tag:blogger.com,1999:blog-62915884633045342672024-03-18T04:02:16.899+01:00IL CUCCIA<center><i>Il luogo più sicuro dove coltivare il dubbio</i></center>Unknownnoreply@blogger.comBlogger1771125tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-43728451514868079462024-02-29T08:35:00.000+01:002024-02-29T08:35:00.131+01:00Pista di bob, l’ennesimo orrore di Milano-Cortina 2026<i>Partiti all’improvviso i cantieri con l’abbattimento di cinquecento larici secolari. Per un impianto che rischia di non vedere mai la luce</i><div><br /></div><div><b><span style="color: #666666;">di Luca Pisapia </span></b><br /><br />Uno al minuto. Nel giro di qualche ora a Cortina, su un area di poco più di due ettari di terreno, sono stati abbattuti quasi cinquecento larici. La maggior parte alberi secolari. Il tutto per far posto all’impianto sportivo che ospiterà le gare di bob, skeleton e slittino per le Olimpiadi di Milano-Cortina 2026. O meglio, il tutto per fare posto all’ennesimo scempio economico, sociale e ambientale.<br /><br />Perché non è assolutamente detto che l’impianto sarà pronto per l’inizio dei Giochi. Anzi, con tutta probabilità non lo sarà. E soprattutto non è detto che il Cio (Comitato Olimpico Internazionale) che aveva chiesto – per non dire preteso – che le gare di bob fossero ospitate all’estero, approvi l’impianto.<span><a name='more'></a></span><br />La sequenza temporale di questo disastro è allucinante. Dopo anni di incertezze, rimpalli, cambi di sede e cambi di idee, sempre che ce ne sia stata una, all’inizio di febbraio una trionfante nota diffusa dal ministero dei Trasporti annuncia l’accordo tra Simico spa (la Società Infrastrutture Milano Cortina 2020 – 2026) e l’impresa edile Pizzarotti per la costruzione della pista da bob.<br />La sequenza temporale della distruzione<br /><br />Photo opportunity per i ministri Matteo Salvini (infrastrutture) e Andrea Abodi (sport). Salti di gioia per Luca Zaia, governatore del Veneto, in piena polemica politica sul terzo mandato per i governatori a pochi mesi dalle elezioni regionali. Spesa prevista di 124 milioni di euro, a salire. Spese di manutenzione, se mai l’opera sarà finita, di oltre 1 milione all’anno. Costi ambientali, altissimi. Basti pensare, oltre al disboscamento e alle colate di cemento, alle decine di tonnellate di ammoniaca necessarie per la refrigerazione e il funzionamento.<br /><br />Tre settimane dopo - e non per caso proprio il giorno dell’ispezione dei delegati del Cio agli impianti italiani in tragico ritardo - ecco che il cantiere improvvisamente comincia a lavorare. Alla presenza di Giovanni Malagò, boss del Coni (Comitato Olimpico Italiano) nonché presidente della Fondazione Milano-Cortina, di Andrea Varnier, amministratore delegato della Fondazione, e dei vertici Simico. Tutti vestiti a festa.<br /><br />E in un attimo ecco rombare le motoseghe della Lgb Forestal Service Srls di Luca Ghedina, vincitore dell’appalto e per puro caso fratello dell’ex azzurro di sci Kristian Ghedina. Motoseghe che rombano per abbattere i larici secolari. Altro che photo opportunity. Miglior immagine per raccontare lo scempio di Milano-Cortina 2026. E di tutte le altre Olimpiadi non potrebbe infatti esserci. Questa immagine un giorno diventerà un simbolo, e dovrà tormentare per sempre gli autori di questa assurdità.<br /><br /><b>Lo sport come annientamento</b><br />Perché oramai il “delitto” è commesso. Gli abitanti della zona, i movimenti e gli ambientalisti stanno protestando. E continueranno a farlo. La procura della Repubblica di Belluno ha aperto un fascicolo d’indagine contro ignoti, per verificare i contenuti di un esposto di Italia Nostra sulla demolizione della vecchia pista olimpica. Ma se anche i lavori venissero bloccati, il Cio non desse il via libera e la pista non fosse completata, cosa assai probabile, oramai il dado è tratto.<br /><br />Gli appalti sono stati firmati, i primi bonifici sono stati effettuati. Le foto sono state scattate e gli alberi sono stati abbattuti. Il governo italiano e il Coni hanno finalmente rivelato a cosa serve per loro la pratica sportiva: a fare soldi. In nome del profitto, a loro dei costi umani, sociali e ambientali di Milano-Cortina 2026 non frega evidentemente assolutamente nulla.<br /><br />Ma non è finita qui. Prima abbiamo forse scritto di demolizione di una vecchia pista olimpica di bob? Certo, perché a Cortina c’era già una pista di bob, intitolata al bobbista Eugenio Monti e… chiusa nel 2008, perché troppo onerosa da mantenere! E c’era una pista di bob anche a Cesana, in Piemonte, costruita per le Olimpiadi di Torino 2006, al modico costo di oltre 110 milioni e... abbandonata nel 2011 perché troppo onerosa da mantenere.<br /><br />Due ferite di cemento che ancora insanguinano le montagne, due mostri che urlano di dolore. Due scheletri che sono lì a ricordare come nel tardo capitalismo sport non significhi salute, ma solo annientamento e distruzione. E date le minime probabilità di apertura dell’impianto, ecco il peggio: la terza ferita è stata inferta solo per diletto. E per guadagnare due spiccioli.<br /><br /><b><i><span style="color: #2b00fe;">Luca Pisapia per Valori</span></i></b></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-41356129732076529232024-02-28T16:58:00.000+01:002024-02-28T16:58:58.446+01:00Germania, qual è il programma di Sarah Wagenknecht per le elezioni europee?<i>Nella bozza del programma elettorale per le europee del Bündnis Sahra Wagenknecht (Bsw) l’Europa viene definita “colonia digitale” degli Stati Uniti, si rifiuta con forza l’adesione dell’Ucraina, si chiede di non proibire i motori a combustione e di riprendere le importazioni di gas russo</i><br /> <br /><div><b><span style="color: #666666;">di </span></b></div><div><br /></div><div>Il Bündnis Sahra Wagenknecht (Bsw) in caso di vittoria elettorale intende sforbiciare l’Unione Europea e tra le altre cose, smantellare l’attuale politica di protezione del clima. Ad esempio, lo scambio di certificati di CO₂ deve essere abolito. “Questo scambio di certificati è del tutto inadatto a raggiungere gli obiettivi di politica climatica”, si legge nella bozza del programma elettorale europeo del nuovo partito, resa disponibile anche allo Spiegel. <span><a name='more'></a></span>La “Frankfurter Allgemeine Zeitung” e l’agenzia di stampa dpa ne avevano inizialmente dato notizia. Il Bsw chiede anche l’uso indefinito di motori a combustione e il ritorno alle importazioni di petrolio e gas dalla Russia.<br /><br />L’Alleanza <a href="https://vocidallagermania.it/2023/10/24/perche-abbiamo-deciso-di-lasciare-la-linke-ormai-troppo-infighettita/">Sahra Wagenknecht </a>è stata fondata ufficialmente la scorsa settimana e intende presentarsi per la prima volta alle elezioni europee del 9 giugno. La bozza di programma sarà discussa alla conferenza del partito il 27 gennaio.<br /><br /><b>Contro l’allargamento dell’Ue</b><br />Il documento critica sostanzialmente l’Ue nella sua forma attuale e ne chiede lo smantellamento: “L’Ue nella sua forma attuale è dannosa per l’idea europea”, si legge. L’obiettivo è formulato come segue: “Ciò che può essere regolato meglio e più democraticamente a livello locale, regionale o nazionale non deve essere lasciato alla frenesia normativa della tecnocrazia dell’Ue”.<br /><br />Se necessario, la Germania non dovrà aderire alle regole dell’Ue: il Bsw sostiene “la non attuazione dei requisiti dell’Ue a livello nazionale se sono contrari alla ragione economica, alla giustizia sociale, alla pace, alla democrazia e alla libertà di espressione”. Ma ciò sarebbe in contraddizione con il principio che le regole dell’Ue sono vincolanti per tutti i 27 Stati membri.<br /><br />La bozza di programma del Bsw afferma anche che il bilancio dell’Ue non dovrebbe crescere ulteriormente e che l’Ue non dovrebbe avere proprie entrate finanziarie. Inoltre, per il momento non dovrebbero entrare nuovi membri, nemmeno l’Ucraina. È necessaria “una moratoria sull’allargamento dell’Ue”.</div><div><br /></div><div><b><i><span style="color: #2b00fe;">Continua la lettura su Voci dalla Germania</span></i></b></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-67936663197869671572024-02-28T16:42:00.002+01:002024-02-28T16:42:20.986+01:00Il cambio di rotta di von der Leyen e il baricentro Ue spostato sempre più a est<i>Se la presidente della Commissione europea fosse confermata per un secondo mandato, la sua agenda politica sarebbe orientata più su sicurezza e difesa in funzione anti russa. In questo nuovo quadro politico, la Polonia e i Paesi Baltici potrebbero aspirare a ruoli di peso</i><br /><div><br /></div><div><b><span style="color: #666666;"><a href="https://www.linkiesta.it/author/matteo-fabbri/"></a>di Matteo Fabbri</span></b></div><br />A margine del Consiglio federale dei cristiano-democratici tedeschi (Cdu) di qualche giorno fa a Berlino, Ursula von der Leyen ha annunciato che <a href="https://www.linkiesta.it/2024/02/ursula-von-der-leyen-candidatura-presidente-commissione-ue/">intende ricandidarsi</a> per un secondo mandato alla presidenza della Commissione europea. La decisione è stata «consapevole e ben ponderata». L’ufficialità dovrebbe arrivare durante il prossimo congresso del Partito Popolare europeo che si terrà a Bucarest il 6 e il 7 marzo. La presidente della Commissione europea affronterà una sfida diversa rispetto a cinque anni fa. Stando ai sondaggi potrebbe prefigurarsi nuovamente una maggioranza di centro con socialisti e liberali ma l’ascesa dei partiti nazionalisti e della destra è un fattore che non può essere trascurato. <span><a name='more'></a></span>Questo von der Leyen lo sa e dopo aver incassato l’appoggio dei popolari la leader tedesca continuerà a lavorare per cercare la sponda dei leader dei Paesi europei.<br /><br />Le verrà chiesto un cambio di rotta su alcune tematiche (green deal in primis) anche se per il momento la presidente della Commissione sembra voler seguire la strada segnata in questi ultimi anni. Sicuramente al centro dell’agenda ci saranno sicurezza e difesa. Von der Leyen ha annunciato che qualora dovesse essere nuovamente a capo di Palazzo Berlaymont istituirebbe un super commissario alla difesa. Una mossa dettata ovviamente dall’invasione russa e dai recenti sviluppi geopolitici ma anche dall’incertezza sulle future scelte degli Stati Uniti. A Bruxelles c’è la consapevolezza che la minaccia della Russia non è destinata a svanire in poco tempo e che l’Europa dovrà tornare a dotarsi di un’industria e di una strategia militare all’avanguardia, al di là delle scelte americane. Le divisioni su questo tema restano tante tra i ventisette e le difficoltà a mettersi d’accordo si palesano praticamente ogni volta che c’è da fare un acquisto comune di munizioni da inviare in Ucraina.<br /><br />Von der Leyen non è mai stata una sostenitrice della linea francese sulla sovranità militare e continua a ritenere imprescindibile la forte alleanza con gli Stati Uniti e la Nato. Mettendo al centro dell’agenda politica la difesa europea, però, la presidente della Commissione fa un passo deciso verso Emmanuel Macron — il cui appoggio sarà fondamentale in vista delle elezioni europee — che spinge da tempo per l’indipendenza europea nel settore della difesa. L’inquilino dell’Eliseo si immagina una nuova Commissione a trazione franco-tedesca con forti investimenti nell’industria bellica europea e con l’attuale Commissario per il mercato interno Thierry Breton molto vicino a von der Leyen.<br /><br /><i><b><span style="color: #2b00fe;">Continua la lettura su <a href="https://www.linkiesta.it/2024/02/von-der-leyen-ue-est-francia-polonia-germania/" target="_blank">Linkiesta</a></span></b></i>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-83868875734905630502024-02-27T17:55:00.000+01:002024-02-27T17:55:01.215+01:00Reddito di cittadinanza, i numeri di un’esperienza chiusa<i>Quanti e chi sono stati i beneficiari del Reddito di cittadinanza? Un’analisi della misura eliminata dal governo per capire l’area geografica di residenza, la cittadinanza di chi lo ha richiesto e la presenza o meno di minori e disabili in famiglia</i><br /><div><br /></div><div><b><span style="color: #666666;">di Massimo Baldini e Stefano Toso</span></b><br /><br />Con il primo accredito mensile dell’Assegno di inclusione, avvenuto il 26 gennaio, può dirsi definitivamente conclusa l’esperienza del Reddito di cittadinanza (che diventa Pensione di cittadinanza se in famiglia tutti hanno almeno 67 anni), la misura di politica attiva del lavoro e di contrasto della povertà in vigore dall’aprile 2019 al dicembre 2023. A prenderne il posto sono ora il Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl) e l’Assegno di inclusione (Adi).<br /><br />È ancora presto per avere un quadro attendibile dell’impatto delle nuove misure, anche se i primi dati sembrano confermare le previsioni di una notevole riduzione nel numero di beneficiari rispetto al Rdc. <span><a name='more'></a></span>Più utile in questa fase, invece, può essere una valutazione dell’andamento temporale dei trasferimenti erogati nel quadriennio in cui sono stati in vigore Reddito e Pensione di cittadinanza, disaggregando il numero dei nuclei beneficiari per alcune caratteristiche socio-demografiche, come l’area geografica di residenza, la cittadinanza del richiedente e la presenza o no di minori e di disabili in famiglia.<br /><br /><b>I numeri di chi lo ha percepito</b><br />Stando ai dati dell’Osservatorio statistico dell’Inps (figura 1), tra aprile 2019 e luglio 2021 il numero delle famiglie che hanno ricevuto il Rdc/Pdc è più che raddoppiato, fino a un massimo di 1,4 milioni. Luglio di due anni dopo (2023) è l’ultimo mese nel quale il Reddito di cittadinanza è rimasto una misura di carattere universale, perché dal mese successivo non potevano più riceverlo le famiglie (eleggibili per il neonato Sfl) in cui non fosse presente almeno un minore, un disabile o una persona di 60 anni e più. A luglio 2023 il numero di nuclei percettori di Rdc/Pdc è stato poco sopra il milione. Nella seconda parte del 2023 si dovrebbe quindi notare un cambiamento nelle caratteristiche dei residui beneficiari del Rdc/Pdc, che dovrebbero risultare più simili ai nuclei che possono ottenere l’Adi. Alla fine del 2023 il numero di famiglie con Rdc o Pdc si è ridotto a circa 722 mila, il 2,8 per cento delle famiglie italiane.<br /><br /><b><i><span style="color: #2b00fe;">Continua la lettura su <a href="https://lavoce.info/archives/103822/reddito-di-cittadinanza-i-numeri-di-unesperienza-chiusa/" target="_blank">Lavoce.info</a></span></i></b></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-7984566036200356322024-02-27T17:49:00.001+01:002024-02-27T17:49:54.670+01:00Nuovi Btp Valore: non sono una fregatura, ma per non rischiare è meglio altro<i>Prima i Btp Futura, poi i Btp Valore e magari l’anno prossimo tireranno fuori un altro nome, che ugualmente non significa nulla. O addirittura serve a mettere in sordina figuracce passate. Vedi i Futura in perdita di un 33% in termini nominali rispetto al prezzo di sottoscrizione</i><br /><br /><b><span style="color: #666666;">di Beppe Scienza*</span></b><div><br /></div><div>Nella sostanza, sono sempre titoli di Stato a tasso fisso con soltanto qualcosetta di diverso: cedole crescenti, un premiolino per chi li tiene fino al rimborso, modestissimi interessi aggiuntivi al verificarsi di determinati eventi ecc. È successo spesso, pure per la nuova emissione del Tesoro di Btp Valore 2023-28, partita il 2 ottobre. Ed è rimasta invariata persino l’antipatica regola di comunicare i tassi definitivi solo <i>“dopo”</i> la chiusura del collocamento per i risparmiatori che vengono quindi costretti a comprare a scatola chiusa, mentre gli investitori istituzionali possono decidere in condizioni di informazione completa.<span><a name='more'></a></span><br />Conviene sempre concentrare l’attenzione sugli aspetti sostanziali, senza lasciarsi distrarre da quelli secondari, spesso enfatizzati in buona o mala fede. Così è irrilevante il pagamento trimestrale anziché semestrale degli interessi: cosa cambia a incassare più o meno un 1% (lordo) del capitale ogni tre mesi anziché un 2% ogni sei?<br /><br />Comunque i Btp Valore non sono un imbroglio, per cui possono anche andare bene piuttosto che prendersi sul groppone le polizze che le banche sbolognano ai risparmiatori o versare soldi nella previdenza integrativa. Inoltre può pure andare bene, se l’inflazione scende abbastanza stabilmente e di conseguenza anche i tassi d’interesse.