Anno IX - Numero 9
Ci sono due modi di essere imparziali: quello dello studioso e quello del giudice.
Marc Bloch

giovedì 14 gennaio 2021

Libertà di espressione e violenza

Sei cose (e una postilla) a partire dal ban di Trump, su libertà di espressione e violenza, sui social e non solo

di Fabio Chiusi*

Primo
Libertà di espressione e chiamata alla violenza non c’entrano nulla. Se Facebook rimuove un mio post in cui chiedo, anche velatamente, ai miei amici o follower di picchiare x, non sono stato “censurato da un monopolista privato”: mi è stato giustamente impedito di arrecare danno alla salute di x. Se io comunque imperterrito continuo per mesi ad attentare alla vita di x, y, z o della collettività democratica tutta, e Facebook (o Twitter, o Twitch, o Instagram, o che piattaforma volete) mi sospende il profilo a tempo indeterminato, di nuovo non sono stato “censurato da un monopolista privato”: sono stato accompagnato alla porta dal padrone di casa, prima di poter sparare (o far sparare) ai commensali. Il mio diritto di dire finisce quando, dicendo, metto a repentaglio il diritto degli altri di esistere a prescindere da cosa io pensi di loro. E sapete perché Twitter ha bannato Trump? Tra gli altri motivi, perché ha trovato piani per ulteriori violenze, direttamente collegati alle parole di Trump. Meglio contare altri morti il 17 gennaio o un profilo Twitter in meno?
Secondo
Se queste elementari regole di civiltà valgono per me, che sono un cittadino qualunque, debbono valere a maggior ragione — e molto di più — per un leader politico con milioni di seguaci. Lo scrivo da tempo immemore, nel disinteresse generale (perché della libertà di espressione dei comuni mortali non interessa mai a nessuno: interessa molto, invece, per qualche ragione, quella dei potenti, meglio se estremisti): maggiori le responsabilità pubbliche e il seguito, maggiori devono essere le restrizioni e i controlli. In un mondo civile questo sarebbe conseguenza logica del fatto che chi rappresenta le istituzioni dovrebbe farlo con “disciplina ed onore” (art. 54 Cost., per es.), cioè fungere da modello di civiltà e non di barbarie; ma siccome non siamo in un mondo civile, meglio un tweet rimosso in più che qualche morto a terra in più, come detto, come conseguenza di parole “libere” ma violente. Davvero rimpiangiamo uno status quo in cui per un comune cittadino è l’arbitrio totale, in assenza di qualunque trasparenza o reale meccanismo di appello, mentre per i leader politici, gli influencer e chiunque porti grossi volumi di traffico alle piattaforme è la licenza assoluta o quasi di dire e fare la qualunque? Oggi che si inverte finalmente la tendenza, ci si lamenta — mentre fino a ieri, che la tendenza era inaccettabile, andava bene così? Complimenti ai “cani da guardia” dei cittadini, invece che dei potenti.

Terzo
Fino a ieri si diceva: “I social media, non eliminando odio, violenza e fake news, distruggono la democrazia”. Quante volte lo abbiamo letto? Ne hanno fatto bestseller, TED talk virali, infiniti editoriali indignati — e, in alcuni casi, anche vere e proprie norme, per costringere a rimozioni rapide, idealmente istantanee (tramite filtri stupidi, ma automatici — quindi accettabili per chi ancora caschi nel mito della neutralità e oggettività degli algoritmi). Ora che le piattaforme hanno finalmente agito, mettendo al bando quello che molto probabilmente è il più grande odiatore bugiardo e istigatore di violenze della storia contemporanea in contesti democratici, dovremmo dunque assistere a un tripudio, un coro di celebrazioni. Non si chiedeva facessero proprio quello? E invece no. Ora il coro dei critici dice che i social media restano comunque una minaccia per la democrazia perché avrebbero violato la libertà di espressione (no, vedasi punto 1) del suddetto odiatore bugiardo e istigatore di violenze. Come? Impedendogli di fare l’odiatore bugiardo e istigatore di violenze. Non ci capite più niente? Esatto, nemmeno io.

