Anno IX - Numero 10
Non è sufficiente parlare di pace. Bisogna crederci.
Eleanor Roosevelt

martedì 10 luglio 2018

Tutti sconfitti nelle guerre commerciali

Nella battaglia dei dazi con la Cina, gli Stati Uniti cercano di ottenere il massimo prima di arrivare a un accordo. Ma il rischio è che a farne le spese sia il sistema di regole del commercio internazionale, insieme alla crescita economica globale

di Carlo Altomonte

Dopo qualche settimana di pace apparente, il presidente Trump ha ripreso la sua personale guerra contro la politica commerciale internazionale. Fatto naufragare un vertice G-7 su questi temi in Canada ai primi di giugno, a metà mese l’amministrazione americana ha definito l’elenco di prodotti cinesi ad alta tecnologia che potrebbero essere soggetti a tariffe del 25 per cento, per un controvalore stimato tra 50 e 60 miliardi di dollari. Data prevista di entrata in vigore è il 6 luglio.

Dando per scontata la peraltro già annunciata reazione cinese, per il momento le aspettative non sono comunque quelle di una guerra commerciale dichiarata tra Cina e Stati Uniti.
La sensazione è invece che l’amministrazione americana stia praticando un classico caso di politica del rischio calcolato, ossia l’arte di danzare sul ciglio di un burrone per estrarre il massimo tornaconto da una trattativa, a fini elettorali interni (a novembre negli Stati Uniti si tengono le elezioni per il rinnovo di parte di Camera e Senato).

Il sospetto nasce dal fatto che nelle scorse settimane la lista di prodotti soggetti a tariffa di importazione dalla Cina è stata modificata dall’amministrazione americana rispetto a quella originariamente annunciata in aprile, eliminando di fatto i beni finali e concentrando il 95 per cento delle tariffe su beni capitali o intermedi. Lo scopo è attenuare l’effetto immediato dei dazi sui prezzi al consumo in America e dunque limitare i danni politici della manovra, almeno nel breve periodo.

Gli effetti di breve e medio periodo
Tuttavia, nel medio periodo è inevitabile che le tariffe vadano a scaricarsi sui costi delle aziende attraverso le catene globali del valore, generando aumenti di prezzi, perdita di competitività e posti di lavoro e, in ultima analisi, minore crescita e benessere per il paese che ha imposto la protezione. Questo perché oggi, rispetto al passato, l’export ha un peso sul Pil mondiale mai raggiunto in precedenza (circa il 30 per cento), e la produzione è molto più integrata a livello internazionale: la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo(Unctad) stima che tra il 70 e l’80 per cento dei flussi commerciali mondiali abbia luogo con almeno una controparte costituita da una impresa multinazionale, e dunque in qualche modo coinvolta in una catena globale del valore. Molto più che in passato, dunque, una politica protezionistica rischia di generare un aumento dei costi interni su una gamma assai più ampia di prodotti indirettamente interessati. Inoltre, nel nuovo contesto delle catene globali del valore, per un’impresa è relativamente più semplice aggirare eventuali dazi, semplicemente spostando la produzione in altri impianti già operativi del suo sistema produttivo.

Non a caso, si moltiplicano già gli esempi di questi effetti negativi: a seguito delle contro-tariffe europee imposte in risposta ai dazi Usa su alluminio e acciaio, la Harley Davidson ha annunciato che sposterà parte della sua produzione nelle fabbriche fuori dagli Stati Uniti, con una perdita di posti di lavoro negli Usa. Anche l’industria del formaggio americano rischia la crisi (a favore dei concorrenti europei) dopo l’aumento dei dazi su questi prodotti deciso da Messico e Canada, sempre in risposta ai dazi Usa su alluminio e acciaio. Se rimaniamo in Europa, Airbus ha annunciato che abbandonerebbe la produzione nel Regno Unito in caso di “hard” Brexit, con relativa perdita di miliardi di euro in termini di profitti, investimenti e posti di lavoro per tutte le imprese in qualche modo collegate. Infatti, senza un accordo, le tariffe che l’Europa prevede per tutti i paesi Wto si applicherebbero anche al Regno Unito, rendendo insostenibile il mantenimento della produzione britannica rispetto alla commercializzazione all’interno del mercato unico. Né è realistico pensare che le delocalizzazioni possano essere compensate da produzioni alternative “locali”, in quanto gli effetti di queste ultime tendono a materializzarsi in un orizzonte di lungo periodo, dati i tempi necessari alle riconversioni industriali.

Il punto chiave del problema sembra essere proprio questa sorta di (nuova) incoerenza temporale determinatasi nella politica economica del protezionismo con la comparsa delle catene globali del valore. Nel breve periodo, la presenza di un elevato numero di beni intermedi importati consente di concentrare su questi eventuali tariffe, posponendo nel tempo l’effetto sui beni finali e dunque sui consumatori/elettori. Di contro, però, nel medio periodo una politica protezionistica rischia di creare effetti negativi maggiori rispetto al passato per l’economia che la mette in atto, sia per il maggior numero di prodotti che, prima o poi, potrebbero aumentare di costo, sia per il più alto rischio di delocalizzazione dell’attività economica. Nello stretto spazio temporale che si crea tra effetti di breve e di medio periodo, si inserisce la possibilità di trarre vantaggi da un negoziato politico, e qui sembra essersi posizionata oggi l’amministrazione americana.

Il pericolo è però che il gioco sfugga di mano, con continue e sempre più acute ritorsioni sul fronte tariffario. A questo punto, l’accordo tra potenze in lotta potrebbe arrivare mentre volano in aria le ceneri del sistema di regole del commercio internazionale, dissoltosi nel frattempo insieme alla crescita economica globale. Un classico esempio di vittoria di Pirro.

Carlo Altomonte per Lavoce.info