Anno IX - Numero 10
Non è sufficiente parlare di pace. Bisogna crederci.
Eleanor Roosevelt

martedì 25 settembre 2018

L’economia non può fare a meno dell’etica

La gravità dei problemi sul tappeto impongono un ripensamento della scienza economica e dei suoi paradigmi fondativi. Questi non sono in grado di spiegare ciò che sta succedendo e soprattutto non sono in grado di fornire ricette efficaci. L'economia chiede oggi umanizzazione e trascendimento etico inteso come recupero di senso in ordine al produrre, lavorare, consumare, vivere. In economia più strade sono possibili. I problemi non hanno una sola soluzione. C'è spazio per la progettualità dei soggetti, una progettualità eticamente fondata in vista di un bene comune il più ampio possibile. Lectio al dottorato di Ricerca in Economia del Dipartimento di Economia dell’Università di Genova

di Lorenzo Caselli*

Introduzione
La teoria dominante è in crisi. È urgente riaprire il dibattito economico. Il metodo non è fine a se stesso. Occorre costruire una nuova agenda di temi rilevanti: in particolare sviluppo sostenibile, riduzione delle diseguaglianze, umanizzazione del lavoro. Sono questi i punti fondamentali del “Manifesto per la libertà del pensiero economico” presentato nel 2010 da un gruppo di eminenti economisti tra i quali ricordo Giorgio Ruffolo, Giacomo Becattini, Michele Salvati, Loretta Napoleoni, Stefano Zamagni, Bruno Iossa.

Il conferimento del premio Nobel a Richard Thaler – economista comportamentale al pari di Daniel Kaneman vincitore nel 2007 – ha ravvivato il dibattito, in realtà mai sopito, sulla natura e sul ruolo della scienza economica. Al riguardo, “il Sole 24 Ore” – tra fine 2017 e inizio 2018 – ha avviato un confronto tra studiosi italiani e stranieri dal titolo oltremodo significativo “Processo all’economia”.
Il confronto viene così introdotto. Come sta cambiando la disciplina economica?
Quali sono i nuovi paradigmi seguiti dagli economisti? La razionalità dell’homo oeconomicus, a tratti vista come assoluta, si apre adesso a una idea di umanità perfettibile, innervata di sentimenti, ansie, errori di percezione, ma anche di entusiasmi. Le mie riflessioni, in tema di rapporti tra etica ed economia, si collocano in questa prospettiva (Caselli, 2017).

Grandi cambiamenti, ma per quali fini?
Non v’è ambito della vita sociale, economica, istituzionale che non sia percorso da grandi cambiamenti. Grandi cambiamenti certo. Ma per quali fini? In nome di quale progetto? Per questi interrogativi non esistono, oggi, risposte adeguate e convincenti. Da ciò discendono paure, incertezze, difficoltà.

Il calcolo, gli interessi egoistici di gruppo, di ceto, di categoria sembrano far premio sulle esigenze della solidarietà. Ciò concorre ad aumentare, secondo una circolarità viziosa, problemi e conflitti. “Il calcolo non ignora solo le attività non monetizzabili, gli aiuti reciproci, l’uso dei beni comuni, la parte gratuita dell’esistenza, ma ignora anche e soprattutto quello che non può essere calcolato né misurato: la gioia, l’amore, la sofferenza, la dignità, cioè il tessuto stesso della nostra vita.” [1]

Cresce e si consolida la tentazione di risolvere la complessità delle situazioni in nome della forza, sia direttamente sia indirettamente attraverso l’accordo bloccato degli interessi predominanti. E il più forte può assumere i nomi più diversi: oligarchie finanziarie, concentrazioni massmediatiche, burocrazie sovranazionali, poteri tecnocratici, ideologie contrabbandate come verità indiscutibili. Il futuro dell’umanità si gioca su molti tavoli: economici, politici, scientifici, militari. Troppo pochi, e non sempre identificabili, sono coloro che decidono al di fuori di ogni controllo collettivo, nel mentre aumenta l’area dell’impotenza e della rassegnazione. I margini di libertà reale appaiono pregiudicati sia dall’incapacità del corpo politico di elaborare progetti coerenti sia dal riflusso del dialogo sociale in fenomeni lobbistici e corporativi sia dall’emergenza di “governi privati” fautori di uno stato minimo e debole.

