di Rony Hamaui
In che direzione andranno i mercati finanziari dopo che le principali banche centrali hanno deciso di aumentare i tassi d’interesse al fine di debellare un’inflazione che nessuno aveva saputo prevedere e di cui adesso nessuno sa stimarne la portata e la durata?
La domanda è ancora più difficile se pensiamo che il ciclo economico, dopo il forte rimbalzo dello scorso anno, mostra segnali di rallentamento sotto il combinato disposto dell’inflazione, che erode il potere d’acquisto delle famiglie, e dei persistenti problemi in molte importanti catene di approvvigionamento. A questo, si uniscono le forti tensioni geopolitiche che vanno dall’Ucraina all’Iran, dalla Corea alla Cina, le incertezze legate all’evoluzione della pandemia e gli straordinari debiti accumulati dalle imprese e dagli stati. Insomma, uno scenario di fortissima incertezza come non se ne vedevano da decenni.
Tradizionalmente, nel mondo anglosassone la regola d’oro di allocazione della ricchezza prevede che il 60 per cento del portafoglio debba essere investito in azioni, che offrono un più alto rendimento, ma hanno anche una maggiore rischiosità, e il 40 per cento debba essere collocato in obbligazioni, a rendimento inferiore, ma a minore volatilità. La logica sottostante è che i prezzi delle azioni e delle obbligazioni siano correlati negativamente (quando uno sale, l’altro scende) e questo bilancia i rischi e i rendimenti del portafoglio.
Ovviamente, tali percentuali variano a seconda dell’età dell’investitore, della propensione al rischio e di una serie di variabili socioeconomiche: gli anziani e i meno benestanti, per esempio, tendono ad investire di più in attività meno rischiose. Nell’ultimo decennio, i tassi d’interesse vicini allo zero o negativi hanno poi spinto gli investitori verso attività più rischiose. Anche gli italiani, tradizionalmente amanti dei titoli di Stato (vi ricordate dei “Bot people”?), si sono avvicinati al modello anglosassone.
La correlazione negativa tra i prezzi delle azioni e quello delle obbligazioni vale tuttavia solo nei periodi di bassa inflazione, quando un’espansione economica o investitori ottimistici fanno salire i valori delle azioni e scendere i prezzi obbligazionari (salire i rendimenti), mentre l’opposto succede durante i periodi di recessione o di riduzione del rischio. Oggi, tuttavia, ci troviamo in una situazione di alta inflazione, dove sia i prezzi delle azioni che delle obbligazioni tendono a scendere, poiché i rendimenti reali si abbassano.
Per esempio, negli Stati Uniti, con i rendimenti delle obbligazioni governative a dieci anni sotto al 2 per cento e un’inflazione al 7,5 per cento, i rendimenti reali dei Treasury sono del -5,5 per cento, cosa che non succedeva da decenni. Questo spinge in alto i tassi d’interesse, che a loro volta fanno cadere le borse. Così la correlazione tra prezzi delle obbligazioni e delle azioni diventa positiva.
La volatilità dei mercati risulta poi accentuata dal bassissimo livello di partenza dei tassi d’interesse (un aumento di 100 punti base dei rendimenti obbligazionari a lungo provoca un calo del 10 per cento del loro prezzo) e dall’altissimo livello dei prezzi dei principali mercati azionari (oggi il rapporto fra prezzi e utili attesi è quattro volte più alto di quanto fosse all’inizio degli anni Ottanta). Così non ci stupiamo che il 3 febbraio il titolo Meta (ex Facebook), che capitalizzava quasi mille miliardi (non proprio una small cap), ha perso in poche ore un terzo del suo valore sulla notizia che le prospettive del gruppo erano meno incoraggianti di quanto atteso. Ugualmente spaventosa è la volatilità e la scarsa liquidità osservata sul mercato dei titoli governativi.
In questa situazione, è opinione generale che vadano privilegiati gli investimenti in beni reali, in titoli obbligazionari a breve (oramai negli Stati Uniti la curva dei tassi si è molto appiattita) e in azioni value (quali banche e utility) rispetto ad azioni growth (come le aziende tecnologiche), che soffriranno di più dal rialzo dei tassi d’interesse. In generale, è probabile che in questa situazione l’attività di stock-picking diventi più rilevante, così come le gestioni attive possano ritrovare una loro ragione di esistere rispetto a quelle passive. In gergo come dicono gli economisti: “alfa is back.” a sottolineare come i rendimenti vadano cercati nei singoli titoli e non nelle tendenze di mercato.
In questo contesto, le aziende che daranno le maggiori soddisfazioni ai loro azionisti sono quelle dotate di un certo potere di mercato, cioè quelle che riusciranno a traslare sui prezzi i maggiori costi di produzione, difendendo i loro margini.
I tassi di cambio dipendono, invece, quasi esclusivamente dalle politiche monetarie relative dei diversi paesi. Dalla crisi del 2008, con tassi d’interessi ovunque vicini allo zero, la volatilità sui mercati dei cambi è risultata estremamente bassa, così che qualcuno ha parlato addirittura di un Bretton Woods 2, cioè di un regime di cambi praticamente fisso.
Con l’uscita dalla crisi pandemica, tuttavia, la situazione potrebbe cambiare. Da un lato abbiamo la Bank of England, che ha già aumentato due volte i propri tassi di riferimento, e la Fed, che si appresta a un aumento seriale dei fed-fund; dall’altro la Bce, che appare più riluttante. Questa situazione porterebbe ad una rivalutazione del dollaro, che già parte da una posizione di forza. Tuttavia, è nostra opinione che difficilmente la Bce potrà mantenere i suoi propositi di non aumentare i tassi d’interesse per tutto il 2022, sia perché molto difficilmente l’inflazione europea ritornerà velocemente vicino al 2 per cento, facendo aumentare le pressioni esercitate da alcuni suoi membri a far rispettare il suo mandato, sia perché è difficile che l’operato della Fed non eserciti una forte influenza sulla politica monetaria di tutti i paesi del mondo inclusa l’Europa.
Ossia: “quando la Fed starnutisce il resto del mondo prende il raffreddore”.
Rony Hamaui per Lavoce.info
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