Anno IX - Numero 12
La guerra non è mai un atto isolato.
Carl von Clausewitz

martedì 11 luglio 2017

Chi ruba il lavoro ai giovani

Gli economisti discutono se l’allungamento dell’età pensionabile riduca le nuove assunzioni. Ma il punto è se si sceglie come obiettivo la piena occupazione o si accetta un’organizzazione sociale che sconta che ci siano disoccupati.

di Carlo Clericetti

«È una società stolta e miope quella che costringe gli anziani a lavorare troppo a lungo e obbliga una intera generazione di giovani a non lavorare quando dovrebbero farlo per loro e per tutti». Le parole del Papa hanno rilanciato un dibattito che impegna da tempo economisti, politici e sindacalisti. Gli anziani tolgono il lavoro ai giovani? Le due posizioni contrapposte, di chi ne è convinto e di chi lo nega, hanno ancora i loro militanti, specie tra gli economisti con indefettibili convinzioni ideologiche (come il direttore dell’Istituto Bruno Leoni, Alberto Mingardi), ma oggi sembrano tendere a un compromesso, come mostra nella sua ottima rassegna sull’argomento Nicola Salerno (economista che lavora all’Ufficio parlamentare di bilancio).

La posizione a cui il Papa ha dato voce non ha bisogno di spiegazioni. Ma cosa replicano i sostenitori dell’altra tesi? Affermano che il numero dei posti di lavoro non è limitato,
e citano a loro sostegno ricerche fatte su lunghissimi periodi (35 anni quella citata da Salerno) che dimostrerebbero l’insussistenza dello “spiazzamento”. In più – aggiungono – mandare in pensione prima i padri significa addossare ai figli la spesa per il loro mantenimento, “perché è la popolazione attiva che paga per chi attivo non lo è più” (Mingardi).

La posizione intermedia emersa di recente si basa su due ricerche fatte dopo l’ultimo innalzamento dell’età pensionabile, quello della “riforma Fornero”. Entrambe concludono che lo spiazzamento c’è stato eccome: “un rinvio di cinque anni-lavoratore (ad esempio un lavoratore bloccato per cinque anni o due lavoratori bloccati per due anni e mezzo, etc.) implicano un giovane assunto in meno”. E dunque, anche se nel lunghissimo periodo non sembrano emergere effetti negativi, nel breve e in determinate condizioni dell’andamento dell’economia questi effetti si possono produrre, e in Italia è accaduto proprio questo. D’altronde, chi avesse seguito le rilevazioni dell’Istat negli ultimi anni ha ben potuto vedere che l’occupazione, quando aumenta, aumenta soprattutto nella classe di età oltre i 55 anni, mentre i dati sulla disoccupazione giovanile continuano ad essere catastrofici. (C’entrano naturalmente anche i fattori demografici, come mostra uno studio di Leonello Tronti e Andrea Spizzichino: ma questo può essere considerato un aspetto specifico del problema generale).

Tutte queste ricerche, però, hanno in comune un presupposto metodologico. Esaminano uno o più paesi, scelgono le variabili da osservare o da neutralizzare, applicano complesse formule matematiche e poi traggono le conclusioni. Del tutto fuori dal campo di ricerca resta la logica che ha generato quelle situazioni. L’organizzazione della società viene assunta come data, gli studi riguardano il modo in cui si muovono le variabili nell’ambito delle varie situazioni esistenti. Ma che succede se si agisce su una variabile dell’organizzazione sociale?

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