<br /><br />Ma è opportuno avere presente anche gli scenari sfavorevoli; e quindi magari pensare ad altre alternative. I Btp Valore espongono a rischi, che non si corrono con altri titoli, anche ugualmente di Stato. Tali rischi sono di due tipi.<br /><br />Primo, quello relativo ai tassi di interesse. Se questi salgono, scendono le quotazioni e quindi, nel caso di bisogno di soldi, vendendo si ricaverebbe meno. A questo riguardo sono meglio i Certificati di Credito del Tesoro (Cct), indicizzati a tassi di mercato, perché così i loro prezzi restano più vicini a 100.<br /><br />Ma il secondo rischio è il peggiore e riguarda l’inflazione. Se questa riparte, di fatto si subisce una perdita anche se le quotazioni restano abbastanza stabili. Non ci si rimette, solo quando esiste un qualche meccanismo di compensazione dell’inflazione, agganciando a essa cedole o aumento del valore nominale. Avviene così per i Btp Italia, i Btp-i e corrispondenti esteri: Oat-ei, Bund-ei ecc.<br /><br />A questo proposito merita aggiungere una precisazione sui Btp Futura 2021-37, cui si è alluso all’inizio dell’articolo. Dall’emissione il costo della vita in Italia è aumentato del 15%, per cui la perdita reale arriva al 42%, solo in minima parte compensata dai modesti interessi incassati.<br /><br /><i style="background-color: white; color: #666666; font-family: "Times New Roman", Times, FreeSerif, serif; font-size: 15.4px;"><span style="font-family: "times new roman", times, freeserif, serif;">* </span><span style="font-family: "times new roman", times, freeserif, serif;">Beppe Scienza</span><span style="font-family: "times new roman", times, freeserif, serif;"> è Professore universitario presso l'ateneo di Torino e saggista. Dal 2001 mette in rete informazioni e denunce sul tema del risparmio e della previdenza attraverso il suo sito: <a href="http://www.ilrisparmiotradito.it/" style="color: #888888; text-decoration-line: none;" target="_blank">Il Risparmio Tradito®</a></span></i></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-12365094595559969252024-02-27T16:12:00.001+01:002024-02-27T16:12:43.370+01:00Nodo immigrazione: tentativo di governo per Biden, campagna elettorale per Trump<i>Donald Trump critica il disegno di legge sull’immigrazione senza leggerlo, preferendo sfruttare il tema per fini elettorali, e ostacolando il progresso legislativo attraverso la sua influenza. Il nuovo articolo di Domenico Maceri sulla politica statunitense</i><br /><div><br /></div><div><b><span style="color: #666666;">di Domenico Maceri</span></b><br /><br />«È un pessimo disegno di legge per la sua carriera». Così Donald Trump ha commentato l’intesa sull’immigrazione guidata da James Lankford, senatore repubblicano dell’Oklahoma, preparata in cooperazione con Kyrsten Sinema, senatrice indipendente dell’Arizona, e Chris Murphy, senatore democratico del Connecticut. Trump non aveva nemmeno letto la bozza del disegno di legge, ben 370 pagine di testo, ma aveva bocciato l’iniziativa perché vuole usare il caos al confine col Messico nella campagna elettorale. L’ex presidente vede l’immigrazione come punto debole di Joe Biden e non vuole parlare di soluzioni che potrebbero aiutare il suo probabile rivale alle presidenziali di quest’anno.</div><div><br />La bozza sull’immigrazione consisteva in realtà di un pacchetto di 118 miliardi di dollari che includeva anche fondi per l’Ucraina, Israele e alcuni Paesi dell’Asia. <span><a name='more'></a></span>Per quanto riguarda il confine col Messico la misura includeva 20 miliardi da spendere per i controlli dei migranti. Si credeva che il mix avrebbe ottenuto abbastanza supporto bipartisan conquistando i 60 voti necessari per sottoporlo al voto del Senato. Dopodiché la misura sarebbe arrivata alla Camera e alla fine alla Casa Bianca per la firma di Biden. Nulla di ciò è avvenuto poiché gli attacchi di Trump hanno minato il percorso uccidendo l’intesa bipartisan.<br /><br />La misura non era perfetta ma si trattava di passi avanti per affrontare il nodo immigrazione. Il fatto che l’ultra conservatore sindacato delle Guardie della Frontiera lo avesse approvato ci conferma che esistono punti di un certo valore. C’erano però opposizioni dai repubblicani spronati da Trump al Senato che hanno persino spaventato Mitch McConnell. Il senatore del Kentucky e leader della minoranza repubblicana al Senato si era dichiarato favorevole ma una volta emerso il “veto” di Trump ha alzato bandiera bianca. Si era opposta anche la sinistra vedendo nella bozza aspetti disumani che riflettono l’aspra politica dell’amministrazione Trump. Chuck Schumer, senatore democratico di New York e presidente della Camera Alta, ha sottomesso la misura al voto, sapendo benissimo che sarebbe stata bocciata. Infatti, solo 49 senatori hanno votato a favore, 11 meno del requisito per procedere al voto. I 49 voti favorevoli includono 45 democratici e 4 repubblicani. Sei senatori democratici hanno votato contro incluso Schumer, il che gli darebbe l’opportunità di riproporre la misura in futuro anche se questa possibilità appare molto remota.<br /><br />L’opposizione alla Camera era già stata annunciata dallo speaker Mike Johnson anche prima di avere letto il testo della bozza. Si tratta di una presa di posizione strettamente politica poiché Trump ha il controllo quasi totale dei parlamentari repubblicani mentre al Senato il suo controllo è meno solido. La Camera, infatti, per fare piacere a Trump e mantenere in primo piano la questione dell’immigrazione, ha tentato di sottoporre Alejandro Mayorkas, segretario della Homeland Security (Interni) all’impeachment. Mayorkas era accusato di non avere gestito bene la situazione al confine senza però offrire documentazioni esaurienti. Si trattava semplicemente di una misura con toni strettamente politici che cercavano di colpire indirettamente Biden. Nonostante la maggioranza repubblicana alla Camera la misura è stata bocciata (216 contrari, 214 favorevoli). Un esito imbarazzante per lo speaker che non era riuscito a calcolare quanti dei suoi colleghi lo avrebbero appoggiato. Un altro tentativo di approvare un pacchetto per Israele si è rivelato anche un fiasco per Johnson che fino adesso continua ad avere il sostegno di Trump ma potrebbe vedersi rimpiazzato da un altro “golpe” come è successo al suo predecessore Kevin McCarthy.<br /><br />Trump ha intuito molto bene che una legge che migliori la situazione al confine gli toglierebbe una probabile carta vincente all’elezione di novembre. Risolvere la crisi sull’immigrazione non entra affatto nel suo programma come avviene non solo in America ma in altri Paesi. I repubblicani e la destra in generale si possono dichiarare duri contro i migranti e riescono a cogliere frutti elettorali mediante la paura causata dagli stranieri. Nel caso di Trump l’immigrazione irrisolta sta diventando sempre più importante poiché le altre questioni che prima erano problematiche per Biden come l’economia e l’inflazione sono già migliorate. Difatti persino la Fox News, la rete di Rupert Murdoch, grande alleata di Trump, ha recentemente fatto notare che l’economia con Biden sta andando a gonfie vele. Ciononostante l’americano medio continua a non crederci ma i sondaggi più recenti ci indicano che gli americani stiano aprendo gli occhi a questo fatto.<br /><br />Il senatore Lankford, commentando la presa di posizione di Trump sul suo disegno di legge in un’intervista alla Cnn, ha chiarito giustamente che il leader del suo partito “si sta concentrando sulla campagna elettorale”. Lui invece si sta concentrando “a fare tutto quello che può per la sicurezza del Paese senza considerazione dei cicli elettorali”. Lankford è stato rieletto al Senato nel 2022 avendo ottenuto l’endorsement di Trump. La prossima volta che dovrà correre per rielezione sarà nel 2028 e ovviamente spera che Trump sarà fuori dalla politica. Forse allora il Partito Repubblicano ritornerà ai suoi valori tradizionali invece di riflettere i capricci personali di un leader con tendenze dittatoriali.</div><div><br /></div><div><b><i><span style="color: #2b00fe;">Domenico Maceri per <a href="https://giuliochinappi.wordpress.com/" target="_blank">World Politics Blog</a></span></i></b></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-66448851407976281002024-02-23T08:25:00.001+01:002024-02-23T08:25:00.131+01:00Breve storia della nostra inerzia<i>Ha una lunga storia l’inerzia. Lunga e accidentata. Tutta da scrivere. Non è soltanto un oggetto d’analisi o un tema di riflessione. L’inerzia ci compete. Ci siamo dentro, ne siamo parte. I suoi molti nomi (accidia, malinconia, noia, apatia, e l’ultima delle sue figure, “la stasi ad alta velocità” di cui parla il sociologo Hartmut Rosa), la sua ipotetica storia, sono tra i miei pensieri impazienti fino all’assillo</i><br /><div><br /></div><div><b><span style="color: #666666;">di Maurizio Ciampa</span></b><br /><br />Insediata da sempre nel recinto dell’esperienza umana, l’inerzia compendia i suoi umori corrosivi, i fantasmi di dissoluzione, le rovinose abulie. È la faglia instabile su cui si accumulano scorie d’esistenza, ombre e spettri di vita mancata, voci smarrite di flebili narrazioni, che, in fitta schiera, s’intrecciano, s’ingarbugliano lungo l’asse del tempo, s’arruffano in una sgangherata algebra dello spirito vinto. Dove l’uomo disegna con vigore progettuale e fervida frenesia fondativa, il suo profilo di vita, lì attorno, consumato il loro slancio, si gonfiano le “acque sporche e morte” dell’inerzia, la sua “palude”.</div><div><br />Suoi abili cacciatori erano i monaci del deserto nei primi secoli dell’era cristiana. <span><a name='more'></a></span>Esploratori dell’anima e dei suoi movimenti più nascosti e insidiosi, i monaci vivevano in appartata e silenziosa solitudine, ma sembravano avere familiarità con la vita degli uomini. Il loro sguardo sapeva attraversare i pantani della psiche rimasta impigliata nell’inerzia <br /><br />I monaci la chiamavano accidia. Evagrio, nel III secolo, si occupa dell’accidia perché ce l’ha in casa. È il mostro in agguato nella quiete solitaria delle celle, prendendo il volto di un’indomabile irrequietezza, o, al contrario, del torpore, del tedio, dell’indolenza, del ripiegamento malinconico o della crucciata tristezza. Nei piccoli monasteri il mondo rotola nell’accidia, e nell’accidia si disfa. “Non vi è passione peggiore”, si legge nella Vita e detti dei Padri del deserto. <br /><br />Attorno all’accidia cresce il fronte mobile di una durissima guerra spirituale. <br /><br />Demone meridiano così viene anche detta l’accidia, perché prende d’assedio il monaco nell’ora più calda. Il giorno appare una distesa senza confini, come il deserto che circonda il monastero. Una luce oppressiva irretisce lo spirito, lo fiacca, lo svuota. È in quell’ora che l’accidia libera i suoi veleni, infetta i cervelli, contagia le anime fino a provocarne la paralisi. Soffoca lo spirito. E lo spirito, “vinto, sfinito”, “infestato dalla vertigine”, fa esperienza di tutte le gradazioni del tedio. Dai suoi deliqui germina l’apatia, morte in vita, che soppesa l’Essere e ne scompone la trama. <br /><br />Risalendo i secoli, quel vortice di tristezza avvolge nel suo manto funebre anche il tempo della Modernità. La rappresentazione esemplare dell’inerzia malinconica è una figura femminile dalla testa reclina, Melanchonia I, la notissima incisione di Durer del 1514. Attorno alla figura che occupa la scena, abbandonati, gli strumenti del fare. Spenti gli occhi sul mondo, il malinconico non può che guardarsi dentro. Apre, penetra, lacera, seziona, classifica, come si presume abbia fatto l’anatomista del Rinascimento. Il temperamento malinconico inclina all’anatomia, rileva Jean Starobinski. Non del corpo e dei suoi organi, ma dell’anima.</div><div><br /></div><div><b><i><span style="color: #2b00fe;">Continua la lettura su <a href="https://www.doppiozero.com/breve-storia-della-nostra-inerzia" target="_blank">doppiozero</a></span></i></b></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-55007500630167612992024-02-22T17:31:00.000+01:002024-02-27T17:31:39.227+01:00Produzione di auto, la Francia non ride<div><i>Il divario tra immatricolazioni e produzione resta il punto centrale in paesi come Francia e Italia: i veicoli a minore prezzo e marginalità migrano verso i paesi emergenti. Nessuno, in questo scenario, può dirsi al riparo da future erosioni di produzione da delocalizzazione</i><br /><br /></div><div><b><span style="color: #666666;">di Mario Seminerio</span></b></div><div><br /></div><div>Mentre in Italia proseguono le <a href="https://phastidio.net/2024/02/01/lhub-dei-sogni-e-il-btp-da-rottamazione/">lamentazioni contro Stellantis</a> e il suo azionista italiano Exor, al di là delle Alpi c’è chi ha pensato di verificare i numeri e la situazione, per capire quanto c’è di vero nella posizione italiana. Sta prendendo piede, a fini di dibattito politico, una metrica industriale: la differenza tra produzione nazionale e immatricolazioni. <span><a name='more'></a></span>Sappiamo che, per l’Italia, questo distacco è considerevole, data la presenza di un solo produttore nel paese.</div><div><br /></div><div><b>Il gap tra immatricolazioni e produzione</b></div><div>Ma anche in Francia la situazione non appare esaltante, almeno letta con le lenti del sovranismo industriale. Nel 2023 le immatricolazioni di auto nuove sono cresciute del 15 per cento, a fronte di una crescita della produzione domestica dell’8 per cento, per un totale di circa 1,5 milioni di unità, secondo dati di S&P Global <a href="https://www.lesechos.fr/industrie-services/automobile/automobile-le-made-in-france-tourne-toujours-au-ralenti-2074198">citati da Les Échos</a>. Per confronto, la produzione europea è aumentata del 13 per cento sul 2022.</div><div><br />Per il secondo anno consecutivo, il più grande sito francese di produzione di auto è quello dei giapponesi di Toyota a Onnaing, vicino Valenciennes, con 273 mila vetture realizzate, quasi esclusivamente il Suv urbano Yaris Cross, e un incremento del 7 per cento sul 2022.<br /><br />Dove il gap tra immatricolazioni e produzione è risultato vistoso, nel 2023, è in casa di Renault: più 18,3 per cento le immatricolazioni, pressoché tutte sul marchio principale, ma una crescita di produzione domestica di solo il 3,6%. La spiegazione è immediata: i modelli più venduti, come la bestseller nazionale Clio ma anche le Dacia Sandero e Duster, sono prodotti fuori dalla Francia: in Turchia, Marocco e Romania. Langue, per contro, il polo Renault dell’elettrico, a Douai, con solo 51 mila esemplari della Megane E-Tech, ben inferiori alle attese.<br /><br />Diversa la situazione per Stellantis, la cui produzione francese è aumentata nel 2023 del 9 per cento, a 737 mila veicoli, a fronte di un aumento di immatricolazioni di solo il 2,2 per cento. Ma è fuori dalla Francia che Stellantis registra forti crescite produttive: in Germania (+64 per cento e 160 mila veicoli), grazie al successo dei nuovi modelli Opel; in Polonia (+57 per cento e 304 mila unità), grazie alla Fiat 500 e Avenger; e più 35 per cento in Marocco, con la Peugeot 208.<br /><br /><b>Stellantis, più Italia che Francia</b><br />Ma per la Francia, la tendenza di lungo termine è comunque alla decrescita di produzione: dal 2019 al 2023, mancano 800 mila veicoli. Oggi sono a 2,2 milioni di unità, nel lontano anno di picco storico, il 2004, erano a 3,7 milioni.<br /><br />Dopo tutti questi numeri, il senso è che la divaricazione tra immatricolazioni e produzione resta il punto centrale in paesi come Francia e Italia, e che i veicoli a minore prezzo e marginalità migrano verso i paesi emergenti. Ma c’è dell’altro, e <a href="https://www.lesechos.fr/industrie-services/automobile/stellantis-carlos-tavares-privilegie-t-il-vraiment-la-france-a-litalie-2074136">lo riporta sempre Les Échos</a>, che ha verificato il fondamento delle lamentazioni italiane, scoprendo che dal 2019 il numero di veicoli usciti dalle linee transalpine di Stellantis è crollato del 40 per cento, da 1,2 milioni a 737 mila, mentre gli impianti italiani del gruppo hanno limitato la caduta all’8 per cento, a 748 mila, cioè poco più della produzione complessiva francese del marchio guidato da Carlos Tavares.<br /><br />Nel totale sono inclusi i veicoli commerciali. Il vantaggio italiano è determinato dall’impianto di Atessa, in Abruzzo, da dove esce il Ducato Fiat. Questo potrebbe essere sufficiente a legittimare i politici francesi, dall’Eliseo in giù, a chiedere d’imperio a Tavares di “fare qualcosa” e riportare le produzioni in Francia. Se non fosse che Stellantis pare punti sull’ex stabilimento Opel in Polonia per le stesse produzioni.