Anno IX - Numero 12
La guerra non è mai un atto isolato.
Carl von Clausewitz

martedì 13 novembre 2018

Perché siamo insoddisfatti dei nostri selfie

Roland Barthes, l'intellettuale francese avrebbe compiuto 103 anni il 12 novembre, lo spiegava 38 anni fa. Proviamo a rileggere 'La Camera Chiara' del 1980 per ritrovare "istruzioni profetiche per l'uso dell'ego-immaginario che portiamo in tasca"

di Michele Smargiassi

Ma certo, Roland Barthes e i selfie. Scandalizzati per l'accostamento? Barthes si occupò di pastasciutta, di wrestling, di ufo, di patatine fritte. Si sarebbe occupato, siatene certi, anche di selfie. E forse l'ha fatto. Sì, lo so, il filosofo, linguista, patriarca della semiologia, nato in questo 12 novembre di 103 anni fa, morì trent'anni abbondanti prima che il selfie cominciasse la sua luminosa ascesa.

E il selfie, ricordiamolo, non ha antecedenti diretti, non è un autoritratto, non è un autoscatto, anche se ne eredita qualcosa; è un genere fotografico che ai tempi di Barthes non esisteva. Che cos'è allora?
Be', Barthes lo avrebbe forse definito, come definì tutta quanta la fotografia, un oggetto antropologicamente nuovo. Anch'esso, come pure definì la fotografia, discretamente intrattabile. Basta vedere quante reazioni isteriche la sua comparsa ha scatenato nel mondo degli intellettuali superciliosi tutori della supremazia del pensiero verbale. Che Barthes non era.

La camera chiara fu l'ultimo libro di Barthes: uscì nel 1980, pochi mesi prima della sua morte. Ed anche il suo libro più anomalo, forse. Quello in cui si spogliò del suo sapere, delle stesse architetture critiche e analitiche che aveva applicato alla fotografia nei magistrali saggi di L'ovvio e l'ottuso. Scegliendo di rimanere, davanti all'immagine fotografica, indifeso intellettualmente: "selvaggio, senza cultura". Per meglio capire quello che le fotografie fanno e ci fanno. A maggior ragione dovremmo capire quello che ci fanno oggi che, da guardoni universali di immagini altrui, siamo diventati universali produttori di immagini da far guardare agli altri. Proviamo a riaprire quel libro, a volte contestato per alcune sue affermazioni che apparvero apodittiche, soggettive, indimostrate, ma ancora oggi sorprendente. Rileggendo alcuni suoi passaggi come istruzioni profetiche per l'uso dell'ego-immaginario che portiamo in tasca.

Cominciamo da un presupposto. "Una foto è sempre invisibile: ciò che vediamo non è lei". Di fronte a una fotografia, la tentazione di buttarcisi dentro, come Alice oltre lo specchio, per raggiungere il suo contenuto, è irresistibile. Così funzionano i selfie: ci tirano dentro la cornice, ci invitano a entrare in una relazione quasi fisica con l'altro che vi appare: una relazione strettissima, intima, alla portata di un braccio teso. Ma quel che troviamo quando ci tuffiamo dentro la cornice non è una persona reale. Perché chi si è scattato un selfie non è più un individuo, ma un'immagine. "Non appena io mi sento guardato dall'obiettivo, tutto cambia: mi metto in un atteggiamento di 'posa', mi fabbrico istantaneamente un altro corpo, mi trasformo anticipatamente in immagine".
Non appena io mi sento guardato dall'obiettivo, tutto cambia: mi metto in un atteggiamento di 'posa', mi fabbrico istantaneamente un altro corpo, mi trasformo anticipatamente in immagine

L'immagine di cosa?

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