Anno IX - Numero 14
Quando non si vuole fare i conti con le proprie cose si dovrà alla fine farli con i propri fantasmi.
Soren Kierkegaard

martedì 27 novembre 2018

Sul linguaggio della politica

Domani, magari, il linguaggio della politica potrà diventare un precoce segnale di un cambiamento in atto

di Massimo Mantellini

Si tratterà di un linguaggio che non assomiglierà a nient’altro. Sarà vecchissimo, in un certo senso, per l’adesione sotterranea a certe questioni formali oggi ovunque ridicolizzate. La gentilezza, per esempio. La calma, per esempio. Sarà invece moderno, per la sua pretesa di essere inclusivo senza essere tecnico, perché proverà a chiamare le cose con un nome, fuori da certe ellissi dialettiche della vecchia politica di un tempo. Ma – dovessi dire – io penso, prima di tutto, gentile: fermo e gentile.

La traiettoria discendente del linguaggio della politica è un tratto contemporaneo di questo Paese. Comprende tutti e non salva nessuno.


Per rimanere agli ultimi anni, quelli della sua velocità, prende spunto forse dall’ambigua sovrapposizione fra i vaffanculo del Grillo comico e del Grillo politico, attraversa il poetare provinciale di Nichi Vendola, giganteggia nel Renzi rottamatore e nella culona inchiavabile di un Silvio Berlusconi ossesionato dal sesso e dalla voglia di stupire.

La sua presunta efficacia prevede l’utilizzo costante di metafore calcistiche, che tanto piacciono agli italiani, ma anche il tragicomico metterci la faccia o l’autolesionista non indietreggiare di un millimetro. Piccoli sfumati segni del ventennio che timidamente ricompare.

Quello stesso linguaggio esclude qualsiasi collusione col nemico, le cui posizioni, su qualsiasi tema, economico, sociale o culturale, saranno sempre e comunque sbagliate e condannabili, perché il linguaggio serve una causa interiore, che basta a sé stessa e ignora per sua stessa essenza fatti e intelligenze. Nel parlamento italiano di Aldo Palazzeschi

Grandi tumulti a Montecitorio.

Il presidente pronunciò fiere parole.

Tumulto a sinistra, tumulto a destra“.

il consesso degli eletti, da destra a sinistra, si riunirà in una sola voce solo raramente, su questioni moraleggianti e senza ricadute pratiche (come per esempio il rifiuto della violenza di cui quello stesso linguaggio è padre putativo).

Il pane al pane del linguaggio della politica forse non è che un segno, ma potrebbe spesso essere considerato una causa: in ogni caso genera l’effetto inevitabile di trasformare chiunque, anche il laconico Beppe Sala, in un rottweiler da combattimento, magari sfiatato e senza convinzione, ma pur sempre troneggiante nell’arena.

Se anche il colletto bianco a un certo punto pubblicamente si rompe le palle, se Berlusconi accennava senza imbarazzi agli elettori dando loro dei coglioni, se Di Battista chiama i giornalisti puttane e Salvini sonda l’intero dizionario 5 volte al giorno alla ricerca di metafore cafone da pubblicare sui social, allora forse il linguaggio, domani, potrà diventare un segno.

Forse, domani, tutti quanti, giovani e vecchi, ci stancheremo di una tale miseria intellettuale, la pianteremo di dare credito a gente senza gentilezza (la gentilezza per tutti costoro nessuno escluso è un disvalore, la politica come battaglia), essendo gente che non arretra di un millimetro, che ci mette la faccia, che dichiara di proseguire pancia a terra.

Forse domani, tutti quanti, giovani e vecchi, ci stancheremo di questa folta schiera di politici pancia a terra e l’unica pancia a terra che potremo tollerare sarà quella di un vecchio poeta americano sulla tomba di un bambino:

The only response
to a child’s grave is
to lie down before it and play dead

Forse.