Anno IX - Numero 14
Quando non si vuole fare i conti con le proprie cose si dovrà alla fine farli con i propri fantasmi.
Soren Kierkegaard

martedì 30 aprile 2024

Oro, salgono le quotazioni ma tasse quadruplicate per chi disinveste

Chi vende oro da investimento (in lingotti o monete) è sottoposto a un’imposta sul guadagno del 26%, al pari di azioni e obbligazioni. Fino al 2023, nei casi di mancanza della documentazione del prezzo di carico la normativa considerava in modo presuntivo la plusvalenza con un’imposta pari al 6,5% di quanto si ricavava dalla vendita che dal 1° gennaio 2024 invece è diventata del 26%. Come se uno i lingotti, le monete ecc. li avesse pagati zero. Protestare è motivato

di Beppe Scienza*

Non è facilissimo quadruplicare una tassa senza dare nell’occhio. Ma l’attuale governo c’è riuscito, a dimostrazione della sua superiorità rispetto a quelli precedenti. Da parecchi anni, per chi vende oro in lingotti o monete quali le sterline, i marenghi o i krugerrand, è prevista un’imposta sul guadagno: l’aliquota è il 26% come per azioni e obbligazioni. Il discorso riguarda il cosiddetto oro da investimento, mentre restano fuori gioielli e altri oggetti d’oro.
Ma fino al 2023 la normativa considerava in modo presuntivo la plusvalenza pari a un quarto dell’incasso, nei casi di mancanza della documentazione del prezzo di carico, fattispecie tutt’altro che rara. L’imposta risultava così pari al 6,5% di quanto si ricavava dalla vendita. Dal 1° gennaio 2024 invece è il 26%, come se uno i lingotti, le monete ecc. li avesse pagati zero.

Possedere oro senza documenti d’acquisto è frequente per vari motivi che non hanno nulla a che fare col riciclaggio: in decenni passati molti cambisti lo vendevano senza fattura, chi regala monete auree a nipotini o figliocci non gli consegna certo la ricevuta dell’acquisto, così chi lo eredita spessissimo non lo dichiara in successione per distrazione o disinformazione, anche nei casi in cui non pagherebbe nulla.

In realtà la norma fiscale è vessatoria anche in ipotesi di prezzo di acquisto noto, quando esso risale molto addietro nel tempo. Infatti essa estende all’oro un tipo di imposta, quella sui cosiddetti capital gain o guadagni di Borsa, pensata per altri ambiti. Cioè in particolare per le operazioni finanziarie di durata breve o anche più lunga, ma non per investimenti a lunghissimo termine in beni reali.

Infatti l’aliquota del 26% non è stata estesa né agli immobili, né alle opere d’arte, pietre preziose o antiquariato. E il motivo è chiaro: per investimenti anche pluridecennali una parte dell’eventuale guadagno monetario in realtà copre solo la perdita di valore della moneta. Quindi non è un guadagno ma semmai un indennizzo; e come principio gli indennizzi non vanno tassati.

Prendiamo una sterlina d’oro comprata a metà 1980 a 183.000 lire e rivenduta ora a 513 euro. Nominalmente è un guadagno di 418 euro e quindi, con l’aliquota del 26%, si devono pagare 109 euro. Ma il guadagno è solo apparente, cioè in termini nominali. In realtà siamo di fronte a una perdita reale, malgrado la recente impennata dell’oro. In potere d’acquisto la cifra investita corrisponde a 541 euro attuali, mentre vendendola ora si ricava solo il 95% di tale importo. Siamo quindi di fronte a una specie di tassa sull’inflazione, che viene addebitata al singolo risparmiatore e a volte addirittura aumenta la sua perdita reale.

Non è mio stile strillare contro il fisco, ma in tal caso protestare è motivato.

* Beppe Scienza è Professore universitario presso l'ateneo di Torino e saggista. Dal 2001 mette in rete informazioni e denunce sul tema del risparmio e della previdenza attraverso il suo sito: Il Risparmio Tradito®

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