Anno IX - Numero 10
Non è sufficiente parlare di pace. Bisogna crederci.
Eleanor Roosevelt

martedì 9 gennaio 2018

Come sta il mercato italiano del lavoro

Pubblicato il primo rapporto annuale integrato sulle condizioni del mercato italiano del lavoro, frutto della collaborazione e delle basi dati di Ministero del Lavoro, Inps, Istat, Inail e Anpal (agenzia per le politiche attive del lavoro): 130 pagine di dati, analisi e considerazioni su come è evoluta la composizione qualitativa e quantitativa delle forze di lavoro del paese

di Mario Seminerio


«Nell’ultimo quindicennio, mentre le ore lavorate seguono da vicino l’andamento del Pil, il numero di occupati, soprattutto nella prima forte recessione del 2009, si muove differentemente. Nei primi tre trimestri del 2009 la caduta su base annua del Pil è molto accentuata (-7,2 %, -7,0% e -5,2%) e anche le ore si riducono sensibilmente (-3,6%, -3,6%,-3,9%) mentre il numero degli occupati diminuisce molto più lentamente (-1,3%, -2,0%, -1,9%).
Pertanto, mentre vi è una stretta relazione fra Pil e ore lavorate, l’occupazione, come avviene normalmente in ogni fase ciclica, segue con ritardo le fluttuazioni dell’output.
All’inizio della recessione le imprese aggiustano in modo graduale il loro input di lavoro rispetto alla domanda utilizzando tutti gli strumenti a disposizione (riduzione delle ore di straordinario, utilizzo di Cig ordinaria, straordinaria e in deroga, passaggi da full time a part time, eccetera) per ridurre le ore lavorate. Con il permanere e l’approfondirsi della fase recessiva aumentano i flussi in uscita, soprattutto per licenziamenti, e si riducono le nuove entrate determinando così una diminuzione dell’occupazione»


Ma l’attuale ripresa, come sappiamo da tempo, appare ad alta intensità di occupazione. In altri termini, questa non è una jobless recovery:
«Un aspetto peculiare dell’ultima fase ciclica e della ripresa è che l’elasticità dell’occupazione al Pil è aumentata rispetto al passato: complessivamente tra il primo semestre del 2013 e il primo 2017, infatti, a fronte di un aumento del Pil del 3,4% le ore lavorate sono cresciute del 3,6% e gli occupati del 2,9%. Nel periodo preso in esame, l’elasticità media per le ore è superiore all’unità (e di poco inferiore per gli occupati) con un andamento diverso da quello sperimentato in passato. All’aumento dell’elasticità hanno contribuito certamente le politiche di incentivo all’assunzione dei lavoratori a tempo indeterminato del biennio 2015-2016»

Segue quello che possiamo considerare forse il commento più importante dell’analisi:


«Nonostante la ripresa, rispetto al primo semestre del 2008 il Pil è ancora del 6,1% al di sotto del livello pre-crisi, le ore del 5,8% e l’occupazione dell’1,3%; in termini di input di lavoro, per colmare il gap mancano ancora 1,3 miliardi di ore, e quasi 1,2 milioni di Unità di lavoro a tempo pieno (Ula), mentre in termini di occupati 330 mila unità. La riduzione tendenziale del numero di ore per occupato, fenomeno che in diversa misura riguarda tutta l’Ue28, è legata soprattutto alla crescita del part time (spesso involontario) e di forme di lavoro discontinue, anche se negli ultimi anni si è osservato un recupero delle ore lavorate pro-capite»

Quindi: la ripresa in atto ha indotto un aumento di ore lavorate in linea con quello del Pil, cioè una dinamica che possiamo definire ad alta intensità di lavoro. Il numero di occupati è cresciuto meno, essendo tuttavia calato meno durante la fase più acuta della crisi. In altri termini, durante la crisi le aziende, ove possibile, hanno conservato i livelli occupazionali, tagliando le ore lavorate. Durante la ripresa, non solo in Italia, si assiste invece alla riduzione tendenziale del numero di ore per occupato, per effetto della crescita del part-time, spesso involontario (persone che vorrebbero lavorare a tempo pieno ma trovano solo a tempo parziale), ma soprattutto della crescita di forme di lavoro discontinue. Nel periodo 2008-2016, al calo delle ore totali lavorate hanno contribuito soprattutto la pubblica amministrazione, l’Inps, il settore delle costruzioni (che è praticamente tracollato), l’industria in senso stretto ed il lavoro autonomo. Da qui, oltre che dalla crescita dei lavori discontinui, si origina la divergenza tra numero di occupati (tornati in prossimità dei massimi pre-crisi) ed il monte-ore lavorate, che restano ampiamente inferiori a quel periodo.



Un dato piuttosto interessante è dato dalla curva di Beveridge, che pone in relazione il tasso di posti vacanti (indicatore di domanda del lavoro da parte delle imprese), ed il tasso di disoccupazione. In Italia, da alcuni trimestri, si osserva un irripidimento della curva, nel senso che la riduzione della disoccupazione, dato l’aumento di posti vacanti, è più difficoltosa. Come spiega il rapporto:


«Lo spostamento verso l’alto della curva segnala una maggiore difficoltà del mercato di far incontrare domanda e offerta di lavoro che potrebbe essere associata ad un mismatch tra competenze, territoriale, settoriale, professionale. Sulle competenze può avere avuto influenza la profondità e la durata della (doppia) crisi economica che allungando la durata della disoccupazione ha provocato, da un lato, la riduzione di capitale umano specifico nei soggetti che hanno perso il lavoro e, dall’altro, il mancato accumulo di esperienze dei giovani»

Questo è un dato su cui riflettere con molta attenzione.