<br /><br />Inoltre, sempre secondo <i>S&P Global</i>, Stellantis in Europa punta con forza ai siti polacco, slovacco e serbo, che entro il 2025 potrebbero aumentare la produzione del 38% e toccare le 788 mila unità prodotte. Quindi è un problema, per l’Italia ma anche per la Francia. Certo, il nostro paese ha lo svantaggio del “monocostruttore”, ma la Francia non può dirsi al riparo da future erosioni di produzione da delocalizzazione.<br /><br />Per quanto riguarda Melfi, oggi impegnata sulla Fiat 500X e sulle Jeep Compass e Renegade, pare che l’evoluzione vada verso il monoflusso, cioè una sola linea di produzione, e gli impegni del costruttore per gli anni a venire vanno verso l’alto di gamma elettrico, quindi limitati volumi di produzione.<br /><br />Come si può inferire, la situazione è complessa, e per il momento la presenza di un governo nell’azionariato non consente di identificare dei “favoritismi” di insediamento. Il commento di Les Échos termina con una considerazione, riferita alla posizione di Giorgia Meloni, secondo la quale se un “gioiello” italiano non è costruito su suolo nazionale, andrebbe evitato di definirlo tale. Un peccato che per le auto non valga la denominazione di origine controllata. <br /><br />L’unica cosa che servirebbe controllare è il senso del ridicolo.</div><div><br /></div><div><b><i><span style="color: #2b00fe;">Mario Seminerio per <a href="http://Phastidio.net">Phastidio.net</a></span></i></b></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-4013484842672600272024-02-21T17:58:00.045+01:002024-02-27T18:10:08.465+01:00Romania e fondi comunitari: un paese in costante ritardo<i>Dal 2007, anno dell’ingresso della Romania nell’Unione Europea, nel paese sono affluiti oltre 62 miliardi di euro Ue. Sarebbero potuti essere di più, ma lo stato romeno non è riuscito ad attirarli tutti. Perché?</i><br /><br /><b><span style="color: #666666;">di Laura Popa</span></b><br /><br />Nel gennaio 2007, quando la Romania ha festeggiato la sua adesione all’Unione europea, oltre la metà della popolazione nel paese non aveva fognature, il rapporto Pil/pro capite era inferiore alla metà della media europea e il salario netto medio era di 1042 lei (circa 210 euro, <i>n.d.r.</i>). Il paese guardava con fiducia al progetto europeo (il livello di fiducia nell'Ue nel 2007 era al 75%) e con speranza alle decine di miliardi di Euro comunitari destinati a strade, acqua, fogne, scuole e ospedali. La Romania sognava di essere un paese moderno.<br /><br />Sedici anni dopo, il Pil pro capite della Romania è vicino a quello di Ungheria e Polonia, il salario netto medio ha raggiunto i 4593 lei [920 euro] e nel paese sono affluiti più di 62 miliardi di Euro dall'Unione europea. <span><a name='more'></a></span>Sarebbero potuti essere di più, ma lo Stato non è riuscito ad attirarli tutti.<br /><br /><b>La Romania beneficia dei fondi UE sin dalla pre-adesione</b><br />La politica di coesione è lo strumento principale con cui l’Ue investe nei suoi paesi membri. A che scopo? Ridurre le disparità economiche, sociali e territoriali all’interno del blocco europeo. Dal 2007, la politica di coesione ha portato alla Romania decine di miliardi di euro.<br /><br />«Quasi sedici anni dopo l'adesione, la Romania ha contribuito con circa 21 miliardi di Euro al bilancio dell'UE e, parallelamente, ha ricevuto 62 miliardi di Euro. Quindi un saldo positivo di almeno 41 miliardi», spiega Ana-Maria Icătoiu, esperta in materia di accesso ai fondi Ue e vicepresidente dell'Organizzazione delle donne imprenditrici Ugir (Ofa).<br /><br />I fondi dell’Ue sono affluiti in Romania sin dalla fase di pre-adesione, dando impulso ad alcuni settori, come l’agricoltura.<br /><br />«Prima di entrare nell’Ue, la Romania disponeva di alcuni programmi sul riscaldamento, i cosiddetti programmi Phare, che hanno permesso di costruire molti impianti di trasformazione. E questo ha dato i suoi frutti, perché ha consentito il passaggio ai fondi europei», ha spiegato l'analista economico Constantin Rudnițchi.<br /><br />Eppure, l’esperienza pre-adesione non sembra aver aiutato molto la Romania. A causa delle difficoltà burocratiche e strutturali e, a volte, della riluttanza dei decisori politici ad utilizzare i fondi europei, che sono molto più severamente controllati, il paese lotta ancora per risorse che altri membri attraggono molto più facilmente.<br /><br />Nel primo settennato finanziario, quello del 2007-2013, la Romania ha attirato con grandi sforzi burocratici il 91% dei fondi disponibili.<br /><br />Per il periodo seguente, quello 2014-2020, la Romania aveva a disposizione 41 miliardi di euro di fondi Ue, ma è riuscita ad attrarne solo l'82%.<br /><br />Oggi la Romania è al suo terzo settennato finanziario: ha a disposizione 46 miliardi di Euro (compresa la parte di cofinanziamento), ma anche i fondi del Programma nazionale di sviluppo rurale (Nrdp), con oltre 30 miliardi.<br /><br /><b>Primo contatto con i fondi Ue. Prime priorità</b><br />Le prospettive oggi non appaiono però positive. Se l’Ue si espanderà, i fondi di coesione che riceverà la Romania saranno molto inferiori a quelli attuali. «È praticamente l'ultimo treno sul fronte della coesione», ha affermato l’eurodeputato Reper Dragoș Pâslaru.<br /><br />Dopo l’adesione, la Romania ha potuto accedere ai fondi Ue per l’anno finanziario 2007-2013, per un totale di circa 27 miliardi di Euro nell’ambito di sette programmi operativi.<br /><br />Le priorità all’epoca erano gli investimenti in infrastrutture e accessibilità, ovvero nuove strade. Al secondo posto troviamo la ricerca e l'innovazione, le Pmi, l'istruzione e la formazione, l'inclusione sociale e l'ambiente.<br /><br />«Alla fine del primo periodo di programmazione, 2007-2013, a causa della pessima situazione in termini di assorbimento reale alla fine del periodo, cioè intorno al 2014-2015, perché ogni volta il periodo viene prorogato di un anno o due, sono stati realizzati alcuni escamotage: alcuni progetti di investimento, molti dei quali realizzati dagli enti locali, compatibili con il programma regionale di allora, sono stati finanziati con fondi europei. Pavimentazioni, parchi, strade, investimenti locali», racconta Icătoiu.<br /><br />Nonostante il denaro stanziato per la Romania nel periodo 2007-2013 non sia stato interamente attratto, i fondi di coesione hanno rappresentato il 35% del totale degli investimenti pubblici effettuati dalle autorità nel periodo in questione, come affermato dall’ex primo ministro Nicolae Ciucă nell’aprile 2023.<br /><br /><b>Sette anni fatti in dieci</b><br />Sette anni dopo, il nuovo ciclo finanziario 2014-2020 è stato negoziato e votato a livello Ue per raggiungere gli obiettivi di "Europa 2020". Per il periodo 2014-2022 erano previste ben undici aree di investimento, tra cui ricerca, sviluppo e innovazione, digitalizzazione, Pmi più competitive, transizione verso un'economia verde, gestione del rischio e cambiamento climatico, conservazione e tutela dell'ambiente, trasporti e investimenti sostenibili nell’istruzione e nella formazione per combattere ogni forma di discriminazione.<br /><br />Alla Romania sono stati stanziati 41 miliardi di euro dai Fondi strutturali e di investimento europei, di cui oltre 35 miliardi dal solo bilancio europeo attraverso la politica di coesione.<br /><br />Il denaro passa da otto programmi operativi gestiti da tre autorità: il ministero degli Investimenti e dei progetti europei, il ministero dello Sviluppo, dei lavori pubblici e dell'amministrazione e il ministero dell'Agricoltura e dello sviluppo rurale.<br /><br />Secondo gli ultimi dati, il tasso di assorbimento dei fondi per il periodo 2014-2020 è poco superiore all’84%.<div><br /></div><div><b><i><span style="color: #2b00fe;">Continua la lettura su <a href="https://www.balcanicaucaso.org/aree/Romania/Romania-e-fondi-UE-un-paese-in-costante-ritardo-229665" target="_blank">Osservatorio Balcani Caucaso</a></span></i></b></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-63899421593164545022024-02-20T17:24:00.019+01:002024-02-27T17:27:51.976+01:00Il tallone d’Achille di Joe? Bibi, non l’età<i> La scelta, il 5 novembre, sarà tra la terza guerra mondiale e la seconda guerra civile”. Contro il primo scenario, cioè Joe Biden, e contro il secondo scenario, cioè Donald Trump, propone la sua agenda pacifista e radical il candidato presidenziale Cornel West</i><div><br /></div><div><b><span style="color: #666666;">di Guido Moltedo</span></b></div><div><br /></div><div>Zero possibilità di diventare un’alternativa realistica ai due principali sfidanti, eppure il grande filosofo e attivista nero è da prendere sul serio. Se non come candidato, certamente come portatore di un messaggio che l’America progressista farebbe bene ad ascoltare. Come quando, al termine di una bella intervista con Stephen Sackur della BBC, fa una disamina molto severa dell’attuale amministrazione, specie della sua politica internazionale, per concludere con l’allarme di una terza guerra mondiale, con Biden rieletto, o di una nuova guerra civile, con Trump presidente.<br /><br />Nessuno dei due scenari si realizzerà in termini così netti, eppure è lo stesso Biden a evocare spesso la catastrofe democratica se sarà eletto il suo rivale, presentando il voto di novembre come un referendum sulla democrazia stessa. <span><a name='more'></a></span>Ed è Trump, dal canto suo, a darne conferma con una campagna elettorale che è un fiume in piena di odio e di violenza verso gli avversari e di minacce di vendetta nei confronti di tutti coloro che hanno cercato di fermarne abusi di potere e tentativi insurrezionali. Ed è ancora Biden a far temere lo scivolamento verso la terza guerra mondiale, con una politica interventista, conseguenza non di una strategia coerente e comprensibile, e neppure di esigenze, per quanto pretestuose, di “sicurezza nazionale”, ma di una serie incrementale di errori tattici e di una sottomissione incondizionata a un alleato che ne detta le mosse. <br /><br />Il rischio che il voto del 5 novembre si svolga in un clima di massimo disordine è altissimo, alimentato dalla reiterata intenzione di Trump, peraltro condivisa dai big del suo partito, di lasciare al loro destino gli alleati della Nato, e in quel clima potrebbe avvenire un avventuroso passaggio dei poteri, al cui confronto il 6 gennaio 2021 potrebbe sembrare solo la prova generale.<br /><div><br /></div><div><i><b><span style="color: #2b00fe;">Continua la lettura su <a href="https://ytali.com/2024/02/13/il-tallone-dachille-di-joe-bibi-non-leta/" target="_blank">ytali.</a></span></b></i></div></div><br />Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-6352657735087822542024-02-13T16:57:00.003+01:002024-02-27T17:19:05.748+01:00Le privatizzazioni spiegate a Giorgia Meloni<i>Riuscirà Javier Milei a compiere il miracolo di vendere ai privati, totalmente, le aziende pubbliche argentine male amministrate? In attesa di conoscere la risposta, sulla stessa materia la nostra presidente del Consiglio agisce in direzione opposta: le eventuali cessioni (di solo quote di minoranza) non escluderebbero il controllo dello Stato<br /><br /></i><div><b><span style="color: #666666;">di Istituto Bruno Leoni</span></b><br /><br /> Il 12 febbraio, la presidente del consiglio, Giorgia Meloni, ha incontrato il presidente dell’Argentina, Javier Milei. Speriamo che abbiano discusso di privatizzazioni, visto che entrambi i governi hanno in programma di cedere partecipazioni pubbliche. Solo che c’è una grande differenza: mentre l’Italia intende vendere quote di minoranza mantenendo però il controllo, la Casa Rosada vorrebbe restituire integralmente al mercato gli asset malgestiti dal pubblico.<span><a name='more'></a></span><br />Non sappiamo, ovviamente, se Milei riuscirà a ottenere il risultato. Per <i>realpolitik</i> ha già dovuto sospendere la privatizzazione del gruppo petrolifero pubblico Ypf, mentre l’idea di regalare le azioni della compagnia di bandiera Aerolineas Argentinas sembra più una battuta che un progetto concreto. Milei deve convivere con un Parlamento dove non ha la maggioranza e, in ogni caso, le privatizzazioni non si disegnano dalla sera alla mattina, ma richiedono una attenta preparazione. Quel che conta, però, è che l’obiettivo non è puramente contabile ma è (per dirla con un’espressione oggi di moda) di politica industriale: fare in modo che il governo non si impicci del mercato, in modo che le imprese possano crescere (o ridimensionarsi) sulla base della loro capacità di offrire prodotti di buona qualità a prezzi competitivi.<br /><br />L’Italia nel passato ha privatizzato molto, se prendiamo come metro il gettito generato dalla vendita degli asset. Ma ha privatizzato poco nel senso che è uno dei paesi che, pur aprendo il capitale di molte imprese pubbliche, ne ha sistematicamente mantenuto il controllo. E, nei pochi casi in cui la cessione è stata totale, si è poi fatto retromarcia: vedi Autostrade e Tim. L’utilizzo del termine privatizzazioni, in questo senso, può essere fuorviante, perché indica tipologie di interventi diversi con finalità differenti, seppure anche solo l’ingresso dei privati nel capitale delle imprese pubbliche possa avere conseguenze positive.<br /><br />Restiamo quindi convinti che poco sia meglio di nulla e che non ci sia alcuna ragione per opporsi al collocamento di piccole quote azionarie delle imprese pubbliche. Ma se, dopo aver incontrato il Papa, Milei avesse convinto Meloni ad andare oltre, avrebbe fatto un vero e proprio miracolo politico.<br /><br /></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-28923207245678233172024-02-13T11:44:00.001+01:002024-02-14T11:54:18.598+01:00Argentina, la moneta fiscale contro Milei<i>In Argentina continua il momento d’incertezza economica conseguente le politiche immaginate da Javier Milei. L’ultimo disegno di legge ha perso per strada condono fiscale e aumento temporaneo delle tasse sulle esportazioni, ma è soprattutto la questione legate all'emissione di </i><i>“</i><i>bocades</i><i>” </i><i>che lascia molto perplessi i mercati internazionali. E, purtroppo per gli argentini, non soltanto quelli </i><br /><br /><b><span style="color: #666666;">di Mario Seminerio</span></b><br /><br />La Camera dei deputati argentina ha approvato, con 144 voti favorevoli e 109 contrari, il cosiddetto disegno di legge omnibus (Dnu, <i>Decreto de Necesidad y Urgencia</i>) promosso dal presidente Javier Milei per un drastico cambio di rotta nella politica economia del paese. Il testo è stato fortemente depotenziato in conseguenza del braccio di ferro con l’opposizione visto che il partito di Milei, La Libertà Avanza, alla Camera dispone di circa il 15% degli eletti, e non arriva alla maggioranza assoluta neppure con i suoi alleati del cartello che fa capo all’ex presidente Mauricio Macri. <span><a name='more'></a></span>Serve quindi una faticosa attività di compromesso, che rischia di peggiorare la situazione economica.<div><br /></div><div><b>Un disegno di legge dimezzato</b><br />Il disegno di legge ha <a href="https://www.wsj.com/world/americas/argentinas-congress-forces-new-president-to-scale-back-ambitious-overhauls-11d95e00">perso per strada</a> un condono fiscale e l’aumento temporaneo delle tasse sulle esportazioni, creando rischi non lievi per la stabilizzazione perseguita da Milei, che per quest’anno punta ad un avanzo primario pari al 2% del Pil. Sforbiciata consistente anche alla lista delle aziende pubbliche in predicato di essere privatizzate, ed il cui numero scende da 41 a 27: tra esse, resta Aerolineas Argentinas ma viene tolta la compagnia petrolifera Ypf, che peraltro è coinvolta in un oneroso contenzioso internazionale per un <a href="https://it.wikipedia.org/wiki/YPF#La_parziale_rinazionalizzazione">precedente esproprio</a> realizzato durante la presidenza di Cristina Fernandez de Kirchner. Dimezzata anche la durata dei poteri legislativi speciali, che Milei richiedeva per un biennio.<br /><br />In precedenza, era stato dichiarato incostituzionale il provvedimento, contenuto nel pacchetto di ordini esecutivi presidenziali, con cui Milei disponeva la riduzione dell’indennizzo per i licenziamenti, considerato dagli imprenditori uno dei maggiori ostacoli alle assunzioni. Ora il disegno di legge Omnibus si sposta in Senato, dove il partito di Milei ha il 10% dei seggi, ed è verosimile attendersi che subirà nuove revisioni.