Quarto
“Ma così si crea un precedente!” Sì, e finalmente. A parte che i precedenti non sono granito, non sono immodificabili, non ci costringono a diventare algoritmi che ubbidiscono al precedente, sempre e in ogni circostanza. Il punto è che era ora di dire basta. Anzi, il vero problema è che le piattaforme abbiano agito solo ora che c’è stata una tentata insurrezione in Campidoglio, e che ci sono morti a terra (ovviamente quando le insurrezioni e i morti sono altrove tutto ciò non accade: gli USA sono ancora il centro del mondo, quando si parla di politiche tecnologiche, visto che le aziende che regolano il nostro dire sono — ancora e in massima parte — statunitensi). Dovevano farlo molto prima, soprattutto visto che le parole del suddetto odiatore e istigatore di violenza (Donald Trump) sono le stesse da mesi, e le conseguenze logiche si potevano e dovevano tirare molto prima che una banda di terroristi estremisti assaltasse le stanze che rappresentano — nel bene e nel male — la democrazia occidentale, distruggesse postazioni e aggredisse giornalisti, scrivendo sulla porta d’ingresso (ma è la loro libertà di espressione, giusto?) “murder the media”. Andavano fermati molto prima, e questa è una enorme responsabilità storica delle piattaforme, che non si può tacere.

Quinto
No, non abbiamo comunque trovato una panacea a ogni male. Le piattaforme sono incoerenti e ipocrite, seguono l’opinione pubblica e i loro interessi quanto tutti i soggetti con interessi come i loro. Molti altri violenti saranno ospitati su piattaforme: la violenza è parte ineliminabile dell’umano, e quando ci sono milioni di contenuti al minuto come si fa controllo editoriale su ciascuno di essi prima che diventi pericoloso? (Per questo chi dice che i social media sono editori sbaglia completamente: un editore può controllare facilmente ogni contenuto da lui prodotto — anche se, come ben sappiamo, molto spesso non lo fa, producendo il giornalismo penoso che finisce poi per ingrossare le fila di violenti e complottisti; ma di questo non ci piace parlare, ci piace parlare dei social media cattivi in isolamento dal resto del contesto mediatico, che fa più contemporaneo) E no, non esiste un sistema di credenze perfettamente coerente che consenta di gestire in modo infallibile ogni questione di moderazione dei contenuti in un’era come la nostra. Semplicemente, dobbiamo ragionare caso per caso, e non possiamo né dobbiamo impedire ai futuri casi ipotetici di agire su un reale caso attuale. La violenza è qui e ora, non è un’ipotesi astratta.

Sesto
Siamo davvero ossessionati dai social media. C’è stato un tentato colpo di Stato nella democrazia più rappresentativa dell’idea di democrazia (di nuovo, non concordo con l’idea ma questo è il messaggio che passa da decenni) del mondo, ci sono morti, ci sono minacce concrete di altra violenza, ci sono testate e network tv che continuano a screditare le istituzioni democratiche e il risultato delle elezioni senza alcuna prova, estremisti intervistati come intellettuali — ma il problema sono Facebook e Twitter. Viviamo tutti dentro a un enorme incubo di determinismo tecnologico, dove la politica, la storia, la società, l’individuo nella sua interezza ormai contano solo in quanto profili, pagine, account, bot o simili. Dobbiamo uscire da questo incantesimo maledetto, o usciremo dalla civiltà in quanto tale: non si può scambiare l’esistenza con la comunicazione.

Postilla: sì, anche quello su Facebook (da cui questo articolo è stato estratto, n.d.r.) è uno spazio di discussione *privato*, non un servizio pubblico. Lo accettiamo ogni volta che lo usiamo. Volete un social network di Stato? Bene, se pensate sia una buona idea, chiedete venga realizzato. Ma lamentarvi che il privato che vi apre la porta di casa faccia le regole di ospitalità in casa sua è, francamente, ridicolo.

*Fabio Chiusi è giornalista, ricercatore e autore di saggi su informazione, sorveglianza e democrazia in rete. Fellow del Centro Nexa su Internet & Società, ha lavorato come Assistant Researcher al progetto ‘Journalism AI’ del think tank Polis della London School of Economics con la collaborazione della Google News Initiative. Qui la sua pagina Facebook

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