L’uomo d’oggi si presenta ricco di strumenti, ma povero di fini e di valori. Questa inversione tra mezzi e fini caratterizza – a ben vedere – le moderne forme di alienazione nell’ambito delle quali l’uomo perde il senso profondo di sé in rapporto agli altri uomini e al creato. Si priva cioè della possibilità di una “buona vita”. L’interdipendenza, svincolata da valori e fini più generali rispetto a quelli di una mera competizione acquisitiva genera contraddizioni e ambiguità crescenti.

I “numeri” finiscono per prendere il posto degli uomini specie dei più deboli e quindi più bisognosi di stato sociale. Alle le frontiere politiche tra gli stati, altre se ne affiancano a livello sociale ed economico. Trattasi di frontiere mobili, invisibili sulle carte geografiche, ma materializzate nella divisione del lavoro, negli assetti urbani, nelle regolamentazioni amministrative.

L’esclusione è oggi un grande dramma e una grande paura. Essa è forse più grave delle tradizionali forme di sfruttamento proprie delle società industriali. Lo sfruttamento presuppone pur sempre un rapporto sociale di tipo oppositivo, intorno al quale sono sorte le diverse organizzazioni del movimento operaio e sindacale. Questo rapporto non esiste nell’area dell’esclusione. Qui troviamo soltanto degli individui, dispersi, praticamente invisibili, senza espressione propria, senza mezzi di appoggio e di lotta. Gli esclusi non possono prendere parola, non possono cooperare, non hanno parte nello scambio sociale.

L’invadenza e l’impotenza dell’economia
L’economia è oggi tanto invadente quanto impotente di fronte alla gravità dei problemi che sono sul tappeto. La logica del sempre di più delle stesse misure di politica economica va incontro a pericolosi effetti di rigetto. E’ questo il caso delle misure di austerity ove sempre più spesso il presunto rimedio è peggiore del male che vorrebbe curare. Nel giro di breve tempo siamo passati da una crisi finanziaria a una crisi economico produttiva che si è trasformata in crisi occupazionale. Questa è diventata crisi umana e sociale in gradò di incidere pesantemente sui fondamenti stessi della vita civile e democratica.

I tradizionali paradigmi della scienza economica – la ricerca del proprio tornaconto su orizzonti temporali sempre più brevi e una sorta di darwinismo sociale per cui i più forti vincono e prendono tutto- entrano in crisi tanto a livello interpretativo quanto normativo. Non sono in grado di spiegare ciò che sta succedendo e soprattutto non sono in grado di fornire ricette efficaci. Le grandi questioni dell’esclusione, della pace, dell’ambiente, delle generazioni future rivelano ampiamente sia l’insufficienza del mercato quale regolatore supremo sia dell’individualismo metodologico come norma comportamentale.

Il neoliberismo rischia di distruggere i fondamenti stessi del bene comune. Oggi ci se ne rende sempre più conto. L’economia ha finito per occupare tutti gli spazi della vita dell’uomo. Dall’economia di mercato si è passati alla società di mercato. Lo scambio mercantile si è esteso ad ambiti sempre più vasti quali la cultura, la salute, il tempo libero. L’individuo conta solo se è in grado di consumare e poco importa se per farlo si indebita ipotecando il proprio futuro.

Il neoliberismo non è soltanto un modo di intendere e di gestire l’economia ma è anche e soprattutto una ideologia, una cultura, una modalità di vita, un pensiero che si vuole unico e che nell’ambito della scienza economica pretende di mettere a tacere i punti di vista diversi da quelli dominanti . In questa ottica vanno ridotti al minimo l’intervento pubblico e più in generale i “condizionamenti” sociali, ritenuti inefficienti per definizione. Al contrario si richiedono deregolamentazioni, privatizzazioni, flessibilità.

