Anno IX - Numero 12
La guerra non è mai un atto isolato.
Carl von Clausewitz

martedì 14 febbraio 2017

Rifugiati, la grande ipocrisia dell'Unione europea

L’Unione europea benedice un altro accordo per bloccare il flusso di profughi e migranti dai paesi di transito. Eppure si dice paladina del loro diritto all’accoglienza. Comunque, anche in una fase di crisi economica, avrebbe tutto l’interesse ad attrarre persone giovani e desiderose di inserirsi.

di Sergio Briguglio

Profughi e diritti
Il 2 febbraio, Paolo Gentiloni e Fayez Mustafa Serraj, primo ministro del governo di Accordo nazionale della Libia, hanno firmato un’intesa finalizzata a bloccare il flusso di profughi e migranti che dalle coste libiche raggiunge l’Italia. Due giorni dopo, a Malta, l’intesa è stata benedetta dal Consiglio europeo.
Un accordo dai contenuti simili era stato concluso nel marzo 2016 con la Turchia e aveva prodotto una drastica riduzione degli sbarchi sulle coste delle isole greche. Al di là delle dichiarazioni, l’obiettivo principale di patti del genere è eliminare alla radice i problemi legati all’accoglienza di un flusso non programmabile.
I tentativi della Ue di proteggersi dall’arrivo di profughi contrastano col suo proclamarsi paladina dei diritti di quanti tentino di mettersi in salvo dalle guerre. L’Unione infatti sancisce il diritto al soggiorno e alla protezione sussidiaria, a prescindere dalle modalità di ingresso sul suo territorio, della persona che abbia lasciato il proprio paese a causa del rischio per la vita dovuto a un conflitto armato.
Riconoscere questo diritto in presenza di conflitti che coinvolgono milioni di persone può tradursi in un onere rilevante e incontrollabile. Per diversi anni, l’onere è stato limitato dalle barriere fisiche (deserto e mare) e politiche (prassi repressive nei paesi di transito. Negli ultimi tempi, la pressione del conflitto siriano e lo scarso interesse dei paesi di transito a frenare il flusso diretto verso la Ue, ne hanno determinato un incremento notevole (quasi un milione di profughi nel 2015). Si tratta certamente di cifre cospicue, non tali però da mettere in crisi la Ue (oltre 500 milioni di abitanti), se un paese come il Libano (poco più di 4 milioni di abitanti) non è stato messo in ginocchio dall’arrivo di un milione e centomila profughi dalla Siria. Possono però mettere in crisi le maggioranze di governo di molti stati membri, soprattutto quando si approssimino appuntamenti elettorali interni.
Così, la Ue e i suoi stati membri cercano di indurre politiche di controllo e, soprattutto, di blocco del flusso da parte dei paesi di transito. Facendolo, tengono in scarso conto la condizione delle persone che proclamano di voler proteggere e quella degli stessi paesi di transito, per i quali sono ritenuti sopportabilissimi oneri di accoglienza temporanea giudicati intollerabili per gli stati Ue. L’importante è che tutto avvenga lontano da occhi europei.

Riforma (im)possibile
L’ipocrisia appare evidente nella suddivisione degli oneri interna alla Ue. Negli ultimi anni, le sole Italia e Grecia hanno sopportato il carico dell’accoglienza emergenziale dei profughi appena sbarcati. Il motivo principale risiede nelle norme (regolamento Dublino) che attribuiscono allo stato membro di primo ingresso la responsabilità integrale della gestione di chi chieda protezione: prima accoglienza, esame della richiesta, successiva integrazione o, in caso di rigetto della richiesta, rimpatrio.
Da tempo la Commissione propone una riforma del regolamento Dublino fondata su una ripartizione degli oneri basata su Pil e popolazione di ciascuno stato membro. Benché assolutamente condivisibile, non ha alcuna chance di essere approvata. L’approvazione richiederebbe, nell’ambito del Consiglio Ue, il sostegno di una maggioranza qualificata: almeno il 55 per cento degli stati membri in rappresentanza di almeno il 65 per cento della popolazione dell’Unione. Grecia e Italia potevano contare su un solo strumento di pressione per far varare la riforma: eludere l’obbligo di identificazione dei profughi, favorendone i movimenti secondari verso gli stati dell’Europa centro-settentrionale. Ma hanno accettato di istituire centri di identificazione (gli hotspots) che rendono impossibile aggirare il regolamento Dublino.
È possibile immaginare un diverso approccio al problema da parte della Ue? Finché le decisioni spetteranno al Consiglio, collezione degli interessi di governanti nazionali preoccupati solo di mantenere il potere, certamente no.
Se invece l’Unione riuscirà a riformarsi, dando alla Commissione il potere esecutivo e al solo parlamento quello legislativo, è possibile immaginare un mutamento basato su due elementi. Il primo: di fronte a un esodo di massa da paesi in guerra, l’Unione dovrebbe determinare l’impegno che intende sostenere e tradurlo in una operazione di reinsediamento, attraverso corridoi umanitari, di una congrua parte dei profughi accolti dai paesi di primo asilo, da distribuire tra tutti gli Stati membri sulla base delle rispettive capacità economiche. Verrebbero messi da parte il diritto alla protezione sussidiaria e le lunghe procedure di esame della fondatezza delle richieste di asilo.
Il secondo elemento: la Ue dovrebbe aprirsi all’immigrazione economica nella misura indicata dalla sua evoluzione demografica, più che dalle esigenze del mercato del lavoro. Anche in una fase di crisi economica, ha interesse ad attrarre persone giovani e desiderose di inserirsi. Non si tratta di attrarne di altamente qualificate, ma di investire nella loro qualificazione dopo l’arrivo. La minaccia che flussi del genere rappresentano per il disoccupato autoctono è pari a quella che le auto giapponesi o coreane hanno rappresentato per anni per l’industria automobilistica italiana: se si accetta la sfida, si diventa competitivi; se non la si accetta, si continua a produrre la Multipla.

Sergio Briguglio per Lavoce.info