Anno IX - Numero 10
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Eleanor Roosevelt

martedì 21 novembre 2017

Il segreto chimico dell'eccezionale cemento romano

Uno studio dell'Università dello Utah rivela la formula del materiale a basso impatto ambientale basato su un mix di cenere vulcanica, malta, tufo. Ma a rendere così resistente le costruzioni di duemila anni fa è stata l'acqua di mare

di Giacomo Talignani

Ogni giorno più forte e meno inquinante. C'è un segreto, con più di 2mila anni di storia, che da tempo attanaglia gli scienziati: come fanno le costruzioni romane, realizzate con le prime forme di calcestruzzo, a rimanere così solide nel tempo? Del resto, nel 79 d.C, lo aveva notato anche Plinio il Vecchio che nella sua Naturalis Historia a proposito delle strutture realizzate nei porti e bagnate dal mare scriveva: "Diventano una massa unica in pietra, inespugnabile alle onde e ogni giorno più forte".

In diversi anni di studi sui templi e le rovine italiane la geologa e geofisica statunitense Marie Jackson, analizzando per esempio i Mercati di Traiano o il porto romano della baia di Pozzuoli a Napoli, ha cercato di ricostruire la ricetta andata perduta con cui i nostri predecessori realizzavano le loro costruzioni: a più riprese è arrivata alla conclusione che il segreto fosse da ricercare nel mix fra cenere vulcanica, malta, tufo e acqua con cui venivano realizzate le opere.

Oggi, secondo un nuovo studio dell'Università dello Utah da lei diretto e pubblicato sulla rivista Mineralogist gli scienziati sostengono che l'ingrediente fondamentale del processo chimico che rende così indistruttibili i porti romani sia proprio l'acqua di mare, capace di dar vita a cristalli con nuove forme e "davvero rari". Per mesi, in collaborazione con le autorità italiane, i geologi hanno studiato l'antico molo romano Portus Cosanus a Orbetello analizzandolo con i raggi X: secondo le osservazioni i minerali all'interno della struttura erano cresciuti nelle crepe causate dall'erosione delle onde, fatto che dimostra come la reazione con l'acqua salata continua anche dopo che il calcestruzzo ha fatto presa.

Se si pensa che nel mondo sotto scacco dal riscaldamento globale la produzione di calcestruzzo moderno contribuisce a produrre almeno il 7% di anidride carbonica, l'idea di poter realizzare nuove opere attraverso la formula dei romani "a basso impatto ambientale" diventa dunque prioritaria anche per salvare il pianeta.

Oggi ad esempio, cita la ricerca, il cemento di Portland utilizzato per costruire dighe e impianti si sbriciola nel giro di decenni ed è realizzato in forni a temperature elevate che emettono CO2: quello dei romani, combinazione di cenere, acqua, calce vive (la reazione pozzolanica) dura invece da oltre 2mila anni. "A differenza ad esempio del cemento di Portland, in quello romano non si verificano crepe" spiega Jackson affascinata dal fatto che i minerali romani crescano a basse temperature.

Dopo gli esami di Orbetello il team ha concluso che quando l'acqua di mare spinta dalle onde filtra attraverso il cemento di frangiflutti e pontili ed entra in contatto con la cenere vulcanica permette ai minerali di crescere dando vita a composizioni cariche di silice, simile ai cristalli delle rocce vulcaniche. Questi cristalli fortificano la cementazione e aumentano così la resistenza del calcestruzzo. "In realtà - continua Jackson - normalmente questo processo di corrosione sarebbe negativo per i moderni materiali. Invece in quelli di allora funziona e prospera. Non è detto che si possa applicare la formula in tutti gli impianti futuri, ma vogliamo provarci".

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