L’inconsistenza di tali affermazioni è di piena evidenza. L’economia va pertanto ripensata. Va, per così dire, ri-legata alla persona e alla società a partire da alcune verità elementari che vogliamo riepilogare:

  • Il mercato non soddisfa il bisogno, bensì la domanda pagante ovvero fornita di adeguato potere di acquisto. Con la conseguenza che oggi cresce il superfluo, l’inutile nel mentre esigenze fondamentali di umanità restano inevase;
  • La dimensione finanziaria non coincide con la dimensione reale dell’economia (produzione di beni e di servizi), anzi la sua tossicità sta avvelenando la base materiale produttiva. La teoria insegna che i mercati finanziari dovrebbero riflettere i fondamentali Non è più così: li determinano! Attraverso il gioco perverso della speculazione si assiste alla moltiplicazione artificiosa di una ricchezza che non cresce. La finanza si sta mangiando l’economia;
  • L’impresa non “appartiene” soltanto agli azionisti o ai proprietari bensì a tutti gli stakeholder (lavoratori, clienti, fornitori, finanziatori, comunità). I loro apporti, su un piano di uguaglianza sostanziale, sono indispensabili per il bene dell’impresa e della collettività;
  • L’utilità collettiva, il bene comune non sono la somma dei tornaconti individuali e dei beni privati: dai vizi privati non discendono pubbliche virtù. A sua volta l’economico non coincide con il sociale. La razionalità del primo non può espropriare quella del secondo. Devono semmai armonizzarsi, Non è infatti pensabile uno sviluppo economico che non sia anche sociale, culturale, morale. Lo sviluppo umano non può che essere integrale, riguardare ogni uomo e tutto l’uomo;
  • La sfera dell’economia di mercato non è la biosfera. Non funzionano secondo la stessa logica. Questo fatto poteva essere ignorato quando la prima non minacciava l’esistenza della seconda. Ora non più. Lo sviluppo non può che essere sostenibile, fondato sull’alleanza tra uomo e ambiente;
  • Tra reddito e felicità il legarne non è Molte ricerche dimostrano che una volta che il reddito procapite ha superato una data soglia (quella che consente di vivere in modo decente) viene meno la sua correlazione con la felicità. Anzi l’aumento del reddito può bruciare i fondamenti della felicità affettiva, famigliare, relazionale. La questione degli stili di vita diventa pertanto fondamentale.

La definizione tradizionale di economia come scienza che insegna a trovare il mezzo migliore per perseguire un fine determinato si rivela oggi del tutto inadeguata. Come abbiamo visto i problemi economici non dipendono tanto dalla mancanza di risorse quanto dal fatto che le istituzioni economiche, politiche e culturali non sono più in grado di interpretare le esigenze della attuale fase di sviluppo. La questione vera sta nella scelta tra fini diversi. Per questo è essenziale il riferimento ai valori, all’etica.

Come ha osservato A. Sen, occorre guardare non al benessere definito in termini utilitaristici, bensì al bene tout-court, entro il quale il benessere gioca un ruolo ovviamente importante ma parziale. Valorizzare le persone e le loro capacità, promuovere la partecipazione congiuntamente al perseguimento della conoscenza e all’esercizio della solidarietà rappresentano obiettivi che, oltre ad essere significativi in sé, disegnano un universo di valori decisivi per lo stesso successo economico.

L’assunto antropologico dell’homo oeconomicus su cui si regge tutta l’impalcatura neoliberistica va rifiutato con forza perché non giustificato né scientificamente né eticamente. Infatti chiediamoci cosa si può costruire se si assume come termine di riferimento “una figura astratta, eppure diffusissima, che non ha relazioni, né capacità di amare, né storia, né sentimenti all’infuori dell’avidità e dell’angoscia che porta a credere nelle regole brutali di un sistema che pure, per chi ha conservato la vista, è palesemente falso”.

Con altre parole e sempre in un’ottica di concretezza, perché la progettazione degli assetti economici deve poggiare sul presupposto (o pseudo verità) che le persone sono egoiste, edoniste, chiuse in loro stesse? Analogamente perché continuare a vedere il mondo come la foresta di cui parla Hobbes, nel cui ambito gli individui sono intrinsecamente incapaci di creare una comunione di obiettivi solidali e condivisi, di cooperare costruttivamente? L’esperienza storica e anche la riflessione teorica, nella misura in cui fuoriesce dalle secche del pensiero unico, ci dicono che è possibile realizzare una comunità di uomini liberi, uguali e pacifici e che ciò diventa fattore di crescita e di arricchimento per tutti.

* Lorenzo Caselli è Professore Emerito presso il Dipartimento di Economia (Diec) dell'Università degli Studi di Genova e Direttore Emerito di Impresa Progetto.

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