazione è basso, che sta pagando in vite e difficoltà economiche la mania di grandeur del Cremlino e che la pazienza ha un limite. L’ammutinamento del gruppo Wagner non ha suscitato appoggi nella popolazione civile.
Non faccio pronostici. Si può però dire che la tensione in Russia sta crescendo.
Le guerre non si vincono solo sul campo di battaglia. Si vincono anche perché fanno esplodere le contraddizioni interne all’aggressore. L’augurio è che ulteriori sconfitte dell’esercito d’invasione di Putin possano svegliare il popolo russo e che esso si liberi di Putin e dei Prigožin.
Michele Nobile per Utopia Rossa
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