Anno IX - Numero 12
La storia insegna, ma non ha scolari.
Antonio Gramsci

martedì 7 marzo 2017

Come vedono i conti dell'Italia a Bruxelles: male

Il rapporto della Commissione europea sui conti pubblici non fa sconti. Ricorda che la flessibilità ha un limite, coincidente con la necessità di finanziare i cali delle imposte con riduzioni di spesa o almeno far ripartire le riforme. Altrimenti si rischia la procedura di infrazione per deficit eccessivo. Un rapporto che punta il dito sul troppo debito pubblico.

di Francesco Daveri

Il negoziato in atto tra Roma e Bruxelles sui conti pubblici italiani si è arricchito di un altro capitolo. La Commissione europea ha pubblicato un rapporto di ventiquattro pagine in attuazione dell’articolo 126 del trattato che regola il funzionamento della UE. L’articolo 126(2) assegna alla Commissione il compito di monitorare il rispetto della disciplina fiscale da parte degli Stati membri dell’Unione sulla base dei “parametri di Maastricht”, secondo i quali il deficit pubblico deve rimanere al di sotto del 3 per cento del Pil e il debito pubblico al di sotto del 60 per cento del Pil o mostrare un soddisfacente avvicinamento verso tale valore. Se uno dei due criteri non viene rispettato, per l’articolo 126(3) del trattato, la Commissione scrive un rapporto che documenta il perché e il per come dello sforamento, in modo da istruire la pratica per un’eventuale procedura di infrazione per deficit eccessivo.
Le ventiquattro pagine del rapporto della Commissione sull’Italia sono il primo passo della procedura, un cartellino giallo per il paese che ne è oggetto.
Il rapporto riassume in poche tabelle i dati utili a valutare la coerenza dei conti pubblici italiani con i criteri di Maastricht (e gli altri vincoli sugli aspetti strutturali dei conti pubblici imposti dal Fiscal compact).
In sostanza, il deficit dell’Italia è rimasto sotto o uguale al 3 per cento dal 2012 fino a scendere al 2,4 per cento con cui (probabilmente, il dato ufficiale non c’è ancora) si è chiuso il 2016. Il suo rapporto debito-Pil è invece sempre aumentato dal 2007, quando scese al 99,8 per cento, fino a sfiorare il 133 per cento nel 2016. I dati degli ultimi anni descrivono dunque un deficit in lento calo e un debito in via di stabilizzazione (ma non ancora stabilizzato) 73 punti al di sopra dell’obiettivo tendenziale di Maastricht. L’azzeramento del deficit, mai negato come obiettivo nei documenti ufficiali dei governi italiani (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi), è sempre stato collocato nell’ultimo anno dell’orizzonte di programmazione, salvo poi essere spostato nel tempo in corso d’anno, fino al documento ufficiale successivo.

Le due alternative: bagno di realtà o procedura per deficit eccessivo
Nel suo rapporto, la Commissione, riconoscendo gli sforzi dei governi passati, ricorda anche le attenuanti che il nostro paese ha richiesto (per l’asprezza della recessione 2012-13, per finanziare gli investimenti pubblici compresi nel piano Juncker, per l’emergenza rifugiati, per i terremoti del Centro Italia), ne quantifica l’entità e lo “sconto” a cui hanno dato luogo nella valutazione dei nostri conti pubblici. Ma poi conclude indicando ciò che i trattati richiedono all’Italia in termini di aggiustamento fiscale per il 2017 e in futuro.
L’insoddisfazione della Commissione ha tre cause: la normalizzazione dell’economia, l’attenuarsi della spinta riformatrice e le promesse non mantenute. Il ritorno della crescita del Pil e dei prezzi -ambedue all’1 per cento (decimale più decimale meno) – indica che, sia pure con ritardo rispetto agli paesi europei, la strada della normalizzazione è stata intrapresa anche nell’economia italiana. Ma proprio la normalizzazione è un macigno su altre richieste di attenuanti e di eccezioni nella valutazione delle politiche pubbliche italiane.
La UE ci obietta anche che nella seconda metà del 2016 ha perso vigore lo sforzo riformatore che aveva toccato l’apice con l’approvazione del Jobs act e delle misure fiscali di accompagnamento (80 euro e decontribuzione sui neo-assunti a tutele crescenti). Conta la sconfitta nel referendum costituzionale (menzionata nel rapporto), ma conta ancora di più l’affievolirsi dell’iniziativa riformatrice nei tanti capitoli aperti dal governo Renzi di cui si è persa traccia negli ultimi mesi. E poi ci sono le promesse sulla riduzione del deficit puntualmente disattese anno per anno, ben oltre i margini di flessibilità richiesti e ottenuti.
Al netto dei suoi aspetti tecnici, il rapporto della Commissione ricorda che le regole fiscali sono necessarie dentro a un’unione monetaria. Se non piacciono, possono essere cambiate, trovando l’accordo di tutti i paesi membri. Ma, finché ci sono, vanno rispettate. Le si può rispettare sfruttando temporaneamente i margini di flessibilità esistenti. Poi basta: viene il momento in cui l’algebra detta le cose da fare alla politica. La strada seguita negli ultimi anni – quella di rabberciare manovre e leggi di bilancio che rispettano i vincoli con finte clausole di salvaguardia, lotte contro l’evasione e rinvii nei tagli di spesa – non c’è più. C’è da scegliere tra il racconto della verità, cioè che si possono ridurre le tasse solo tagliando la spesa pubblica in modo commisurato o almeno attuando riforme efficaci. Oppure c’è la procedura di infrazione per deficit eccessivo. In questo caso, sarà bene predisporre misure preventive (ad esempio clausole di salvaguardia vere e centrate su tagli automatici e lineari di spesa) che rendano meno invasiva possibile l’inevitabile intrusione dell’Europa nella gestione dei nostri conti pubblici. Dal prossimo Documento di economia e finanza si vedrà quale delle due è l’alternativa preferita dal governo italiano.

Francesco Daveri per Lavoce.info