<br /><br />Milei nel frattempo è entrato in un braccio di ferro con le amministrazioni locali, che non sono state risparmiate dai tagli. Il contrasto più acuto, e che sta producendo conseguenze da tenere sotto osservazione, è quello con la provincia settentrionale di La Rioja, che ha meno di 400.000 abitanti su un totale nazionale di 46 milioni e la cui attività economica principale è in ambito agricolo, con la produzione di olive e vino.<br /><br />La Rioja è una provincia povera, come <a href="https://www.ft.com/content/1258d346-87ca-4c6b-9075-e9e741a51708#myft:my-news:page">osserva</a> il Financial Times: il 75 per cento del bilancio pubblico deriva da redistribuzioni dello stato centrale, e il 67 per cento dei lavoratori regolarmente assunti sono dipendenti pubblici. Il governatore della provincia, peronista, lamenta un colpo letale alle finanze locali in conseguenza del blocco dei lavori pubblici deciso da Milei, oltre al congelamento di un trasferimento equivalente a 26 milioni di dollari, che è parte degli accordi tra la provincia e lo stato centrale.<br /><br /><b>La quasi-moneta locale</b><br />Il parlamento locale ha quindi deciso, per riuscire a retribuire i dipendenti pubblici, di procedere a emettere entro novanta giorni obbligazioni provinciali, dette bocades, per l’equivalente di 28 milioni di dollari. Questa quasi-valuta dovrebbe integrare per il 30 per cento le retribuzioni dei pubblici dipendenti e servire a pagare tasse, bollette e acquisti di beni di consumo.<br /><br />Come si nota, nulla di nuovo all’orizzonte: quando mancano risorse, ci si rivolge alla moneta complementare o fiscale. Altrettanto tradizionalmente, resta da vedere se tale “moneta” viene accettata dagli agenti economici, e in quale misura rispetto al suo valore nominale. In teoria, i bocades sarebbero liberamente convertibili in pesos presso le banche pubbliche della provincia. Le quali tuttavia hanno ben pochi pesos disponibili, motivo per cui il governatore invita la popolazione a “fidarsi” e non precipitarsi a convertire.<br /><br />Se solo fosse così semplice. Il governo centrale ha già avvertito che l’emissione di moneta è illegale. Gli imprenditori locali, che in maggioranza hanno votato per Milei alle presidenziali, vorrebbero evitare di essere pagati con bocades ma sono consapevoli che, dato l’elevato numero di dipendenti pubblici, potrebbe essere necessario farlo. Ma solo dopo aver applicato congrui scarti al valore facciale delle obbligazioni provinciali, dicono non troppo sottovoce.<br /><br />Le province argentine non sono nuove all’emissione di moneta parallela: a inizio anni Duemila vi fu un’altra ondata di emissione di bocades. Le banche centellinavano la conversione e i cambiavalute in nero spuntavano come funghi agli angoli di strada, applicando pesanti decurtazioni al valore nominale dei titoli di credito pubblico.<br /><br />Milei ha escluso che il governo centrale possa ricomprare i bocades, come invece spesso accaduto in passato. Come finirà, quindi? Il punto centrale della vicenda non è la rilevanza, invero minima, della provincia di La Rioja sull’economia argentina ma il fatto che essa potrebbe rappresentare il battistrada dell’azione di altre e ben più pesanti province, in caso la crisi finanziaria si aggravasse. Non è un se ma un quando, a dirla tutta.<br /><br />L’inferenza è semplice e direi intuitiva: in presenza di un vincolo di cosiddetta austerità, ma meglio sarebbe chiamarlo di realtà, ecco spuntare la moneta fiscale per tentarne l’aggiramento. Anche noi italiani ne sappiamo qualcosa: l’audace esperimento, lungamente teorizzato durante la fase acuta della crisi, stava per essere introdotto, dalla porta di servizio, con il Superbonus e l’originaria <a href="https://phastidio.net/2023/02/23/i-crediti-fiscali-che-non-sono-debito-ma-erano-minibot/">cessione illimitata del suo credito fiscale</a>.<br /><br />A parte queste patrie notazioni, l’iniziativa di La Rioja conferma che chiunque cerchi di mettere mano al disastro economico argentino rischia di farsi scoppiare in faccia la situazione. La traversata nel deserto di Milei e dei suoi connazionali prosegue.<br /><br /><b><i><span style="color: #2b00fe;">Mario Seminerio per <a href="http://Phastidio.net" target="_blank">Phastidio.net</a></span></i></b><br /><br /><i><span style="color: #666666;">* Aggiornamento del 7 febbraio – Al momento dell’approvazione del Ddl per singolo articolo, riprende l’assalto a smontare il provvedimento, e la presidenza decide di <a href="https://www.clarin.com/politica/gobierno-debio-dar-marcha-ley-omnibus-acuso-gobernadores-traicion_0_RlFzrqLAKk.html">rimandarlo in commissione</a>. Del resto, come sappiamo, Milei semplicemente non ha i voti.</span></i><div><br /></div><br /></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-19791683479204804792024-02-13T11:34:00.002+01:002024-02-14T22:41:21.617+01:00Pensioni in Germania: quasi metà degli assegni sono inferiori ai 1250 euro al mese<i>Le piazze tedesche si riempiono di gente per manifestare contro le destre, e fanno anche bene, tuttavia è difficile immaginare la stessa mobilitazione di massa per protestare contro un fenomeno sociale così grave e pervasivo come la povertà in vecchiaia e le pensioni da fame in Germania</i><div><b><span style="color: #666666;"><br /></span></b></div><div><b><span style="color: #666666;">di Steven Geyer</span></b></div><div><br />L’inflazione sembra essere particolarmente dura per i pensionati: come mostrano i nuovi dati dell’Ufficio federale di statistica, quasi la metà dei pensionati in Germania prende meno di 1250 euro al mese. Le donne sono particolarmente colpite da questa situazione. Il politico della Linke Dietmar Bartsch chiede un ulteriore aumento delle pensioni alla luce di questi dati.<br /><br />Quasi la metà dei pensionati tedeschi ha un reddito netto inferiore a 1250 euro al mese. È quanto emerge dai nuovi calcoli effettuati dall’Ufficio federale di statistica su richiesta del deputato della Linke Dietmar Bartsch, resi disponibili a Redaktions Netzwerk Deutschland (Rnd). Secondo questi calcoli, circa un pensionato su quattro prende meno di 1000 euro. Le donne sono particolarmente colpite.<br /><br />Secondo l’analisi straordinaria delle statistiche federali, 7,5 milioni di pensionati in Germania hanno un reddito mensile inferiore ai 1250 euro. <span><a name='more'></a></span>Si tratta del 42,3% di tutti i pensionati tedeschi. 5,3 milioni di questi sono donne, il che corrisponde al 53,5% di tutti i pensionati tedeschi. Ciò significa che più di una donna su due riceve meno di 1250 euro al mese. Tra gli uomini, il dato è inferiore a uno su tre (28,2%).<br /><br />Secondo i dati, il 26,4% dei pensionati tedeschi riceve meno di 1.000 euro di reddito netto personale, ovvero circa uno su quattro. Tra le donne, il 36,2% non riceve 1.000 euro al mese, e il 13,9% tra gli uomini.<br /><br />I dati mostrano anche che i pensionati vivono in modo sproporzionato con redditi bassi rispetto al resto della popolazione: il 42,3% dei pensionati ha meno di 1250 euro, rispetto al 31% del resto della popolazione.<br /><br />Alla luce di questi dati, il politico della Linke Bartsch ha parlato di un <i>“atto d’accusa nei confronti del nostro Paese”</i>: «I pensionati sono i principali perdenti dell’inflazione», ha dichiarato a Rnd. «Nel 2024 dovranno affrontare il quarto anno consecutivo con una perdita di potere d’acquisto in termini reali».<br /><br />Bartsch ritiene che la responsabilità sia del governo federale: «Gli aumenti delle pensioni degli ultimi anni sono stati troppo esigui per compensare gli attuali balzi dei prezzi», ha detto. «Quest’anno abbiamo bisogno di un aumento una tantum del 10% delle pensioni per compensare almeno l’inflazione».</div><div><br />Nel complesso, tuttavia, è necessaria una profonda revisione, ha sottolineato Bartsch, raccomandando di prendere a modello l’Austria per la riforma delle pensioni. Qui i dipendenti statali pagano nella stessa cassa pensionistica come tutti gli altri lavoratori, così come i lavoratori autonomi. Il risultato, secondo Bartsch: «La pensione media è di circa 800 euro superiore alla nostra».<br /><br />In Germania, la pensione media lorda nel 2022 era di 1728 euro per gli uomini e di 1316 euro per le donne, secondo il fondo pensione.<br /><br /><b style="background-color: white; color: #666666; font-family: "Times New Roman", Times, FreeSerif, serif; font-size: 15.4px;"><i><span style="color: #2b00fe;">Pubblicato</span></i></b><span style="background-color: white; font-family: "Times New Roman", Times, FreeSerif, serif; font-size: 15.4px;"><b style="color: #2b00fe; font-style: italic;"> </b><b><i><span style="color: #2b00fe;">da </span></i></b></span><b><i><span style="color: #2b00fe;">Redaktions Netzwerk Deutschland</span></i></b><span style="background-color: white; font-family: "Times New Roman", Times, FreeSerif, serif; font-size: 15.4px;"><b><i><span style="color: #2b00fe;">. Tra</span></i></b><b style="color: #2b00fe; font-style: italic;">duzione italiana a cura di </b><a href="http://vocidallagermania.it/" style="color: #2288bb; font-style: italic; font-weight: bold; text-decoration-line: none;" target="_blank">Voci dalla Germania</a></span></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-66403108963728910602024-02-13T09:10:00.018+01:002024-02-14T11:21:10.727+01:00Come aiutare i Neet a rientrare nel mercato del lavoro<i>I Neet in Italia sono tanti e tra di loro ci sono soprattutto giovani disoccupati di lungo periodo e scoraggiati. Coinvolgere queste persone nelle politiche attive non è però facile. In Germania ci sono riusciti con un programma ben definito</i><br /><br /><b><span style="color: #666666;">di Francesco Giubileo</span></b><br /><br />Nel 2022, <a href="https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=File:Vis2-young-people-neither-in-employment-nor-in-education-or-training_260523.png">secondo i dati Eurostat</a>, l’Italia si trovava al secondo posto in Europa, dietro solo alla Romania, per il più alto tasso di Neet (not in education, employment or training) tra i giovani (15-29 anni). Si tratta di un problema cronico: la quota di giovani che non studiano, non lavorano o non seguono corsi di formazione è sempre stata molto elevata nel nostro paese.<br /><br />Dalla semplice lettura dei dati appare evidente come il programma <a href="https://garanziagiovani.anpal.gov.it/giovani">Garanzia giovani</a>, avviato nel 2014 proprio per contrastare il fenomeno, non abbia ottenuto i risultati sperati. <span><a name='more'></a></span>La stragrande maggioranza delle risorse dello strumento hanno riguardato prevalentemente tirocini extra-curriculari sovvenzionati o incentivi occupazionali e difficilmente sapremo mai quanto siano stati efficaci.<br /><br />In un recente lavoro, al quale ho collaborato con diversi autori, dal titolo “<a href="https://it.gigroupholding.com/insieme-per-un-futuro-sostenibile-giovani-e-lavoro/">Insieme per un futuro sostenibile: giovani e lavoro</a>”, viene presentata una panoramica della situazione dei giovani e il lavoro in sette paesi europei. Al termine dello studio è emersa una domanda di ricerca importante: come si intercettano e successivamente si avviano alla politica attiva i giovani Neet? Si tratta di un problema complesso, non solo italiano, ma che coinvolge in diversa misura tutti i paesi europei.<br /><br />Dallo studio possiamo comprendere che in Italia il fenomeno Neet riguarda soprattutto una quota rilevante di giovani disoccupati di lungo periodo e che è molto elevata la quota degli scoraggiati. D’altronde, se il mercato del lavoro d’ingresso è un mercato in prevalenza “<a href="https://lavoce.info/archives/101464/precarieta-il-lato-oscuro-del-mercato-del-lavoro/">precario</a>” – e quindi un giovane che inizia a lavorare trova prevalentemente contratti atipici (o nel sommerso), mal pagati e discontinui – il rischio che possa finire in poco tempo tra i Neet e che si scoraggiarsi nel cercare nuove opportunità è fortissimo. Ai giovani italiani scoraggiati, in un futuro molto prossimo, dovremo poi sommare una quota elevata di giovani migrati che abbandonano precocemente il sistema scolastico e il cui recupero è ancora più difficile.<br /><br /><b>Le politiche attive non sono una borsa griffata</b><br />Coinvolgere e comunicare con gli utenti è importante. Tuttavia, la <a href="https://ec.europa.eu/social/main.jsp?langId=en&catId=1163&furtherNews=yes&newsId=10046">letteratura</a> evidenzia l’enorme difficoltà di successo della comunicazione (sia social che cartacea) riguardo la partecipazione alle politiche attive, soprattutto per i target più svantaggiati. Infatti, nel caso di una campagna di comunicazione dedicata ai percorsi di riqualificazione i soggetti più consapevoli dell’importanza del miglioramento delle competenze sono quelli con i livelli di istruzione più elevati.<br /><br />A sostegno del tema relativo alla difficoltà di attivare le persone dopo iniziative di comunicazione, vale la pena citare <a href="https://ideas.repec.org/p/hhs/ifauwp/2020_003.html">Gerard J.</a> <a href="https://ideas.repec.org/p/hhs/ifauwp/2020_003.html">Van den Berg, Christine Dauth, Pia Homrighausen e Gesine Stephan</a>, chehanno analizzato l’efficacia dell’utilizzo di opuscoli informativi nel favorire la partecipazione a un programma di formazione. Hanno scoperto che, sebbene l’opuscolo aumentasse la consapevolezza del programma dei soggetti “trattati”, non aumentava la loro partecipazione alla formazione.<br /><br />La maggior parte dei centri per l’impiego europei utilizza una varietà di canali per promuovere le politiche attive, che vanno dai volantini fino ai propri siti web e alle pagine dei social media. Anche con attività promozionali così diffuse, l’esperienza dei Cpi estoni mostra come occorra molto tempo prima che potenziali beneficiari vengano a conoscenza dei programmi ed è ancora più difficile che partecipino alle iniziative. D’altronde i social media possono essere efficaci nell’acquisto di una borsa griffata, ma difficilmente lo sono per le politiche attive. Allora, dobbiamo chiederci: come intercettiamo i giovani?<br /><br /><b>L’esperimento tedesco: Jugend stärken im quartier</b><br />In Germania, tra le iniziative federali, il programma di punta nel piano di recupero dei Neet si chiama <a href="https://www.jugend-staerken.de/">Jugend Stärken</a>. All’interno del programma, avviato nel 2007, quello che più interessa al caso italiano, è il <a href="http://www.jugend-staerken.de/fileadmin/content/Dokumente/aktive-Flyer-JUGEND_STAERKEN_im_Quartier.pdf">Jugend Stärken Im Quartier</a> (JustiQ), iniziativa che si rivolge ai giovani under-26, con o senza background migratorio, non coinvolti in attività formative, professionali o assistenziali (per esempio, giovani che abbandonano la scuola, che interrompono un percorso professionale o immigrati con forte bisogno di integrazione).<br /><br />L’obiettivo è stato quello di coinvolgere i soggetti in iniziative facilmente accessibili sul territorio e favorirne così l’integrazione sociale, educativa e professionale. Il programma associava servizi assistenziali socio-pedagogici da parte di personale qualificato tramite case management o streetwork ad attività concrete su territori problematici, al fine di promuovere il rafforzamento sia delle competenze del soggetto sia della comunità locale.<br /><br />Tra il 2015 e il 2022 i progetti del JustiQ hanno coinvolto quasi 100 mila giovani. Nella prima fase di finanziamento (1° gennaio 2015 – 31 dicembre 2018), il programma è stato attuato in 178 comuni, mentre la seconda fase di finanziamento (1° gennaio 2019 – 30 giugno 2022) ne ha coinvolti 158. Il budget per entrambe le fasi è stato intorno ai 120 milioni di euro(finanziati da fondi comunitari). In generale, dopo aver partecipato al progetto, la cui durata media era di 9 mesi, quasi il 59 per cento dei partecipanti ha trovato lavoro o completato un percorso di istruzione professionale.<br /><br />La figura più interessante in questo progetto è quella dello streetworker, un profilo che risale agli anni Settanta nei centri urbani americani. Questo “operatore di strada” (in prevalenza under-30) ha una specializzazione nell’assistenza sociale giovanile (laureati in scienze sociali oppure persone formate specificatamente per questa attività che accompagnano o collaborano con gli assistenti sociali). L’attività di streetwork a volte fa parte di un approccio integrato a livello istituzionale, ma nella quasi totalità dei casi si tratta di un intervento autonomo, in cui gli operatori operano da soli nei quartieri urbani. Il contesto di lavoro è soprattutto quello delle periferie dove i giovani si riuniscono per socializzare e il loro punto di forza è quello di avere profondi legami con le comunità in cui intervengono; il contatto con i giovani avviene attraverso processi informali, attività sportive e di gaming. Nella fase di contatto non vengono promosse attività di politiche attive: saranno proposte solo nel momento in cui il giovane si riattiva socialmente.