Anno IX - Numero 10
Non è sufficiente parlare di pace. Bisogna crederci.
Eleanor Roosevelt

venerdì 3 dicembre 2021

Incontrare/Incontrarsi Negare/Negarsi

Ovvero il taliban che è in noi e combatte le variazioni e la discordanza perenne che è la vita

di Ugo Morelli

Solo un leggero sfiorarsi di due minime parti di un dito, il suo mignolo e il mio. Non più di qualche millimetro. Ancora ne avverto la sensazione. Come se in quel punto mi fossi scottato. Di più, bruciato. Guardo con attenzione come se ci dovesse essere qualcosa di visibile, evidente. Niente. È solo il mio dito. Ma la ritrazione quella la sento. Come qualcosa che non avrebbe dovuto accadere e che ora non so come si svilupperà. Mi rendo conto che le cose appena percepite e quelle immaginate sono reali. Anzi possono essere più reali della cosiddetta realtà. Come per l’illusione e per la finzione. Per quelle vie creiamo mondi che includono ed escludono, fino a costruire azioni molto concrete e pratiche fino ad assolutizzarle e reificarle come se non le avessimo inventate noi. Fino a crederci e a subirle come valori e come destino. Perché l’ho toccato e non dovevo. Alle 5,43 del mattino, appena salito in treno, nel porgergli il Green Pass, ho toccato la mano del controllore dei biglietti. Ho violato la mia integrità. Fino a che punto sono integro, però? Che cosa di me è davvero integrale? Come le farine, tendo alla purezza? All’igiene assoluta? Quindi sono diventato integralista? Eppure, più volte mi sono integrato in culture diverse. Ogni volta non ero più integro, ma ibrido. Certo, ero sempre io ma allo stesso tempo non ero più io. Ad ogni incontro mi sono giocato la mia integrità, sia perché l’ho difesa, sia in quanto l’ho spesa per dialogare con l’altro che almeno in parte è diventato me. Allora mi sono disintegrato? Ma no! La pelle mi tiene ancora insieme. Sì, però la devo difendere evitando di toccare, difendendomi da ogni intrusione. Ne devo tutelare igienicamente l’integrità. Sto, quindi, divenendo integralista? Fino a che punto, però, posso evitare l’integrazione se sono un essere intersoggettivo? Piano piano mi pare di capire che l’integrità che presidio sia un mito che mi sono costruito da solo. Un rifugio della mia mente. O è qualcosa continuamente violata o, rovesciando la prospettiva, è qualcosa che mi sono inventato. L’aria, ad esempio, viola questa integrità o non parlerei neppure di integrità se non fossi penetrato e attraversato dall’aria? E l’acqua di cui sono in buona misura fatto e senza ingerire la quale non vivo? E lo sguardo da cui mi attendo di essere accolto e contenuto, che quando si fonde col mio mi fa vivere e quando mi manca mi disintegra? Mi confronto così col dolore. E il dolore cos’è? “Il dolore segue un percorso che conduce la mente in un vicolo cieco del corpo, preso come puro oggetto. Il corpo, che non è altro che la mente, diventa in tal modo alieno, attraverso la tortura o altri specifici tipi di trauma. Tali esperienze possono distruggere tutti gli aspetti del sé: fisico, esperienziale, cognitivo, narrativo e profondamente intersoggettivo. La domanda, quindi, è: cosa resta?” [Shaun Gallagher, Foreword a Yochai Ataria, Body Disownership in Complex Posttraumatic Stress Disorder, 2018, p. XI; in Y. Ataria, Palgrave Macmillan, London 2018].


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