Anno IX - Numero 10
Non è sufficiente parlare di pace. Bisogna crederci.
Eleanor Roosevelt

martedì 27 dicembre 2016

Ritorno al protezionismo: ecco dov'è il paradosso

Nel mondo tira un’aria preoccupante di rifiuto del libero scambio. Brexit e Trump sono i sintomi di una nuova forma di nazionalismo. Che respinge gli accordi di libero scambio e promuove l’innalzamento di barriere. Un paradosso, dato che la globalizzazione ha abbattuto la povertà estrema.

di Claudio Dordi e Alessandra Moroni

Brexit, l’elezione di Trump e le inquietudini in numerosi stati della Ue sono i sintomi di un nuovo nazionalismo, che fonda le sue radici nell’avversione verso la globalizzazione e i suoi effetti quanto a flussi migratori, riorganizzazione delle catene produttive e delocalizzazione. E verso i trattati di libero scambio più recentemente negoziati, come Tpp (Trans Pacific Partnership) e Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement). Ma un ritorno a politiche protezionistiche è concretamente realizzabile?

Chiaramente no. L’incremento di dazi e barriere al commercio è generalmente vietato (salvo specifiche eccezioni) dall’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). Interventi protezionistici comporterebbero, quindi, un’inevitabile lunga serie di ricorsi all’Organo di soluzione delle controversie dell’Omc, che ha il riconosciuto potere di imporre agli stati membri di riportare la propria legislazione in conformità agli impegni sottoscritti. Ove lo stato soccombente persista nella sua violazione, il ricorrente potrà imporre sanzioni commerciali a titolo di contromisura (ossia applicare dazi o altre misure restrittive nei confronti dello Stato inadempiente). La conseguenza sarebbe una vera e propria escalation di barriere, con effetti disastrosi sugli scambi commerciali e le economie nazionali.

Perché il libero scambio non piace
Non ci si può non chiedere quale sia la causa dietro questa crescente opposizione contro la liberalizzazione del commercio internazionale che – aprendo a flussi di persone, capitali, beni e servizi – sarebbe vista quale (con)causa delle incertezze economico finanziarie di questo periodo e delle criticità a livello socio culturale talora sofferte. L’accusa principale è che, finora, la globalizzazione e i correlati accordi di libero scambio si sono concentrati sui macro effetti delle relazioni commerciali, in un certo senso facilitando l’ingresso nei mercati globali di multinazionali e imprese di grandi dimensioni e tagliando fuori altri operatori di dimensioni minori.
Pur non condividendo tali critiche, bisogna riconoscere come alcune osservazioni non manchino di fondatezza. Basti ricordare come il sistema dell’Omc per la risoluzione di controversie consenta sì agli stati di ricorrere contro misure di altri stati ritenute illegittime, ma sia solitamente attivato solo ove siano coinvolte questioni economiche di significativa rilevanza (nazionale). Ciò vale anche con riguardo alle note procedure per dirimere i conflitti fra stati e investitori.
Inoltre, nonostante tentativi anche successivi alla creazione dell’Omc, a livello multilaterale troppo poco è stato fatto per ravvicinare gli standard ambientali, sociali e regolamentari dei vari paesi. Passaggio necessario a limitare che gli investimenti affluiscano nei paesi dove le costose normative ambientali e sociali sono meno severe. Parziale è stato anche il successo dell’Omc nel promuovere la rule of law, come comprensiva anche degli strumenti funzionali a prevenire favoritismi alle imprese nazionali vicine ai governi locali (quali le norme a tutela della concorrenza o i limiti ai privilegi delle imprese di stato, tuttora molto presenti nei paesi in via di sviluppo).

Il paradosso del rifiuto
Le politiche di rifiuto dei nuovi accordi di libero scambio nascondono però un paradosso. Tali accordi, tanto criticati, mirerebbero invece a includere disposizioni volte a riequilibrare proprio quelle divergenze normative percepite quali cause degli svantaggi competitivi sofferti dalle imprese più piccole.
Ecco alcuni esempi che smentiscono le accese campagne anti-liberalizzazione. Il Tpp prevede interi capitoli su standard ambientali e sociali, promozione e tutela della concorrenza, controllo della corruzione, limiti severi nei confronti dei privilegi delle imprese pubbliche. Allo stesso modo, il nuovo sistema per la soluzione delle controversie sugli investimenti proposto dalla Ue (e accettato da Canada e Vietnam) introduce un sistema assai più favorevole agli interessi dello stato ospite degli investimenti rispetto ai meccanismi ad oggi in essere.
E c’è di più: il tanto temuto effetto di questi nuovi accordi sui dazi all’importazione non solo riguarda esclusivamente specifici settori (tessile, calzaturiero e ittico in particolare) ma non può che avere una portata molto limitata se rapportato al flusso totale del commercio. Il valore dei dazi medi applicati attualmente all’importazione di prodotti nella EU e negli Stati Uniti, infatti, è decisamente limitato.
Inoltre, secondo un recente studio della Banca Mondiale, in poco più di 20 anni la povertà estrema nel mondo si è più che dimezzata. I principali autori di questo fenomenale risultato sarebbero la sostenuta crescita economica e la collegata fase di globalizzazione. Tuttavia, nei paesi industrializzati si è assistito a una polarizzazione della ricchezza che ha, probabilmente, contribuito alla demonizzazione dei mercati mondiali integrati. Paradossalmente, proprio i nuovi accordi che cercano, almeno in parte, di far fronte a tali squilibri sono rigettati dai nuovi leader. Ci si chiede quindi, in presenza di norme internazionali che impediscono misure protezionistiche, quali siano effettivamente le loro strategie in materia di politica commerciale.

Claudio Dordi e Alessandra Moroni per Lavoce.info