La ripresa di occupazione sta poggiando sempre più su impieghi a termine. In questo contesto, si osserva l’andamento pressoché esplosivo della crescita dei lavoratori in somministrazione, che sta facendo la fortuna delle agenzie:


«In un contesto nel quale le posizioni relative ai lavoratori in somministrazione sono complessivamente aumentate sin dai primi mesi della ripresa, tra il primo trimestre 2016 e il secondo trimestre 2017 si è registrata una straordinaria accelerazione, che ha portato a un aumento di gran lunga superiore a quello relativo al totale di industria e servizi (+50,7% a fronte di +5,5%)»

Anche perché


«Del resto, la caratteristica principale della componente in somministrazione della domanda di lavoro è l’elevata sensibilità al ciclo economico. Le imprese, infatti, in risposta alle variazioni della domanda di beni e servizi possono aggiustare con facilità e senza particolari costi il proprio input di lavoro, variando il numero di lavoratori in somministrazione richiesti alle agenzie che forniscono questo servizio»



La mutazione del mercato italiano del lavoro è tuttavia riassunta dal forte aumento dei cosiddetti rapporti brevi (RB):



«Il numero di lavoratori coinvolti in RB – in almeno una delle diverse tipologie – si aggirava attorno ai 3 milioni nel 2012; è sceso al di sotto di tale valore nel 2013 e poi risalito arrivando nel 2016 a circa 4 milioni. Questa dinamica riflette, oltre che l’andamento ciclico e le dinamiche congiunturali dell’economia, i cambiamenti nella regolazione: la contrazione progressiva di intermittenti e collaborazioni si lega alle indicazioni restrittive della l. 92/2012 come pure alla “concorrenza” attivata dai voucher (a partire dalla medesima l. 92/2012) e alle facilitazioni introdotte nel 2014 per i rapporti di lavoro a tempo determinato. […] Il 2016 ha segnato, con più di un milione e 800 mila attivazioni, il quinto anno consecutivo di crescita dei rapporti di lavoro in somministrazione, con un aumento, rispetto al 2012, di oltre il 53%»

Dopo le limitazioni di ricorso al voucher, verosimile attendersi una forte ripresa dei contratti in somministrazione. La somministrazione a tempo determinato induce la riduzione del numero di giornate lavorate:


«In termini di giornate di lavoro complessivamente previste, indicate al momento della stipula del contratto, l’incidenza dei contratti in somministrazione di breve durata sul complesso dei contratti di somministrazione a termine risulta in crescita nell’arco di tempo esaminato: dal 56% del 2012 al 58% del 2016. La loro durata media prevista è progressivamente diminuita passando da 13,8 giorni nel 2012 a 11,7 giorni nel 2016. Più dettagliatamente, se nel 2012 le attivazioni con durata prevista inferiore ai 6 giorni erano pari al 55,2% del totale delle attivazioni brevi, nel 2016 passano al 58,5%. Tale crescita è quasi totalmente imputabile alle attivazioni che prevedono una sola giornata, la cui incidenza cresce di quasi 3 punti percentuali dal 30,5% al 33,4%»

La sintesi, necessariamente parziale, di questa dinamica evolutiva poggia su alcuni punti fermi:
La ripresa in Italia appare ad alta intensità di lavoro;
Il monte-ore e le ore pro capite lavorate sono tuttavia su livelli ancora inferiori al pre-crisi, a causa del forte ridimensionamento/crollo di alcuni settori (vedi sopra) e del crescente ricorso da parte delle imprese a rapporti discontinui;
I contratti a termine sono in forte aumento, soprattutto dopo la fine degli incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato legate al Jobs Act;
Entro questa categoria, i contratti di somministrazione (quindi il ricorso ad agenzie di manodopera) sono in forte aumento, con flessione del numero medio di giornate lavorate;
Il riassorbimento della disoccupazione è molto contenuto rispetto al tasso di posti vacanti, a causa verosimilmente di fenomeni di skills mismatch;
Parte di questi fenomeni sono comuni ai paesi della Ue, parte è conseguenza della composizione dell’economia italiana (servizi a minor valore aggiunto, “terziario arretrato” come alberghi e ristorazione), parte invece appare frutto della volontà delle imprese di contenere il costo del lavoro;

Come si nota, fattori ciclici e strutturali si incrociano, determinando gli esiti e l’inerzia del sistema, oltre che il percorso evolutivo. Anche per questo non esistono bacchette magiche, e serve riflettere circa il fatto che stimoli “keynesiani” di spesa pubblica finalizzati ad aumentare l’occupazione (ad esempio nel settore pubblico) possono risolversi in spreco di risorse e contribuire al calo della produttività di sistema. Allo stesso modo, il settore delle costruzioni potrebbe essere rianimato in parte da nuovi investimenti infrastrutturali ma pensare di riportarlo ai livelli ante-crisi, in termini di contributo all’occupazione ed al valore aggiunto di sistema, appare illusorio. Su tutto questo quadro, domina l’innovazione tecnologica, ed il tasso di distruzione/creazione di profili professionali da essa indotto.

Mario Seminerio per Phastidio.net