<br /><br />In Italia esistono centinaia di progetti analoghi, ma qui si tratta di un programma strutturato che permette di far nascere nuove professioni. In altri termini, non si tratta di progetti occasionali, spesso sporadici e basati su poche risorse: questa è la vera innovazione del JustiQ, ovvero aver capito come spendere bene le risorse comunitarie delle politiche attive.<br /><br /><b><i><span style="color: #2b00fe;">Francesco Giubileo per <a href="http://Lavoce.info" target="_blank">Lavoce.info</a></span></i></b>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-3588977841387585672024-02-12T14:30:00.009+01:002024-02-12T14:30:00.161+01:00Meta won't recommend political content on Threads<p><i>Meta has made sweeping changes its Facebook and Instagram algorithms to focus more on elevating viral entertainment videos over polarizing news and politics content in the past few years. Politics and hard news are inevitably going to show up on Threads or Instagram too but Meta not going to do anything to encourage those</i></p><b><span style="color: #666666;">di Sara Fischer</span></b><br /><br />Meta will not "proactively recommend political content from accounts you don't follow" on <a href="https://www.axios.com/2023/07/05/zuckerberg-vs-musk-digital-cage-match">Threads</a>, the company said in a statement provided to Axios.<br /><br />Why it matters: The policies, which are the same it <a href="https://transparency.fb.com/features/approach-to-political-content">currently uses</a> to regulate political content on its Facebook and Instagram apps, fill in the details of how Threads and Instagram will handle political content as the election approaches.<span><a name='more'></a></span>Threads leadership has previously said the platform did not want to encourage hard news or politics on its platform, but had not laid out the practical measures the company would take to achieve that goal.<br /><br />How it works: Threads users will be allowed to follow accounts that post political content, but the algorithm that suggests content from users you don't follow will not recommend accounts that post about politics.Users will have an option that allows them to opt into political recommendations — first on Threads and Instagram, then on Facebook, at an unspecified date.<br /><br />Users who post political content can check their <a href="https://help.instagram.com/539126347315373?helpref=faq_content">account status</a> to see whether they've posted too much of it to be eligible for recommendation.If they wish to be recommended, "they can edit or remove recent posts, request a review if they disagree with our decision, or stop posting this type of content for a period of time, in order to be eligible to be recommended again," Meta said.<div><br /></div><div><b><i><span style="color: #2b00fe;">Continua la lettura su <a href="https://www.axios.com/2024/02/09/meta-political-content-moderation-threads" target="_blank">Axios</a></span></i></b></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-59828130548298252772024-02-12T13:33:00.018+01:002024-02-12T13:33:00.140+01:00State sector employees tighten belts ahead of Lunar New Year<p><i>Employees take to social media to complain of unpaid wages, year-end bonuse</i></p><div><b><span style="color: #666666;">di Gu Ting</span></b></div><div><br /></div>China's state employees say they are tightening their belts ahead of once-lavish Lunar New Year celebrations, amid <a href="https://www.rfa.org/english/news/china/unpaid-wages-doctors-12282023140907.html">backlogs of unpaid salaries</a> and slashed bonuses at cash-strapped local governments and state sector companies.<br /><br />The struggling economy has increasingly left governments and the public sector <a href="https://www.rfa.org/english/news/china/struggling-economy-113020231008">unable to pay</a> bonuses and wages. It has also forced organizations to impose salary cuts where they might once have enjoyed generous perks and payouts.<span><a name='more'></a></span><br />A Feb. 6 viral post on Weibo by employees at Shanghai's state-owned Pudong Development Bank said they had been given a "New Year's Letter" in place of their expected year-end bonuses, which are typically issued in the form of a 13th month's pay ahead of the Lunar New Year festivities.<br /><br />At least one website, Hexun.com, appeared on Thursday to have deleted an article about the post, offering only the message: "This content is being upgraded. Please try again later."<br /><br />Meanwhile, employees at the Bank of Guangzhou also took to social media to complain that their bonuses had yet to land. The Lunar New Year this year starts on Feb. 10.<br /><br />The iFeng news service reported on Thursday that the Guangzhou bank employees had subsequently received their bonuses after they posted about the matter.<br /><br />An employee at a bank in Shanghai who gave only the surname Zhou for fear of reprisals said Chinese banks – the majority of which are state-owned – have been cutting pay and benefits steadily over the past few months, with many employees now down to their basic salary with no perks or benefits.<br /><br />"This is a common phenomenon," she told Rfa Mandarin on Thursday. "The composition of people's income used to be pretty complicated, with a bunch of performance bonuses, meal subsidies, car subsidies, housing subsidies and so on."<br /><br />"Now, a lot of hidden subsidies have been removed."<br /><br />She said employees at the major state-owned banks and smaller local banks are all affected by the cuts.<br /><br /><i><span style="color: #2b00fe;"><b>Continua la lettura su <a href="https://www.rfa.org/english/news/china/china-lunar-new-year-belt-tightening-02092024150519.html" target="_blank">Radio Free Asia</a></b></span></i>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-61467993267917290772024-02-12T12:12:00.011+01:002024-02-12T12:12:00.136+01:00Avian influenza death of Alaska polar bear is a sign of the virus’ persistence<p><i>The highly pathogenic influenza that has already killed vast numbers of birds and numerous mammals continues to circulate in the world’s wild populations</i></p><div><b><span style="color: #666666;">di Yereth Rosen</span></b></div><div><br /></div>A polar bear found dead on Alaska’s North Slope is the first of the species known to have been killed by the highly pathogenic avian influenza that is circulating among animal populations around the world.<br /><br />The polar bear was found dead in October near Utqiagvik, the nation’s northernmost community, the Alaska Department of Environmental Conservation <a href="https://dec.alaska.gov/eh/vet/announcements/avian-influenza-outbreaks/">reported</a>.<br /><br />The discovery of the virus in the animal’s body tissue, a process that required sampling and study by the North Slope Borough Department of Wildlife Management and other agencies, confirmed earlier this month that highly pathogenic avian influenza was the cause of death, said Dr. Bob Gerlach, Alaska’s state veterinarian.<span><a name='more'></a></span><br />“This is the first polar bear case reported, for anywhere,” Gerlach said. As such, it was reported to the <a href="https://www.woah.org/en/home/">World Organisation for Animal Health</a> and has gotten attention in other Arctic nations that have polar bears, he said.<br /><br />This was also the first Endangered Species Act-listed animal in Alaska known to fall victim to the disease. Polar bears, dependent on sea ice that is diminishing because of climate change, were <a href="https://ecos.fws.gov/ecp/species/4958">listed as threatened</a> in 2008.<br /><br />While polar bears normally eat seals they hunt from the sea ice, it appears likely that this bear was scavenging on dead birds and ingested the influenza virus that way, Gerlach said. Numerous birds on the North Slope of various species have died from this avian influenza, according to the Department of Environmental Conservation.<br /><br />However, the bear need not have directly eaten an infected bird to have become sick, Gerlach said.<br /><br />“If a bird dies of this, especially if it’s kept in a cold environment, the virus can be maintained for a while in the environment,” he said.<div><br />The polar bear death is a sign of the unusually persistent and lethal hold that this strain of highly pathogenic avian influenza has on wild animal populations two years <a href="https://www.usgs.gov/centers/nwhc/science/distribution-highly-pathogenic-avian-influenza-north-america-20212022">after it arrived in North America</a>, officials said.<br /><br />“What we’re dealing with now is a scenario that we haven’t dealt with in the past. And so there’s no manual,” said Andy Ramey, a U.S. Geological Survey wildlife geneticist and avian influenza expert.</div><div><br /></div><div><b><i><span style="color: #2b00fe;">Continua la lettura su <a href="https://alaskabeacon.com/2023/12/30/avian-influenza-death-of-alaska-polar-bear-is-a-global-first-and-a-sign-of-the-virus-persistence/" target="_blank">Alaska Beacon</a></span></i></b></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-41286740812188266562024-02-12T11:05:00.002+01:002024-02-12T11:05:00.126+01:00Canada declares Flipper Zero public enemy No. 1 in car-theft crackdown<div><i>How do you ban a device built with open source hardware and software anyway?</i><br /><br /><b><span style="color: #666666;">di Ben Godin</span></b></div><div><br /></div>Canadian Prime Minister Justin Trudeau has identified an unlikely public enemy No. 1 in his new crackdown on car theft: the Flipper Zero, a $200 piece of open source hardware used to capture, analyze and interact with simple radio communications.<br /><br />On Thursday, the Innovation, Science and Economic Development Canada agency <a href="https://www.canada.ca/en/public-safety-canada/news/2024/02/federal-action-on-combatting-auto-theft.html">said</a> it will “pursue all avenues to ban devices used to steal vehicles by copying the wireless signals for remote keyless entry, such as the Flipper Zero, which would allow for the removal of those devices from the Canadian marketplace through collaboration with law enforcement agencies.” <span><a name='more'></a></span>A social media post by François-Philippe Champagne, the minister of that agency, said that as part of the push “we are banning the importation, sale and use of consumer hacking devices, like flippers, used to commit these crimes.”<div><br /></div><div><b><i><span style="color: #2b00fe;">Continua la lettura su <a href="https://arstechnica.com/security/2024/02/canada-vows-to-ban-flipper-zero-device-in-crackdown-on-car-theft/" target="_blank">Ars Technica</a></span></i></b></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-25825710190872930272024-02-08T16:49:00.033+01:002024-02-08T18:52:25.342+01:00Pensioni, un circolo vizioso e assistito<i>Il problema pensionistico italiano resta sempre ssolo ste: un rubinetto aperto verso le pensioni di anzianità o comunque anticipate, integrate a carico della fiscalità generale anziché delle aziende interessate. E i numeri parlano chiaro: nel decennio 2012-2022, quello della legge Fornero, è stato dato il via libera a 946 mila pensionamenti anticipati</i><br /> <br /><b><span style="color: #666666;">di Mario Seminerio</span></b><br /><br />All<span style="background-color: white; color: #666666; font-family: "Times New Roman", Times, FreeSerif, serif; font-size: 15.4px;">’</span>inizio di gennaio è stato presentato il rapporto annuale (<a href="https://www.itinerariprevidenziali.it/site/home/biblioteca/pubblicazioni/undicesimo-rapporto-bilancio-del-sistema-previdenziale-italiano.html">l’undicesimo</a>) del centro studi Itinerari previdenziali sull’andamento del sistema pensionistico del paese, che illustra gli andamenti della spesa pensionistica, delle entrate contributive e dei saldi delle differenti gestioni pubbliche e privatizzate che compongono il sistema pensionistico obbligatorio italiano, con dati aggiornati al 2022.<span><a name='more'></a></span><br />Da sempre, obiettivo di policy di Itinerari previdenziali è quello di evidenziare separatamente i conti della previdenza, finanziata dalla contribuzione di scopo a carico di aziende e lavoratori, e dell’assistenza, finanziata dalla fiscalità generale. In tal modo, secondo l’animatore del centro studi, Alberto Brambilla, si otterrebbero indicazioni per intervenire con misure non inique, dimostrando che la spesa previdenziale è sotto controllo mentre quella per assistenza è ampiamente sfuggita di mano.<br /><br /><b>Separare assistenza e previdenza, per fare cosa?</b><br />Anche il sindacato punta a separare previdenza e assistenza, ma essenzialmente per dimostrare che non serve inasprire i requisiti pensionistici, malgrado la devastante situazione demografica del paese. Poi ci sono quelli, come Maurizio Landini, convinti che l’assistenza abbia e debba avere <a href="https://phastidio.net/2020/01/21/la-fiscalita-generale-in-fondo-allarcobaleno/">un ruolo crescente nell’integrare gli assegni pensionistici</a>, “andando a prendere i soldi dove ci sono”, come il leader della Cgil (che i cantastorie lisergici vedrebbero come “federatore” del camposanto largo e “giusto” Pd-M5S) risponde anche a chi gli chiede l’ora.<br /><br />Facezie a parte, il problema pensionistico italiano resta quello: un rubinetto aperto verso le pensioni di anzianità o comunque anticipate, integrate a carico della fiscalità generale anziché delle aziende interessate. I numeri parlano molto chiaro: nel decennio 2012-2022, quello della legge Fornero, è stato dato il via libera a 946 mila pensionamenti anticipati. Nel decennio queste deroghe hanno avuto un costo di 48,3 miliardi di euro, che si è mangiato oltre metà dei risparmi teorici della riforma Fornero, stimati in 86 miliardi.<br /><br />Anche l’età media di uscita con pensioni di anzianità e anticipate si è costantemente ridotta in questi anni, scendendo nel 2022 a 61,6 anni per gli uomini e 61,2 per le donne. Con la riforma Fornero pienamente dispiegata, l’età del pensionamento di anzianità o equiparato sarebbe invece prossima a 64 anni. E tuttavia, malgrado questi numeri, continuo a sentire gente che mi accusa di <i>“voler mandare sui ponteggi i settantenni, BERGONIA!”</i>. I famosi settantenni di Quota 100, presumo.<br /><br />Altro numero eclatante del decennio 2012-2022 è quello relativo alle prestazioni sociali, il cui ammontare è aumentato del 29,4%, cioè 127,5 miliardi. Direi, a naso, sopra l’inflazione cumulata del periodo. Nel 2022 i costi per assistenza, quelli finanziati dalla fiscalità generale, sono stati pari a 157 miliardi di euro, a cui vanno sommati interventi analoghi da parte degli enti locali, per una spesa complessiva pari nell’anno a 8,9% del Pil.<br /><br />A ribadire quello che vi segnalo da sempre, e cioè che previdenza e assistenza stanno diventando gemelle siamesi la cui separazione rischia di uccidere entrambe le pazienti, è poi il numero dei pensionamenti totalmente o parzialmente assistiti, che sono pari a 6,55 milioni e riguardano ormai il 40,61% della platea dei beneficiari di prestazioni pensionistiche.<div><br /></div><div><b>Conti sfondati dalle pensioni anticipate</b><br />“Bene, questo ce lo dici <a href="https://phastidio.net/2018/04/02/separare-la-spesa-previdenziale-da-quella-per-assistenza-ultima-illusione-italiana/">da anni</a>, stai diventando ripetitivo, sarà l’età. Che facciamo, quindi?”, diranno i più inquieti e meno pazienti tra i miei lettori. Domanda legittima. Intanto, ribadisco che è evidente che Brambilla e i sindacati guardano in direzioni differenti, quando chiedono di separare assistenza e previdenza. I secondi lo fanno per poter dire che la spesa previdenziale “pura” è bassa, e poter quindi invocare integrazioni alla medesima. Usando cosa? Ma che domande: l’assistenza, cioè la fiscalità generale! Magari tirando in ballo una bella patrimoniale, “ché tutti ce l’hanno in Europa, che diamine”. C’è anche in Italia ma non ditelo in giro, mi raccomando.