Nel corso della seduta del 7 febbraio, i mercati dei titoli di stato europei si sono svegliati di pessimo umore. Dopo i commenti in conferenza stampa di Christine Lagarde, ormai quasi abbonata a compiere gaffes che devono in seguito essere corrette, con fatica. Sempre che di gaffes si tratti. Dopo essersi espressa in termini non troppo lineari, del tipo “siamo molto preoccupati per questa inflazione ma siamo tranquilli”, e aver rifiutato di escludere che nel 2022 la Bce procederà al primo rialzo dei tassi, la francese ha aggiunto che la Bce ha gli strumenti per gestire eventuali allargamenti degli spread. Che non è chiaro cosa significhi, operativamente, visto che di mezzo c’è un dettaglio chiamato rischio di credito.
Un concetto pronunciato da colei che aveva praticamente esordito al timone dell’Eurotower con altra frase destinata a finire nella galleria dei danni, “non siamo qui per chiudere gli spread”, che sembra quasi mutuata dal bersanese, tra mucche in corridoio, bambole da pettinare e scogli da asciugare.
Come che sia, durante il fine settimana il governatore della banca centrale olandese, Klaas Knot, aveva preso posizione prevedendo (cioè chiedendo) un primo rialzo dei tassi nel quarto trimestre di quest’anno. Ma soprattutto chiedendo preliminarmente la rapida conclusione degli acquisti di titoli da parte della Bce.
Da marzo, termine del programma di acquisti pandemico (Pepp), si torna a quello pre-pandemia, detto App, con 40 miliardi al mese nel secondo trimestre, 30 nel terzo e tornando a 20 miliardi al mese nell’ultimo trimestre del 2022, ma senza mettere fine al programma, che resta “aperto”. E reinvestendo cedole e rimborsi dei titoli comprati con il Pepp almeno sino al 2024.
“Per toccare il freno bisogna prima togliere il piede dall’acceleratore”, ha scolpito l’olandese dando prova di quel senso comune che ormai è evaporato un po’ ovunque. Ovvio che i mercati andassero a punire i paesi con maggiore indebitamento, segnatamente l’Italia, che peraltro ha anche un mercato dei titoli di stato molto liquido, usato dagli investitori per scommettere su tendenze più generali sui tassi in Eurozona, nei due sensi. E quindi, ieri lo spread ha toccato i 163 punti-base.Lo scrivo da tempo immemore: l’Italia è un asset ad alto beta, cioè alto rischio e rendimento. Quando sui mercati c’è propensione al rischio, i nostri Btp sono ricercati. All’opposto, sono scaricati. Come accade a un paese emergente. Non c’è alcun complotto, credetemi.
Bce idrovora di Btp
Piuttosto, a nessuno ormai sfugge che la Bce è stata, in questi anni e soprattutto negli ultimi due, il compratore decisivo del nostro debito pubblico. L’azione di Francoforte ha accomodato i
deficit dei paesi dell’Eurozona durante la pandemia, soprattutto il
nostro. Consentendo alla nostra politica di credere che fossimo entrati
nell’Era della Stampante. Pare non sia così, peccato.
Ma come, diranno i più smagati o maliziosi tra voi, quindi Draghi non ci protegge più? Draghi, da presidente della Bce, ha evitato che il nostro paese facesse
il botto. Da premier, in molti hanno creduto potesse giocare un ruolo
altrettanto decisivo, a pandemia alle spalle, per modificare il patto di
stabilità e crescita.
Sarà molto probabilmente così ma serve capirsi sul senso delle parole e dei concetti. Se “ruolo decisivo” vuol dire che Draghi deve
ottenere che la Bce raccolga tutto il deficit italiano permettendo ai
nostri politici e sindacalisti di stare sdraiati sul triclinio a suonare
la lira (o meglio, l’euro), duole deludervi: Draghi non può farlo né
riesce a camminare sulle acque.
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