di Roberta Carlini
Innanzitutto, bisogna intendersi su quel “guadagnano meno”, ossia sulla definizione che diamo del gender pay gap. All’ora? Al giorno? Al mese? All’anno? Nell’arco della vita? E poi: misuriamo solo le donne che lavorano, o anche tutte le altre, dunque anche inoccupate e pensionate? E il gap va valutato sul posto di lavoro – la differenza tra la mia retribuzione e quella del collega maschio che ho di fronte – o sui redditi dell’intera economia? La scelta del metro, dell’indice, è già importante e dipende dal tipo di discriminazione che si vuole indagare. Ma tutti contribuiscono a farci capire come stanno le cose e, soprattutto, perché.
Qualche giorno fa, il ministero dell’economia e delle finanze (Mef) ha diffuso i dati delle dichiarazioni dei redditi del 2015. Questi dati sono stati esaminati in lungo e in largo, soprattutto per il “caso” di coloro che hanno dovuto restituire gli 80 euro, ma anche per dare una mappa dei redditi per regione, comune, settori di attività, tipologie. Un solo dato è stato trascurato: quello delle differenze di genere.
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