<br /><br />Alberto Brambilla, invece, che meritoriamente si preoccupa da sempre del destino di kulaki <i>and friends</i>, cioè di quei poveracci la cui Irpef deve permettere di nutrire pre-pensionati e assistiti vari, vuole altro. Intanto, un controllo stretto delle dinamiche di spesa assistenziale, per riportarla nell’alveo della fisiologia, rispetto alla attuale ingravescente patologia. Come vedete, andiamo in direzioni opposte, decisamente.<br /><br />Ma cosa propone Brambilla, quindi? In soldoni, di tentare disperatamente di chiudere il rubinetto delle pensioni anticipate a carico di Pantalone. Storia molto vecchia, come sappiamo. Uno strumento, a carico delle imprese che si trovano in condizioni di eccedenza di personale, introdotto dalla legge Monti-Fornero, è la cosiddetta <a href="https://www.fiscoetasse.com/rassegna-stampa/33696-isopensione-uscita-con-7-anni-di-anticipo-fino-al-2026.html">isopensione</a>, dove il dipendente, a cui manchino sino a sette anni alla pensione, accede ad una indennità mensile, in sostituzione dello stipendio, fino al raggiungimento dei requisiti necessari per accedere al vero e proprio pensionamento.<br /><br />L’isopensione, nella configurazione attuale, è molto costosa per l’azienda che decidesse di attivarla. Devo capire, ad esempio, per quale motivo un’eccedenza di personale, in uno stato di crisi conclamata, dovrebbe essere gestita con isopensione anziché con licenziamenti collettivi. Non sono cinico, solo maieutico.<br /><br />Altro strumento proposto da Brambilla è quello del fondo esuberi, sulla falsariga di quello dei bancari, sempre contribuito da aziende e lavoratori. Altra opzione è quella del cosiddetto superbonus (lo so, questo è un paese di tesoretti e superbonus: da questo pervertimento linguistico dovreste capire perché siamo messi come siamo messi), analogamente a quello che prende il nome da Roberto Maroni, per chi si trattiene al lavoro fino a 71 anni (!), e che incasserebbe il 33% dei contributi in busta paga per tre anni, al netto delle imposte.<br /><br />Oltre a queste, Brambilla ipotizza altre misure. Una, su cui batte da anni come un fonditore di proiettili d’argento qualunque, è purtroppo una <a href="https://phastidio.net/2011/08/27/contrasto-di-interessi-una-bufala-italiana/">superbufala italiana</a>: il contrasto d’interessi, e di conseguenza ce ne disinteresseremo. Altre sono più classiche e meno oniriche. Ad esempio, un contributo di 100 euro annui come copertura assicurativa dell’equivalente di una polizza long term care, cioè per la non autosufficienza; l’estensione dei ticket sanitari; l’adeguamento dell’età di pensionamento e del coefficiente di trasformazione del montante contributivo all’aspettativa di vita.<br /><br />Conosco le obiezioni: le aspettative di vita di un operaio o di un manovale (o comunque di una persona con bassa scolarità e istruzione) sono inferiori a quelle di un impiegato, dirigente o lavoratore comunque intellettuale. Quindi bisognerebbe diversificare il dato in base a questi parametri.<br /><br /><b>Vissi d’arte, vissi d’amore</b><br />Oltre a queste misure correttive che ho definito “classiche”, Brambilla ne ha di innovative. Ad esempio:<br /><br /><i>Creazione di una banca dati sull’assistenza che permetterebbe di sapere chi sono e da quanto tempo questi soggetti beneficiano di prestazioni, bonus e agevolazioni; si potrebbero risparmiare non meno di 15 miliardi l’anno.</i><br /><br />Non so come si arrivi ai 15 miliardi di risparmi, in tutta sincerità. Il fatto stesso che una banca dati del genere non esista mi pare lunare ma molto italiano. Così come mi parrebbe molto italiano che, se quei 15 miliardi di risparmi fossero realmente conseguiti, partirebbe il trenino per spendere il nuovo “tesoretto”, in nome del popolo stressato e sfruttato dal turboliberismo che da sempre piaga il nostro paese.<br /><br />E ancora, leggete bene:<br /><br /><i>Convocare tutti gli over 35 che non hanno mai fatto una dichiarazione dei redditi per chiedere loro di cosa vivono; scopriremmo la gran parte dell’evasione fiscale e un pezzo consistente di malavita organizzata.</i><br /><br />Ohibò, questa è proposta sfiziosetta, mi pare. Ma irrealizzabile, temo: ve li vedete, voi, gli over 35 “convocati” per spiegare le loro fonti di sussistenza? Da ultimo, ma non per ultimo, Itinerari previdenziali propone la “revisione totale dell’Isee, che incentiva il lavoro in nero e il sommerso”. Così, secco. A proposito di Isee, che dire della sua nuova formula, in attesa di diventare operativa, che prevede di far beneficiare di erogazioni coperte da chi paga le tasse gente che <a href="https://phastidio.net/2023/10/18/lisee-e-i-btp-che-non-sono-ricchezza/">si compra 50 mila euro di Btp</a>, magari pure frutto di evasione fiscale? Vi piace questa, come “riforma” dell’Isee?<br /><br />Tiriamo le somme. La spesa per assistenza ci sta portando al dissesto. L’assistenza cresce per integrare assegni pensionistici che sono e saranno sempre più da fame, conseguenza del gigantesco rubinetto aperto per le pensioni anticipate, che in un decennio ha drenato oltre metà dei risparmi teorici della riforma Monti-Fornero. Ma pensioni da fame anche per conseguenza del regime contributivo o meglio del fatto che, se un paese non cresce, il montante contributivo non monta. Un infernale circolo vizioso, e pure assistito.<div><br /><b>Modus pensionandi e patrimoniale</b><br />Quindi, per motivi rigorosamente attuariali, si prendono assegni da fame. E vorrete mai che i governi e le opposizioni pro tempore accettino la vergogna di assegni da fame, causati da misure di pensionamento anticipato adottate da precedenti esecutivi dotati delle migliori intenzioni con cui lastricare l’inferno? Mai sia! E così via. Un vero circolo vizioso e assistito.<br /><br />Risciacqua, ripeti, e arrivi all’esito previsto da Itinerari previdenziali se l’attuale traiettoria e modus operandi (anzi, pensionandi) dovessero proseguire:<br /><br />Resterebbe così molto poco da fare ai Governi se non andare a “prelevare” i soldi dove ci sono, applicando una dura patrimoniale che diverrebbe la pietra tombale per l’Italia.<br /><br />E a quel punto si leverebbero alte le voci di quelli che dicono “giusto, la patrimoniale c’è in TuttaEuropa™️, facciamo come TuttaEuropa™️. In sottofondo, il coro a bocca spalancata di Landini: “i soldi si vanno a prendere dove ci sono”. Cioè, dove? Ma che domande: <a href="https://phastidio.net/2022/12/02/i-forzati-dellirpef-che-reggono-un-intero-paese/">dai kulaki</a>, no?<br /><br /><b><i><span style="color: #2b00fe;">Mario Seminerio per <a href="http://Phastidio.net" target="_blank">Phastidio.net</a></span></i></b></div></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-59856331742980795812024-02-08T15:56:00.009+01:002024-02-08T15:56:55.640+01:00L’apprendistato, ossia lo strumento per favorire le imprese e i bassi salari<div><i>L’Italia affronta quasi tre decenni di precarietà lavorativa con scarsa attrattività per gli investitori. Le politiche governative tendono a favorire le imprese a discapito dei lavoratori, e la recente crisi pandemica ha rivelato la fallacia di affidarsi esclusivamente al sostegno alle imprese per la ripresa economica</i></div><div><br /></div><div><b><span style="color: #666666;">di Emiliano Gentili e Federico Giusti</span></b></div><div><br /></div><div>Quasi 30 anni all’insegna della precarietà lavorativa non hanno reso il capitalismo italiano attrattivo per gli investitori e capace di performance elevate. Al contrario, la tanto decantata produttività lascia alquanto a desiderare e i salari e il potere di acquisto sono in caduta libera.<br /><br />I posti di lavoro creati attraverso contratti precari continuano a non coprire nemmeno il fabbisogno aziendale: da un lato gli imprenditori italiani sono alla costante ricerca di profili professionali specializzati, per avere i quali servono tempo, formazione e investimenti, mentre dall’altro non riescono nemmeno a utilizzare i contratti di apprendistato, nonostante rappresentino un grosso favore per le imprese.<span><a name='more'></a></span><br />Nel 2023 registriamo un 5% in meno di contratti di apprendistato trasformati in indeterminato, nonostante gli interventi attuati dal Governo con il decreto lavoro: rispetto al passato è possibile sottoscrivere un contratto di apprendistato anche oltre compimento dei 30 anni di età… un’estensione alquanto pericolosa. Per assumere gli over 40 con un contratto di apprendistato professionalizzante sarà necessario che questi siano disoccupati e che abbiano sottoscritto l’immediata disponibilità al lavoro, partecipando alle politiche attive concordate con il Centro per l’Impiego locale.</div><div><br />Il decreto lavoro del 2023 prevede infatti anche l’incentivo per le assunzioni, con la completa esenzione dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro e del lavoratore (questa esenzione sarà applicata entro il limite di 8.000 euro all’anno e vale indistintamente per le assunzioni a tempo indeterminato o in regime di apprendistato). Nonostante tutto, i dati statistici dimostrano che questi aiuti alle imprese non hanno realizzato un incremento dell’occupazione, nemmeno precaria.<br /><br />Le principali riforme lavoristiche degli ultimi 30 anni, dunque, non sono servite a costruire un mercato del lavoro capace di affrontare le sfide capitalistiche dei nostri tempi, a conferma che gli interventi legislativi, per lo più emanati dai governi di centro sinistra, avevano come scopo reale solamente la riduzione del costo del lavoro e il contenimento del potere contrattuale.<br /><br />Il Pacchetto Treu, il Jobs Act, la Legge Biagi, il Testo Unico Sacconi, la Legge Fornero (che ha allungato l’età pensionabile), il nuovo sistema di relazioni sindacali costruito a beneficio di quelli “maggiormente rappresentativi” e via dicendo… sono serviti soltanto ad abbattere il potere contrattuale e di acquisto, a rendere precari il lavoro e le nostre stesse esistenze.</div><div><br />Per anni, invece, molti giuslavoristi (come Pietro Ichino, del PD) avevano presentato la precarietà come un’opportunità per creare occupazione. In quest’ottica, l’apprendistato e l’alternanza scuola-lavoro erano state viste come possibili soluzioni per un mercato nel quale i lavoratori dipendenti erano troppo avanti negli anni e per un sistema educativo scollegato dalle imprese.<br /><br />Anche l’anno 2023 ha confermato che simili mezzi non favoriscono la ripresa occupazionale: l’apprendistato professionalizzante, istituto finalizzato a imparare un mestiere, vede diminuite le trasformazioni nel contratto a tempo indeterminato full time; l’apprendistato di 3° livello, di alta formazione e ricerca, è stato un fallimento; risultati scarsi anche con gli apprendisti di 1° livello.<br /><br />La annuale ricerca Inapp attesta a 25 anni l’età media dei lavoratori con contratto di apprendistato e ne colloca il 18,2% in Lombardia, rimarcando come sei regioni italiane abbiano quasi il 70% del totale degli apprendisti e siano tutte collocate nell’area centro settentrionale del paese. Questi giovani si ritrovano inseriti per lo più nei settori manifatturiero, del commercio, delle costruzioni e dei servizi alla persona, spesso alla mercé di contratti nazionali sfavorevoli e di retribuzioni che a stento permettono di superare la soglia di povertà. Frequentemente i ragazzi in apprendistato sostengono più di un rapporto di lavoro in apprendistato, prima magari in un’impresa per un dato periodo di tempo e, poi, in un’altra, senza che queste abbiano alcun obbligo di trasformare il contratto in indeterminato.<br /><br />L’apprendistato non è stata una occasione perduta dalle imprese per reperire forza lavoro giovane e formata ma, piuttosto, il risultato di una visione perdente secondo la quale, applicando contratti di inserimento e, appunto, di apprendistato, si riduce il costo del lavoro, favorendo le imprese nella competizione internazionale. Peccato per loro, però, che la concorrenza sia più agguerrita e punti molto più di frequente sulle innovazioni e le implementazioni tecnologiche, ottenendo riduzione del costo del lavoro, produttività e licenziamenti in cambio di investimenti iniziali, e massimizzando i profitti.<br /><br />In questo contesto la formazione rivestirebbe un ruolo importante, perché i processi produttivi tecnologici e specializzati non possono funzionare senza lavoratori competenti. Ecco allora il tentativo di renderla efficace anche in Italia. Sul Sole 24 Ore del 3 febbraio scorso, un articolo dedicato all’apprendistato conclude così:<br /><i><br />La grande scommessa è quella di raccordare l’apprendistato con il sistema della formazione professionale e con istruzione tecnica e università per concepirlo in continuità, in un’ottica di filiera formativa-lavorativa.</i><br /><br />Frasi del genere le abbiamo già lette nel corso degli anni: dichiarazioni di intenti, mai seguite da fatti. Sarebbe invece interessante aprire una riflessione sulla riforma degli istituti professionali realizzata dal Governo.<br /><br />Al di là di ogni ulteriore riflessione sulla natura del contratto di apprendistato, urge aprire una riflessione sui fondi del Pnrr per l’aziendalizzazione dell’istruzione pubblica, sui progetti di raccordo fra imprese e scuole/università e, soprattutto, sulla riforma della scuola, della Meloni iniziata con i provvedimenti adottati per l’istruzione tecnico-professionale, argomenti sui quali manca una seria analisi collettiva, al posto della quale troviamo invece parziali prese di posizione.<br /><br />Quello sull’apprendistato e sul lavoro in generale è un progetto di riforma che va a danno delle nuove generazioni operaie, presentato però come il tentativo di dare loro un futuro e un’istruzione “che serva veramente a qualcosa”… peccato che si tratti di una mistificazione, di una delle tante.<br /><br />Un’altra mistificazione, per certi versi analoga, si è verificata con la questione dei licenziamenti volontari: la narrazione ufficiale parlava di una “liberazione dal cartellino”, che avrebbe finalmente consentito a migliaia di persone di gettarsi nella ricerca di nuove motivazioni, salvo poi scoprire che i giovani ricercatori vanno all’estero perché in Italia mancano le borse di studio e i “contrattini” proposti li lascerebbero sotto la soglia di povertà.<br /><br />Citiamo ora, senza ulteriore commento, i dati resi dall’Osservatorio sul precariato dell’Inps:<br /><i><br />Complessivamente le assunzioni attivate dai datori di lavoro privati nei primi dieci mesi del 2023 sono state 7.006.000, sostanzialmente stabili rispetto allo stesso periodo del 2022 (-0,02%). Il risultato è dovuto alla somma algebrica tra gli andamenti positivi delle assunzioni di contratti di lavoro intermittente (+4%), a tempo determinato (+3%), stagionali (+2%) e quelli negativi di apprendistato e a tempo indeterminato (-4%) e contratti in somministrazione (-7%). Le trasformazioni da tempo determinato fino a ottobre 2023 sono risultate 653.000, in aumento rispetto allo stesso periodo del 2022 (+3%). Contemporaneamente le conferme di rapporti di apprendistato giunti alla conclusione del periodo formativo sono risultate 83.000, in flessione del 15% (ciò è l’ovvio riflesso ritardato della contrazione delle assunzioni con tale tipologia contrattuale avvenuta nel 2020).<br /><br />Le cessazioni fino a ottobre del 2023 sono state 6.264.000, in diminuzione rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (-1%). Concorrono a questo risultato i contratti in somministrazione (-7%), i contratti a tempo indeterminato e i contratti in apprendistato (-5%). Correlata al corrispondente andamento positivo risulta la dinamica dei contratti stagionali (+1%), dei contratti a tempo determinato (+2%) e dei contratti di lavoro intermittente (+3%).</i><br /><br />Fatti due conti possiamo asserire che i posti di lavoro creati dopo la pandemia, molti dei quali precari, sono quasi gli stessi di quelli perduti a causa del Covid (crescono, a dire il vero, di quasi 7.000 unità). Purtroppo non siamo a conoscenza di analisi atte a dimostrare che in molti casi i nuovi contratti prevedano riduzioni orarie e ricorso al part time, come si evince dal dato sulla riduzione delle ore lavorate. E qui entrano in gioco le finalità dei dati statistici, l’utilizzo che ne viene fatto a supporto dei Governi e dei centri del potere economico e, d’altro canto, la maggiore difficoltà nell’utilizzarli per scopi differenti da quelli per cui sono stati prodotti.