Anno IX - Numero 9
Ci sono due modi di essere imparziali: quello dello studioso e quello del giudice.
Marc Bloch

martedì 20 marzo 2018

La prossima crisi in Eurozona? La sostenibilità del debito pubblico

Un commento di Daniel Gros, economista direttore del think tank Center for European Policy Studies (Ceps), apparso nei giorni scorsi su Project Syndicate, evidenzia le mutazioni intervenute nell’economia dell’Eurozona dopo la Grande Crisi, e suggerisce cosa fare per prepararsi as affrontare la prossima, quella che potrebbe colpire singoli membri dell’area. Un’analisi interessante che giunge ad una considerazione di fondo: nessun problema prevalentemente domestico potrà mai essere gestito con un sistema di prestiti o trasferimenti dall’estero

di Mario Seminerio

Il punto centrale dell’analisi di Gros è che, dopo la crisi, anche i paesi della periferia dell’Eurozona, con l’eccezione della Grecia, registrano crescenti avanzi delle partite correnti. Stanno quindi ripagando il debito estero, in caso ne avessero, e di conseguenza soffrirebbero meno in uno scenario di rialzo internazionale dei rendimenti. Questo è un quadro dipinto con grandi pennellate, ovviamente: Spagna e Portogallo, pur avendo migliorato negli ultimi anni la loro posizione netta sull’estero, restano importanti debitori.

Questo è il trionfo in Eurozona del modello tedesco, quello che punta ad un forte settore estero e ad avanzi importanti delle partite correnti.
Un modello esposto a rischi, in questa congiuntura internazionale dove le pulsioni protezionistiche crescono. Prendiamo tuttavia questa considerazione come un dato, ed analizziamo, con Gros, che tipo di crisi attendersi e che strumenti serviranno per gestirla.

La precedente crisi ha dinamiche ormai note. Grandi afflussi di capitali in paesi periferici hanno prodotto pressioni inflazionistiche, e dirottato risorse dall’export ai consumi interni, producendo posizioni fiscali pubbliche tanto forti quanto illusorie. Perché? Perché sulle importazioni gli stati incassano l’Iva, sulle esportazioni la rimborsano. Quando i flussi finanziari si sono bruscamente invertiti (sudden stop), è servita una svalutazione interna, che spostasse nuovamente risorse verso l’export, rimuovendo l’eccesso di import. Il risultato, per i paesi della periferia, è stata una profonda recessione. La Grecia è stata distrutta dal fatto che i suoi deficit fiscali, nel corso degli anni, sono stati finanziati con afflussi di capitali esteri, come tipicamente si faceva nei paesi emergenti.

Oggi un’eventuale crisi non avrebbe più la stessa origine, perché la posizione aggregata delle partite correnti fa di quasi tutti i paesi dell’Eurozona degli esportatori netti di capitali, non degli importatori. La prossima crisi, quindi, non avrà la stessa provenienza della precedente ma potrebbe derivare, ad esempio, da dubbi degli investitori in titoli di stato circa la sostenibilità del debito pubblico di un paese, cioè delle sue prospettive di crescita.

Se le cose stanno secondo queste premesse, non ha senso creare un Fondo Monetario Europeo (FME) dall’attuale ESM, a immagine e somiglianza del Fondo Monetario Internazionale, perché quest’ultimo ha un modus operandida sempre molto preciso: aiutare i paesi in crisi di bilancia dei pagamenti. Quelli che hanno perso competitività, e che nel passato hanno finanziato deficit pubblico soprattutto con afflussi di capitale estero “caldo”, quello più volatile, che fugge più rapidamente quando le cose vanno male. La ricetta del FMI era sempre quella: distruggere domanda interna per riequilibrare le partite correnti e ripagare il debito esterno.

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