<br /><br />In conclusione: pensare che solo aiutando le imprese l’occupazione si sarebbe ripresa dalla crisi pandemica si è dimostrato un approccio errato, tale da rafforzare i profitti senza accrescere il numero degli occupati e il potere di acquisto salariale, che per altro avrebbe un effetto positivo sulla domanda interna.<br /><br />Non è accettabile, infatti, che gli aiuti di Stato siano indirizzati in favore di condoni a imprenditori e imprese che evadono (evadere i versamenti contributivi in Italia è quasi considerato accettabile, per un imprenditore, come testimoniano i quasi 135 miliardi non riscossi e i 9 condonati nel 2023), o degli sgravi fiscali. Insomma: i prestiti a fondo perduto, che comportano la sostanziale rinuncia a priori ad ogni atto di controllo e di indirizzo pubblico in materia di economia, non sono serviti a rilanciare l’occupazione e non hanno rappresentato aiuti reali alla ripresa economica. E al contempo ampliare i contratti precari o favorirne l’applicazione sarà senza dubbio un vantaggio per le imprese ma non aiuterà a far crescere l’occupazione nel suo complesso.</div><div><br /></div><div><b><i><span style="color: #2b00fe;">Emiliano Gentili e Federico Giusti per</span></i></b><b><i><span style="color: #2b00fe;"> <a href="https://giuliochinappi.wordpress.com/" target="_blank">World Politics Blog</a></span></i></b></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-58519721441455658742024-02-08T15:44:00.006+01:002024-02-08T16:10:01.549+01:00Via libera della Corte costituzionale albanese all’accordo Meloni-Rama <div><i>Con cinque voti a favore e quattro contrari, la Corte costituzionale albanese ha convalidato il protocollo stipulato tra il premier Rama e la sua omologa Meloni sulla creazione di centri di accoglienza per migranti sul suolo albanese</i></div><div><br /></div><div><b><span style="color: #666666;">di Gentiola Madhi</span></b><br /><br />Il 29 gennaio la Corte costituzionale albanese si è pronunciata sulla conformità del protocollo bilaterale stipulato il 6 novembre scorso sul trasferimento dei migranti nei centri situati a Gjadër e presso il Porto di Shëngjin. Il protocollo “è conforme alla Costituzione” cita il <a href="https://www.gjk.gov.al/web/Njoftim_per_shtyp_3025_1-94.php">comunicato stampa </a>della Corte, dando così il via libera al processo di ratifica da parte del Parlamento.<br /><br />Nella sua argomentazione, la Corte sostiene che il protocollo non incide sull’integrità territoriale dell’Albania sotto l’aspetto fisico. <span><a name='more'></a></span>Nelle due aree previste per l’accoglienza dei migranti vige la giurisdizione albanese, oltre a quella italiana. Rimangono inoltre in vigore le norme del diritto internazionale in materia di migrazione e diritto di asilo, le cui convenzioni sono già ratificate da entrambi i paesi.<br /><br />La firma del protocollo tra i due premier si basa sul trattato di amicizia stipulato tra i due paesi nel 1995, il quale secondo la Corte funge da accordo quadro che permette al governo albanese di non necessitare della previa concessione di un mandato plenipotenziario di negoziazione da parte del Presidente della Repubblica.<br /><br />Il ricorso per incostituzionalità è stato presentato il 6 dicembre scorso da 30 deputati dell’opposizione provenienti dalle file del Partito Democratico e del Partito della Libertà.<br /><br />A seguito del pronunciamento della Corte, immediata è stata la reazione del promotore del ricorso, l’onorevole Gazment Bardhi sui social, il quale <a href="https://www.balkanweb.com/gjk-miratoi-marreveshjen-me-italine-reagon-bardhi-asnje-surprize-nga-vali-bizhgat-ne-gjykaten-kushtetuese/">ha dichiarato </a>: “Negare la trasparenza e soprattutto eludere l’opportunità di un parere consultivo da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sono una chiara indicazione che la Corte costituzionale ha perso fin dall’inizio l’opportunità di fare giustizia su questo caso”.<br /><br />Non sono mancate neanche le reazioni da parte delle organizzazioni della società civile. “La Corte costituzionale ha ignorato il fatto che sull’accordo non sono stati consultati i cittadini, soprattutto gli abitanti di quelle aree, e non sono stati nemmeno interpellati i gruppi di interesse”, recita il <a href="https://www.facebook.com/photo/?fbid=1306028550233850&set=a.1015727375930637">comunicato </a>di Qëndresa Qytetare (Resistenza civica), associazione civica attiva nella promozione dei diritti dei cittadini.<br /><br />In segno di protesta, un gruppo di giovani ha deposto simbolicamente una corona di fiori all’ingresso della Corte costituzionale, per simboleggiare il “decesso” della giustizia.<br /><br />Nelle prossime settimane verrà pubblicata la decisione della Corte sulla Gazzetta Ufficiale, dando così il via al processo di ratifica da parte del Parlamento. Il Partito Socialista al governo detiene attualmente la maggioranza di 74 deputati sui 140 complessivi.</div><div><br /></div><div><b><i><span style="color: #2b00fe;">Gentiola Madhi per <a href="https://www.balcanicaucaso.org/" target="_blank">Osservatorio Balcani Caucaso</a></span></i></b></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-43888594562316081892024-02-06T16:47:00.001+01:002024-02-06T16:47:00.120+01:00Caro Sud, ma ce l’hai un briciolo di orgoglio?<i>Sto per allietarvi con qualche riflessione sulla cosiddetta autonomia differenziata. Ma non parlerò di quando e se entrerà mai in vigore (ho molti dubbi a proposito), non mi inoltrerò nelle dispute tra verbosi legulei su Lep e clausole di salvaguardia, e neppure vi intratterrò sulle contorsioni di destra e sinistra sul tema (la sinistra che si oppone la volle nel 2001, la destra che l’approva si nutre di principi saldamente nazionalisti…). Proviamo quindi a mettere da parte le considerazioni politiche di giornata e guardiamo la cosa più da lontano. Solo così, vi assicuro, riusciremo a vederla meglio</i><br /><div><br /></div><div><b><span style="color: #666666;">di Claudio Velardi</span></b><br /><br />Le Regioni vengono “previste” dalla Costituzione del 1947 (nel famoso titolo V, poi modificato), ma De Gasperi - nella sua infinita saggezza - non ci pensa neppure a istituirle effettivamente. E così i governanti che seguono, salvo dover cedere alla fine degli anni ’60 alle pressioni della sinistra, che reclamava poteri per le cosiddette regioni rosse (Emilia, Toscana, Umbria). Quando, negli anni ’90, comincia a prendere piede la Lega – che non solo pretende più autonomia per le regioni del Nord, ma minaccia il secessionismo – la sinistra al governo risponde con la riforma del titolo V, nell’illusione demenziale di arginare così le spinte separatiste. Questa, sommariamente, la vicenda delle regioni nei suoi termini essenziali.<span><a name='more'></a></span><br />Chi, nella storia repubblicana, non ha mai reclamato alcuna autonomia o crescita di poteri è stato l’intero Sud (salvo il fenomeno indipendentista siciliano del dopoguerra, fiammata di breve durata). Ma perché il Mezzogiorno è sempre stato centralista? Perché è sempre stato dipendente e foraggiato in varie forme dal governo nazionale, e non a caso elettoralmente dominato dalla Dc negli anni della cosiddetta Prima Repubblica (dopo la storia cambia parzialmente, il Sud alterna il suo radicato governismo con qualche spinta ribellistica, ma sempre evitando come la peste ogni rivendicazione di autonomia).<br /><br />Spero quindi che non mi si accusi - che so - di “neoborbonismo” se dico che storicamente, oggettivamente, la debolezza strutturale del Sud, il divario con il Nord che cresce, la carenza insopportabile di servizi accettabili, la pochezza delle sue classi dirigenti, sono tutti fattori quantomeno legati alla sua storia fatta di subordinazione e dipendenza. Le cose sarebbero andate diversamente con un Sud più autonomo? Non lo so, la domanda è legittima. Ma il dato di fatto è sotto gli occhi di tutti. Tutti gli standards di crescita, sviluppo, formazione, infrastrutture, qualità della vita etc… dicono che il Sud è indietro, sempre più indietro.</div><div><br /></div><div><b><i><span style="color: #2b00fe;">Continua la lettura sul sito di <a href="https://www.velardi.eu/2024/01/27/caro-sud-ma-ce-lhai-un-briciolo-di-orgoglio/#" target="_blank">Claudio Velardi</a></span></i></b></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-38158518341086691492024-02-06T09:00:00.001+01:002024-02-06T09:00:00.147+01:00I rischi dell’autonomia differenziata<i>Con l’approvazione del Ddl Calderoli si confermano i pericoli di sostenibilità finanziaria a livello nazionale e di iniquità tra territori. Mentre manca ancora un meccanismo di finanziamento e perequazione delle funzioni già oggi attribuite alle regioni</i><br /><div><br /></div><div><b><span style="color: #666666;">di Ivo Rossi e Alberto Zanardi</span></b><br /><br />Il processo di attuazione dell’autonomia differenziata è arrivato a un giro di boa: il 23 gennaio il Senato ha approvato in prima lettura il disegno di legge Calderoli, che ha l’obiettivo di regolare le modalità di attribuzione e di finanziamento delle funzioni pubbliche aggiuntive richieste dalle singole regioni a statuto ordinario secondo quanto previsto dall’articolo 116, terzo comma della Costituzione. Ora il testo passa alla Camera che si prevede lo approvi definitivamente in tempi brevi, presumibilmente prima delle elezioni europee di giugno.<br /><br /><b>I prossimi passi</b><br />Una volta approvata la legge, le regioni che lo vorranno potranno subito presentare le proprie richieste di attribuzione di nuove funzioni al governo, ma limitatamente alle materie meno sensibili sul piano dei diritti civili e sociali, quelle su cui il Comitato Cassese non ha rinvenuto nella legislazione vigente rilevanti livelli essenziali delle prestazioni (Lep) rilevanti. Tra le cosiddette “materie non-Lep” ci sono settori di intervento pubblico comunque importanti, come la protezione civile, la previdenza complementare e integrativa, il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Per la richiesta di attribuzione delle (molte) altre funzioni pubbliche decentrabili – quelle di ben maggiore rilievo sul piano dei diritti dei cittadini e della portata finanziaria, come l’istruzione, la tutela dell’ambiente, le grandi reti di trasporto o gli interventi nel campo della cultura, su cui invece la normativa attuale stabilisce standard nazionali – le regioni dovranno attendere: a tutela della solidarietà nazionale, il governo dovrà prima, attraverso appositi decreti, riconoscere i relativi Lep e valutare in termini standard le risorse finanziare necessarie per garantirli nei diversi territori regionali, secondo un processo che si dovrebbe concludere – dopo il rinvio introdotto dal recente decreto Milleproroghe – entro la fine del 2024.<br /><br /><b>I punti critici</b><br />Quale giudizio si può dare dell’ormai <a href="https://lavoce.info/archives/103511/lo-spettro-di-un-paese-arlecchino/">quasi-legge Calderoli</a>? Una valutazione corretta deve necessariamente confrontarsi con quanto stabilisce la Costituzione. L’articolo 116, terzo comma prevede un catalogo amplissimo di funzioni pubbliche, oggi esercitate dallo stato in termini di potestà legislativa e amministrativa, potenzialmente decentrabili a richiesta delle singole regioni, praticamente tutta la spesa pubblica, eccetto previdenza sociale e i servizi forniti dallo stato con forti esternalità territoriali, come difesa e ordine pubblico. La frammentazione delle competenze in alcuni ambiti di intervento pubblico di primaria rilevanza che potrebbe derivare da un consistente decentramento a favore di singole regioni produrrebbe gravissime inefficienze economiche, ridurrebbe la trasparenza delle politiche pubbliche per i cittadini, renderebbe oltremodo difficili le scelte delle imprese che operano su scala sovraregionale, che dovrebbero confrontarsi con assetti regolativi differenziati sul territorio. È chiaro che, di fronte a potenziali esiti di questa gravità, una soluzione ragionevole dell’autonomia differenziata richiederà che tutti gli attori istituzionali, regioni e governo, guardino innanzitutto alla tenuta del paese, evitando decentramenti massicci di funzioni e limitando le richieste a integrazioni “al margine” delle competenze già oggi regionali.<br /><br /><b>Il “difetto di fabbrica”</b><br />Il disegno di legge Calderoli avrebbe dovuto fissare una cornice di regole generali per assicurare un’attuazione ordinata e graduale al quadro costituzionale potenzialmente produttivo di grandi instabilità. Il testo iniziale presentato dal governo a marzo 2023 (<a href="https://lavoce.info/archives/100790/se-lautonomia-contraddice-i-principi-del-federalismo/">vedi</a>), decisamente snello e di natura essenzialmente procedurale, non andava molto più in là di una serie di generici auspici, lasciando indeterminata una serie di aspetti fondamentali del rapporto tra stato e regioni richiedenti. In particolare, per quanto riguarda il meccanismo di finanziamento delle funzioni aggiuntive, il disegno di legge si limitava ad affermare il principio che l’attuazione del decentramento asimmetrico non debba comportare maggiori oneri a carico della finanza pubblica e non comprometta le risorse pubbliche disponibili nei territori che non attiveranno l’autonomia differenziata.<br /><br />Il disegno di legge approvato dal Senato, dopo la discussione parlamentare in Commissione Affari costituzionali, migliora in alcuni passaggi il testo iniziale del governo. In particolare:riconosce al governo la potestà di limitare l’oggetto del negoziato ad alcune materie o ambiti di materie tra quelli individuati dalla regione al fine di “tutelare l’unità giuridica ed economica” del paese (anche se meglio sarebbe limitare le materie dell’articolo 117, terzo comma con legge costituzionale);<br />richiede, nell’avvio delle trattative per l’attribuzione delle funzioni aggiuntive, di tener conto del quadro finanziario della regione richiedente.<br />prevede una ricognizione annuale dell’allineamento fra risorse necessarie per il finanziamento delle funzioni di spesa devolute spesa nella regione e andamento del gettito dei tributi assegnati alla loro copertura evitando che la regione si possa appropriare di eventuali extra-gettiti.<br /><br />Resta però un “difetto di fabbrica” che potrebbe nei fatti indebolire di molto questi aggiustamenti e produrre rischi di sostenibilità finanziaria a livello nazionale e di iniquità tra territori. La determinazione delle risorse finanziarie, umane e strumentali, da attribuirsi alle regioni differenziate resta demandato alle singole intese, e dunque a una molteplicità di atti bilaterali. Se è gioco forza che le intese definiscano le funzioni da attribuire, non lo possono essere i criteri, che invece dovrebbe essere indicati nella legge in approvazione.<br /><br />Questa molteplicità di possibili letture viene poi esaltata dall’assegnazione dei compiti di attribuzione delle risorse finanziarie, umane e strumentali alle commissioni paritetiche, una per ogni regione, la cui composizione, per come indicato nel testo (stato-regione-autonomie locali) sembra più tripartita che paritetica. Va da sé che l’assegnazione a una molteplicità di commissioni della valutazione delle risorse da attribuire, regione per regione, fa venir meno qualsiasi logica unitaria che invece dovrebbe essere posta a presidio di un coordinamento trasversale, sia per le regioni che per lo stesso stato. Il ruolo attribuito alle commissioni paritetiche introduce un pericoloso vulnus tanto più se a queste viene assegnato il compito di valutare l’allineamento fra i fabbisogni di spesa già definiti e l’andamento del gettito dei tributi compartecipati con conseguenti aggiustamenti delle aliquote di compartecipazione.<br /><br />Infine, e indipendentemente dai contenuti del disegno di legge Calderoli, è il quadro complessivo dell’attuazione del federalismo regionale che sembra andare contro la prospettiva di un sistema ordinato e solidale di decentramento. È infatti difficile far funzionare il finanziamento delle funzioni aggiuntive per alcune specifiche regioni (quelle differenziate) se prima, o quantomeno parallelamente, non viene data attuazione al meccanismo di finanziamento e perequazione delle funzioni già oggi attribuite a tutte le regioni (federalismo simmetrico). Quel meccanismo, fatto di tributi regionali propri, compartecipazioni su tributi erariali e fondo perequativo basato su fabbisogni standard e capacità fiscali, è ancora lettera morta dalla legge sul federalismo fiscale del 2009. E, benché l’attuazione del federalismo regionale simmetrico sia prevista come “riforma abilitante” tra gli interventi del Pnrr, non sembra suscitare altrettante attenzioni e passioni da parte della politica come l’autonomia differenziata.<br /><br /><b><i><span style="color: #2b00fe;">Ivo Rossi e Alberto Zanardi per <a href="http://Lavoce.info" target="_blank">Lavoce.info</a></span></i></b></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-76003314276441241942024-01-31T08:00:00.001+01:002024-01-31T08:00:00.138+01:00Se Trump torna alla Casa Bianca<i>Se a novembre Donald Trump sarà rieletto alla presidenza degli Stati Uniti, costruirà una amministrazione più coesa e “fedele”. La politica estera assumerà toni più aggressivi, ma sui dossier più scottanti non dovrebbero esserci cambiamenti eclatanti</i><br /><br /><b><span style="color: #666666;">di Mario Del Pero</span></b><br /><br />A meno di svolte che per il momento non appaiono all’orizzonte, tutto lascia presagire che Donald Trump sarà il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti e in novembre assisteremo alla replica della sfida del 2020 con Joe Biden. Che impatto ha tutto ciò sull’azione internazionale degli Stati Uniti e che tipo di politica estera è possibile immaginare nel caso dovesse insediarsi una seconda amministrazione Trump, dopo quella del 2017-2021? <span><a name='more'></a></span>Si può provare a rispondere individuando schematicamente alcuni punti su cui soffermarsi.<br /><br /><b>Il potere del presidente in politica estera</b><br />Il primo punto è che la politica estera e di sicurezza pone a chi guida gli Stati Uniti più vincoli e costrizioni di quella interna. Mille caveat sarebbero qui necessari: da un lato, <a href="https://tnsr.org/2020/04/recentering-the-united-states-in-the-historiography-of-american-foreign-relations/">le dinamiche interne e quelle internazionali sono strettamente interdipendenti</a> e dall’altro si deve evitare di credere all’idea, storicamente infondata ma ancora popolare, secondo la quale negli Usa la politica estera verrebbe condotta sulla base di un solido consenso bipartisan e di una definizione condivisa dell’interesse nazionale.<br /><br />Detto ciò, è chiaro che vincoli sistemici e sfide inattese e imprevedibili circoscrivono la libertà d’azione e limitano la stessa sovranità anche della potenza superiore dell’ordine globale, quale gli Usa continuano a essere. In una certa misura lo abbiamo già sperimentato con la prima presidenza Trump, durante la quale lo scarto tra retorica e politiche non fu determinato solo dall’incompetenza e dallo scarso interesse del presidente verso l’arte e la fatica del governo (che pure pesarono), ma anche dalla oggettiva impossibilità di promuovere svolte radicali: di sostanziare coerentemente quella promessa di totale discontinuità su cui si era basata l’ascesa politica del tycoon newyorchese.<br /><br />Anche perché – ed è il secondo punto – benché a volte lo dimentichiamo, la politica estera degli Usa continua a essere <a href="https://global.oup.com/ushe/product/american-foreign-policy-9780199350834?cc=us&lang=en&">il prodotto di un processo pluralistico</a>, e non di rado conflittuale, a cui partecipano una molteplicità di soggetti, come in fondo abbiamo visto in questi ultimi mesi. <a href="https://thehill.com/homenews/4360407-congress-approves-bill-barring-president-withdrawing-nato/">Quando il Senato ha ad esempio approvato una misura che rende molto difficile, se non impossibile, uscire dalla Nato</a> (la decisione dovrebbe essere ratificata, come da costituzione per i trattati, da una maggioranza qualificata dei due terzi dei senatori). Oppure quando <a href="https://www.ft.com/content/a8633d7f-f785-4195-b0b2-0ea9506968c9">numerosi gruppi imprenditoriali statunitensi</a> hanno preso posizione contro il disegno di Biden di ridurre la presenza cinese in catene di valore nelle quali invece la Cina continua a essere indispensabile.<br /><br /><b>Gli effetti del ritorno di Trump sulla scena</b><br />Fatte queste banali premesse metodologiche, è bene soffermarsi sull’impatto che la semplice ricandidatura di Trump – e quindi il suo controllo sulla maggioranza dell’elettorato repubblicano – ha già avuto (e continua ad avere). La vediamo su due ambiti principali, non casualmente accorpati nella prostrante discussione in corso da mesi alla Camera dei rappresentanti: l’Ucraina e la questione dell’immigrazione al confine meridionale con il Messico.<br /><br /><a href="https://www.pewresearch.org/short-reads/2023/12/08/about-half-of-republicans-now-say-the-us-is-providing-too-much-aid-to-ukraine/">Sulla decrescente disponibilità a continuare a finanziare la difesa dell’Ucraina</a> pesano una pluralità di fattori, dal (fisiologico) calo dell’entusiasmo iniziale alla disillusione sia rispetto alla controffensiva di Kiev, sia all’impatto di sanzioni economiche che, negli auspici, avrebbero dovuto portare al collasso del regime putiniano. Ma pesa, e pesa tantissimo, la rinnovata ipoteca di Trump sul partito repubblicano. Sappiamo quanto critico sia l’ex presidente nei confronti delle politiche adottate verso la Russia e la sua poca simpatia verso Zelens’kyj e l’Ucraina. Se vogliamo vedervi una qualche dignità strategica, la posizione di Trump riflette un più generale anti-interventismo e, assieme a questo, l’ostilità ad azioni multilaterali e atlantiche quali quelle attivate dagli Usa in risposta all’aggressione russa dell’Ucraina. La fatica nell’approvare nuove linee di aiuti a Kiev è quindi conseguenza anche del ritorno di Trump. <a href="https://www.nytimes.com/2024/01/04/us/politics/biden-immigration-republicans-democrats.html">Così come lo sono le azioni di sindaci e governatori democratici</a> in patente difficoltà rispetto a un tema – la crescita dei flussi d’immigrati messicani e centro-americani – che pare essere andato fuori controllo e rischia di avere un forte impatto elettorale in novembre. Una emergenza (o presunta tale), che rende sempre più complicato ed elusivo il compromesso che Biden (e prima ancora Barack Obama) hanno invano cercato tra un rafforzamento dei controlli al confine meridionale, l’intensificazione e accelerazione delle espulsioni e una qualche forma di sanatoria per gli 11-12 milioni d’immigrati “illegali” che risiedono nel paese, a partire da quelli entrati negli Usa quando erano ancora minori.<br /><br /><b>Trump II con una amministrazione più coesa</b><br />Per quanto riguarda un ipotetico Trump II, un aspetto da sottolineare è che difficilmente assisteremo ai compromessi e agli equilibri politici che contraddistinsero la sua prima amministrazione. Non avremmo insomma conservatori internazionalisti classici come il segretario di stato Rex Tillerson o il consigliere per la sicurezza nazionale H.R. McMaster. E men che meno aggressivi neocon come John Bolton (che nel 2018 sostituì McMaster). <a href="https://www.heritage.org/conservatism/commentary/project-2025">Il progetto trumpiano (e della Heritage Foundation) di procedere a un radicale ripulisti della burocrazia federale</a> si estende peraltro anche al Dipartimento di Stato, dove già nella prima esperienza di Trump si assistette a numerose dimissioni. È lecito prevedere un’amministrazione più coesa, composta da lealisti trumpiani accuratamente selezionati.<br /><br />Se Trump sarà eletto, la sua amministrazione sarà dunque più coerente, radicale e, si presume, incisiva di quanto non fu la prima. Per fare cosa? Al servizio di quale disegno strategico? Su quali dossier? E con quale lessico? Su questo possono probabilmente servire da bussola i principali documenti strategici del 2017-2021, a partire dalla <a href="https://trumpwhitehouse.archives.gov/wp-content/uploads/2017/12/NSS-Final-12-18-2017-0905.pdf">National Security Strategy (Nss) del dicembre 2017</a> (l’unica strategia prodotta nel quadriennio).<br /><br />La retorica sarà quella di un aspro realismo, fondato sull’asserita necessità di recuperare la sovranità perduta (“difendere senza scuse la sovranità dell’America”, asseriva la Nss), di difendere l’interesse nazionale e di considerare le alleanze – anche quelle con i più importanti partner europei e asiatici – funzionali, contingenti e in ultimo transactional. Varie politiche saranno adottate per raggiungere questi obiettivi. Innanzitutto, il sostegno all’industria estrattiva, giustificato dalla necessità di raggiungere una piena autosufficienza (e quindi sovranità) energetica e fondato sulla negazione del cambiamento climatico. Il corollario, qui, sarà ovviamente l’abbandono della Cop28 e degli accordi multilaterali sul clima (<a href="https://journals.sagepub.com/doi/full/10.1177/00471178231153555?casa_token=gYXafKf47OoAAAAA%3AXbvBpvzAuboECbpDmkjyvWB-fmYHNXahk0AOnCN3aX0cDwrRPHnTXSgc5VbDn-_msY-e0T5few">come Trump fece già nel 2017</a>). In secondo luogo, la politica di sostegno al manifatturiero sarà quasi certamente perseguita per il tramite di nuove guerre commerciali nelle quali non si discriminerà tra alleati e avversari e che prenderanno quindi di mira anche i partner europei, Germania su tutti. Infine, si adotteranno politiche draconiane rispetto al controllo del confine meridionale e all’espulsione degli immigrati illegali.<br /><br />Rimangono due dossier critici – Cina e Medio Oriente – sui quali forse le discontinuità saranno meno marcate (anche se tutto, come sempre, dipenderà da dinamiche e attori che gli Usa possono solo in parte controllare e determinare).<br /><br />L’idea che la Cina sia ormai un competitore degli Usa, e che sia fondamentale giungere a un qualche disaccoppiamento delle due economie e a una riduzione del potere di condizionalità di Pechino sulle catene transnazionali di valore, costituisce <a href="https://www.cato.org/commentary/bipartisan-race-be-tough-china">uno dei pochi terreni di convergenza bipartisan che sono rimasti</a>. Con Trump si alzerà quasi sicuramente l’asticella dell’aggressività retorica nei confronti di Pechino, ma è difficile immaginare svolte radicali. Così come è difficile immaginarle rispetto al Medio Oriente e al conflitto israelo-palestinese, su cui un’amministrazione repubblicana sarebbe oggi ancor più schierata a fianco di Benjamin Netanyahu e della destra israeliana.<br /><br />Lo scarto tra retorica e politiche sarà presumibilmente marcato. Così come lo sarà la coerenza di un’azione internazionale esposta anch’essa alle intemperanze e ai capricci di un presidente noto per la poca pazienza e il sostanziale disinteresse verso le minuzie e la complessità dell’azione di governo, oltre che incline a repentini mutamenti di umore e di linea (si pensi solo all’atteggiamento nei confronti della Corea del Nord durante il suo primo mandato).<br /><br />È presumibile che soprattutto in una prima fase, Trump adotterà provvedimenti dall’alta valenza simbolica, atti a soddisfare il suo elettorato più militante, simili al <a href="https://www.federalregister.gov/documents/2017/02/01/2017-02281/protecting-the-nation-from-foreign-terrorist-entry-into-the-united-states">suo primo Travel Ban</a>, dall’evidente contenuto islamofobo, del gennaio 2017, che le corti poi bloccarono.<br /><br /><a href="https://www.washingtonpost.com/opinions/2023/11/30/trump-dictator-2024-election-robert-kagan/">Da più parti</a> si sottolinea come l’impatto più marcato di un Trump 2 lo si avrebbe sul piano interno e su una democrazia oggi in sofferenza, che rischierebbe di essere resa ancora più fragile. È però chiaro che anche su questo i riverberi sarebbero ben più ampi: una crisi, e una eventuale implosione, della democrazia statunitense – ipotesi tutt’altro che irrealistica alla luce di quanto abbiamo visto negli ultimi anni – sarebbe destinata ad avere un impatto che va ben al di là dei confini statunitensi. Se anche non dovesse realizzarsi una deriva autoritaria, a essere messa a dura prova sarà la tenuta di un “elastico” federale già teso oltre il limite di guardia, a causa <a href="https://www.guttmacher.org/state-policy/explore/state-policies-later-abortions">di divergenze estreme di politiche pubbliche</a> che riflettono la radicale polarizzazione in atto; ma anche come conseguenza di azioni di politica estera – si pensi appunto ad ambiente e immigrazione – che portano stati e municipalità a rispondere con contro-politiche, alimentando una dialettica tra poteri fattasi a sua volta sempre più tesa e conflittuale.<div><br /></div><div><i><span style="color: #2b00fe;"><b>Mario Del Pero per <a href="http://Lavoce.info">Lavoce.info</a></b></span></i></div>Unknownnoreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-6291588463304534267.post-25960033307941511942024-01-30T17:29:00.003+01:002024-01-30T17:29:36.897+01:00Se la sinistra accusa la destra di non essere abbastanza nazionalista<i>Negli scorsi anni l’idea che i confini siano in qualche modo “sacri” è tornata al centro di numerose scelte politiche</i><div><br /></div><div><b><span style="color: #666666;">di Istituto Bruno Leoni</span></b></div><div><br />La sinistra ha scoperto scoperto Patria e Nazione. Dev'essere una passione tardiva ma travolgente: risulta altrimenti inspiegabile la foga con cui diversi esponenti dell’opposizione si scagliano contro il governo, attaccandolo per insufficiente nazionalismo.<br /><br />La scorsa settimana, per esempio, l’ex segretario del Partito democratico, Nicola Zingaretti, ha postato sui social una bandiera italiana al grido “la destra al Senato approva la legge spacca-Italia. No alla secessione. Viva l’Italia unita e più giusta”. L'ex segretario del Pd ha esortato Fratelli d’Italia e Forza Italia a cambiare nome, dopo l'approvazione del ddl Calderoli. <span><a name='more'></a></span>Rimandati a settembre in nazionalismo.<br />In tema di privatizzazioni, sui social gira una card del Pd che accusa il governo di “svendere gli asset (sic) del paese”. Per il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni “le privatizzazioni sono l'ennesimo gigantesco autogol di una politica cieca di questo governo, incapace di fare i conti con una cosa molto semplice: l'economia di questo Paese ha avuto grandi potenzialità di sviluppo quando è stata in qualche modo orientata dalla capacità del pubblico di indicare le strategie”. Da proletari di tutto il mondo, a patrioti di tutta Italia unitevi (a sinistra).<br /><br />Qualunque cosa se ne pensi, le preoccupazioni sia per le <a href="https://www.brunoleoni.it/privatizzazioni-vendere-piu-comprare-meno">privatizzazioni</a> sia per l’<a href="https://www.brunoleoni.it/la-riforma-non-ferisce-la-costituzione">autonomia</a> sono grandemente esagerate. Le conseguenze dell'una e delle altre saranno limitate. Non è detto siano tutte positive, ma quelle negative lo saranno precisamente per le ragioni opposte a quelle sottese alle critiche di Zingaretti o Fratoianni. Privatizzazioni in cui lo Stato non perde il controllo delle aziende tutto fanno fuorché aprire i mercati alla concorrenza straniera: magari possono servire a migliorare la governance delle imprese pubbliche, ma non a immergerle nella competizione. L'autonomia può risultare in valori di spesa pubblica maggiori, proprio al mezzogiorno. Certamente non si tratta del federalismo competitivo, che incentiva i cittadini a votare con i piedi e scegliere di risiedere nelle regioni col mix più favorevole tasse/servizi pubblici.<br /><br />Negli scorsi anni l’idea che i confini siano in qualche modo “sacri” è tornata al centro di numerose scelte politiche: dalla dilatazione del golden power fino alle incongrue promesse di proteggere l’agricoltura italiana non solo dalla concorrenza estera, ma addirittura dall’innovazione tecnologica. Il neo-nazionalismo è ormai diventato qualcosa di più di un codice condiviso da destra e sinistra: è uno strumento di reciproca accusa politica. Ed è paradossale che tutto ciò avvenga proprio quando stanno diventando evidenti i rischi e i costi dei protezionismi. Basta leggere i periodici rapporti del <a href="https://www.globaltradealert.org/">Global Trade Alert</a> per realizzare quanto dappertutto la politica cerchi di ricostruire muri che negli ultimi trent'anni erano stati abbattuti. Per quanto l'innovazione tecnologica e le prassi di imprese ormai abituate a muoversi sui mercati internazionali stiano arginando queste tendenze, non è difficile immaginare che il rifiuto della globalizzazione, anzitutto sul piano ideologico, ci condannerà a un mondo caratterizzato da minori tassi di crescita e ancora maggiori occasioni di conflitto.<br /><br />Sarebbe auspicabile che l'opposizione si preoccupasse di questo, anziché giocare a chi è più "patriota" col governo.</div>Unknownnoreply@blogger.com0